La storia di fra Lorenzo da Sardara in un libro. Riflessioni e divagazioni, di Gianfranco Murtas

Ripenso ai cognomi sardi sardissimi: Peis, Medda, Zucca, Pinna. E credo abbiano rallegrato l’albero onomastico degli avi, dei collaterali e dei discendenti i minori cappuccini, fratelli-figli di San Francesco d’Assisi, quando pure si siano liberati, simbolicamente, dalle pur onorevoli radici del sangue per portarsi all’elezione puramente evangelica. Quella elezione tradotta nella prossimità del servizio, per il più – nella sequenza di due secoli – nella questua, dai poveri ai poveri tanto spesso, poi sempre nell’ascolto e nel consiglio, nell’ascolto però più che nel consiglio. Nell’ultimo caso anche nel soccorso farmaceutico ed in una rete solidaristica che ha anticipato le mille mani tese della benemerita Caritas diocesana e regionale.

Ho letto le pagine di Fra Lorenzo. Una vita per gli altri, la bella opera che Paolo Matta ha donato nelle scorse settimane alla collana La biblioteca dell’identità, messa in campo ormai da molti anni da L’Unione Sarda e ad implementazione progressiva, nella varietà dei filoni trattati. E le suggestioni, che ovviamente hanno centrato la fascinosa personalità del protagonista, o da quella siano sprigionate, spaziando fra la sua intima spiritualità e la sua concreta azione missionaria, si sono ovviamente estese ai molti mondi che con la vicenda umana del frate sardarese hanno interagito lungo quasi un secolo, a cominciare dalla famiglia religiosa dei cappuccini sardi per arrivare agli infiniti bisogni morali e materiali che alla confidenza di questi si sono portati contando in una risposta. Dico: una risposta anche o perfino silente, perché il silenzio può essere espressivo talvolta più delle parole. Perché il silenzio racconta l’accoglienza che è propria dell’ascolto. Perché lì sa essere, io credo, la sapienza sociale dei santi i quali onorano il protagonismo altrui, quello dei quidam, e non impongono il proprio.

Nelle suggestioni larghe cui mi sono riferito entrano poi i ricordi delle visite, da piccoli e da grandi, ai presepi che, edizione dopo edizione, hanno incantato lungo ormai settant’anni la città e l’Isola. Entrano le dinamiche della chiesa-santuario, l’una dedicata a Sant’Antonio da Padova l’altro a Sant’Ignazio da Laconi (il bis in città dopo l’associazione, pure di taglio francescano, fra Santa Rosalia vergine palermitana e San Salvatore da Horta: ma belle combinazioni cagliaritane si trovano, sopra altri spazi spirituali, devozionali e perfino civici, anche a San Lucifero, per il titolo della Beata Vergine del Rimedio ed a Santa Lucia, per il rimando all’originario San Benedetto). Dico di dinamiche non chiuse al recinto cittadino, ma ampie, in dilatazione diocesana e provinciale, e anzi regionale, com’è nella logica stessa di santuari e basiliche che fuoriescono, per il più, dai rigori canonici delle giurisdizioni vescovili, e piuttosto allignano all’interno dei carismi degli ordini regolari (da noi, dai francescani ai domenicani, dai gesuiti ai mercedari).

In quel particolare carisma cappuccino – veicolato nel territorio isolano ora sono già quasi cento anni! anche da un periodico di indovinata qualità com’è Voce Serafica della Sardegna, a larghissima rete di abbonati – entrano a pieno titolo le attività caritative che, seguendo le necessità dei tempi, evolvono dalla generosità dello spontaneismo a quella dell’organizzazione. E’ su questo fronte che ha preso corpo, ora non è molto tempo, per festeggiare al meglio i 75 anni di vita religiosa del Nostro, l’associazione “Amici di Fra Lorenzo”, perfetto sviluppo dell’opera avviata nel 1957 e nota come “farmacia dei poveri”. Fra Lorenzo stesso, impasto meraviglioso di spiritualità naturale e di tensione modernista (aperta addirittura alle più avanzate tecnologie elettromeccaniche ed elettroniche), è stato apripista e testimonial di una carità ordinaria, consueta, quotidiana, efficace forse più che efficiente, se si considera – e non dovrebbe essere – l’efficienza svincolata dalla norma morale.

Gli Amici di fra Lorenzo

Ma, ancora divagando, c’è un altro aspetto che meriterebbe un… supplemento di indugio. Lo derivo da una parola: “prediletti”. E’ stato fra Lorenzo medesimo a pronunciare quell’aggettivo in una bella intervista concessa, mi pare nel 2013, a Sergio Nuvoli per il giornale diocesano ch’egli allora dirigeva. Diceva il radioso cappuccino delle persone assistite dall’associazione dei suoi amici: «mi piacerebbe venissero considerate parte dell’associazione. Quando entrano a farne parte, consideriamo gli assistiti “soci prediletti”. Non sono degli estranei…».

Lo stesso aggettivo valeva come sostantivo, nel Sei-Settecento e anche dopo, per qualificare i soci di altre compagnie confraternali: penso adesso alla Congregazione del SS. Sacramento, cui ho dedicato qualche studio particolare riferendolo alla parrocchia cagliaritana di Sant’Eulalia (c’è, in materia, un bellissimo libro a firma di don Mario Cugusi, con la grafica di Daniele Pani, che meriterebbe di essere meglio conosciuto). Ecco qui: “prediletto” non è più, o non è tanto, il benefattore, ma il beneficato. Sempre che poi non sia, nella verità profonda delle cose ed in ogni situazione, il beneficato a meritare anche il titolo di benefattore, per le opportunità ch’egli offre al suo prossimo di dare effettività al potenziale insieme umanistico e caritativo che è nella bisaccia (spesse volte chiusa) di tutti quanti.

E’ a Sardara (e nei paesi del circondario) che l’associazione “Amici di Fra Lorenzo” ha preso le mosse, contando sul buon volere intanto dei parenti stretti – parenti di sangue e parenti di elezione – del religioso, e poi naturalmente dei molti, sempre più numerosi, orgogliosi di esserci. E questa considerazione, che guarda ai fatti, mi porta ai brevi rioni di questo paese antico e dolce, laborioso e gentile, educato da una salda disciplina ma anche festoso.

Ripenso a fra Lorenzo intanto immaginandolo muoversi, bambino e ragazzino, nelle scene del suo paese, all’inizio fra la casa di famiglia e la scuola, e naturalmente la parrocchia del battesimo e della sua primissima formazione, seppure formazione incerta e scialbata, destinata a recupero accelerato negli anni più inoltrati dell’adolescenza. Nel che – nella dimensione paesana cioè – io credo sia contenuto molto del fascino più intimo, quello strettamente personale della storia di Benvenuto Pinna sardarese classe 1919, storia di un uomo di provvidenza chiamatosi, fra 1936 e 1937, frate Lorenzo da Sardara.

La metto così, per come conosco, avendola anche vissuta, la diocesi pluricentrica di Ales-Terralba e indugiando prima, un attimo almeno, attraverso la memoria delle carte e dei racconti, su cosa fosse Sardara nel 1919… in verità dico di Sardara così come forse potrei dire di qualsiasi altro nostro paese sardo all’indomani della fine della grande guerra, nei lunghi mesi (e anzi anni) di resistenti, permanenti squilibri interni alle comunità, nella faticosa ricerca di nuovi assetti nelle attività di lavoro degli smobilitati restituiti alla vita civile, e ancora nei tempi spesi cercando e donando consolazione per i lutti sofferti, metabolizzando una complicata soddisfazione per i riconoscimenti al valore militare giunti dai comandi supremi.

Sardara e la grande guerra

Per quanto compiuto nell’estate del 1916  sull’altipiano carsico era stato decorato con l’argento l’aspirante ufficiale di fanteria Oreste Massenti, che l’anno successivo aveva bissato e valorose imprese (sul Monte Zebio) e medaglie di merito; per l’azione sul Monte Mrzli l’argento l’aveva ricevuto anche il caporale del genio Luigi Atzori, mentre il bronzo aveva premiato il fante Massimo Carrogu, distintosi alle Frasche; altro argento aveva ottenuto il carabiniere della compagnia autonoma Luigi Onnis, valoroso sul Monte Cucco, nella primavera del 1917, ed il bronzo, per le azioni a Castagnevizza od a Korite, era toccato ai fanti Cesare Carrogu ed Massimo Scano, ed ancora all’aspirante ufficiale Rinaldo Massenti, per aver sfondato la trincea nemica a Menara e altrove… Ogni volta che dal fronte giungevano notizie la comunità si era raccolta attorno alle famiglie toccate dalla sorte, per confortarle delle ferite e mutilazioni che avevano offeso questo o quel congiunto – il primo era stato un giovanissimo soldato di fanteria, Massimo Atzori, distintosi al Bosco Cappuccio nell’ottobre 1915 – , più ancora s’era mossa per il compianto.E quanti ce n’erano stati, e quanti ancora continuavano a pervenirne, di dispacci e comunicazioni degli alti comandi o del ministero della guerra…

In prigionia, per il più per malattia, se n’erano andati Antonio Camillo Altea dell’82° reggimento fanteria e Angelo Caddeo del 6°, Giovanni Francesco Casti dell’89° e Giovanni Lecis del 152°… – 25, 33, 21 e 22 anni soltanto – ed i loro corpi erano portati in cimiteri lontani, in Boemia o in Moravia, oppure in Austria o in Francia, perduti per sempre… Antonio Ginesu, 26enne del 46° fanteria, era scomparso a Sedico, Raimondo Loi del 2°bersaglieri era invece morto per le ferite riportate in un’azione sul Monte Nero ed era stato sepolto a Caporetto, terra destinata a diventare slovena…  C’erano poi i caduti nelle terre libiche o in Macedonia, fra 1917 e 1918 : così Massimino Cadeddu, Antonio Manca, Francesco Tuveri, 80 anni in tre… Ventenne era perito, nell’affondamento di una nave, Vittorio Piano, in forza al 31° fanteria…

Una lapide di marmo, con due fiaccole ai lati, era stata affissa alla facciata del palazzo comunale, e doveva onorare le memorie dei figli di Sardara perduti per sempre, quasi tutti prima di essere diventati adulti davvero. I nominativi incisi erano 48. Lo stato morale del paese nell’anno di nascita di Benvenuto Pinna e nell’anno dopo, negli anni in cui, piccolo di casa, egli iniziava a camminare ed a parlare, era quello di una comunità trafitta come tutte le altre della Sardegna e dell’Italia nel gran macello voluto da arroganze imperiali e volgari interessi dei mercanti d’armi. Il fascismo s’era poi progressivamente impadronito di tutto, del sentimento della gente, delle sue frustrazioni e delle sue speranze di recupero. A Sardara come ovunque.

Nel 1931 – Benvenuto Pinna aveva appena finito il corso alle elementari e s’era già aggregato al padre nei lavori di campagna – i nuovi impianti avevano finalmente portato la luce elettrica nelle case, nel 1936 i regolamenti igienico-sanitari del municipio avevano offerto un miglior indirizzo al decoro complessivo dell’abitato. Il mitico dottor Diana (“su dottori ‘e is poburus” assistito dall’onnipresente infermiera Annixedda Cadeddu) vigilava e soccorreva. Naturalmente il regime aveva introdotto le sue strutture sia edilizie che organizzative: era sorta la casa del Balilla (o della GIL), sulla prima pietra benedetta anch’essa nel fatidico 1936. Intanto però aveva preso a funzionare la scuola materna affidata nel 1930 alle suore del Cottolengo (e in quel luogo, più di recente, è stato fissato l’alloggiamento dell’associazione “Amici di Fra Lorenzo”).

Entro tali coordinate si può immaginarla la vita di Benvenuto Pinna bambino e adolescente, prima alunno nella scuola ospitata in un edificio ancora fresco di costruzione, dalle linee sobrie e anzi geometriche, con capriate lignee e solai in ferro e laterizio, finestroni e cortile destinato alle attività ginniche dei ragazzini chiamati alle lezioni; sì, prima scolaro, poi contadino in apprendimento, in un esercizio quotidiano insieme disciplinato ed esplorativo, insomma ragazzo lettore del gran libro della natura. Fino a qualche malanno fisico sopraggiunto per preoccupare, e poi alla crisi religiosa che quel malanno ha messo in elaborazione.

Sardara religiosa

Sardara è il centro che collega il campidano di Cagliari alla Marmilla, e la Marmilla è una delle tre regioni che compongono l’area diocesana, con Gippi che da San Gavino Monreale sale a Guspini ed Arbus passando per Villacidro e Gonnosfanadiga, e con l’Oristanese-Terralbese includente fra l’altro anche Uras ed Arcidano.  Negli anni in cui Benvenuto Pinna aprì gli occhi al mondo, il paese – saranno 3.500 anime al censimento del 1931 – si combinava, per strade polverose, con San Gavino, Collinas e Villanovaforru in una forania presieduta dal dotto don Severino Tomasi (rettore di San Gavino e quindi a lungo vicario generale). Era appartenuta in antico, con il suo castello e le calde acque salutifere della piana – le terme industriali orgoglio del territorio –, alla diocesi di Terralba, unitasi nel ‘500 a quella di Usellus (da cui poi Ales).

E quando capitava che i nuovi vescovi dovessero entrare in diocesi sia provenendo da Cagliari che provenendo da Sassari – così nel 1911 monsignor Emanuelli, nel 1948 monsignor Tedde, ecc. – da lì si cominciava, da Sardara, dove l’associazionismo patronale e parrocchiale allestiva, insieme con le autorità locali, palchi e infiorate e concerto di benvenuto, mettendone il centro nella piazza vicina all’antica parrocchiale della Beata Vergine Assunta.

Allorché Benvenuto Pinna, bimbo di pochi giorni, venne portato al fonte battesimale la comunità della parrocchia era condotta ormai da due anni, per vittoria di concorso, da un sardarese doc, quel don Giuseppe Diana che avrebbe poi consegnato il suo nome – per quasi sessant’anni, dal 1925 al 1983 – a Villacidro, parroco della chiesa madre di Santa Barbara e leader riconosciuto, per autorevolezza di dottrina ed attività (e tanto più dopo la morte di don Giuseppe Ortu ch’egli era stato chiamato a sostituire, sanando la frattura di fiducia col vescovo), dell’intero presbiterio diocesano. Suo collaboratore era allora don Eugenio Farris.

Certo però quel poco di catechismo che Benvenuto acquisì negli anni dell’infanzia, prima delle… distrazioni lavorative (confessate sempre col sorriso), fu dono del nuovo parroco, il rev. Carmelo Susanna, dottore in teologia nativo di Lunamatrona, prete (figlio di organista) ancora giovane – meno che quarantenne – e, lui non meno di dottor Diana, di grandi abilità organizzative. Gli faceva da vice don Luigi Montixi, nativo proprio di Sardara, suo coetaneo e già cappellano militare, rinunciatario della parrocchia di Simala e confinatosi nell’insegnamento del seminario, forse quel sacerdote richiamato nelle sue rapide confidenze dall’ormai anziano fra Lorenzo: colui che ebbe a raccoglierne riflessioni e turbamenti, e ad indirizzarlo. Seppure – va subito chiarito questo, perché tentennamento non ci fu – al seminario diocesano sarebbe stato preferito il convento serafico.

L’aria di Chiesa penetrava ovunque, a Sardara, nelle case private – nell’economia morale delle famiglie cioè, devotamente ritmate da battesimi e cresime, matrimoni e funerali – così come nelle strade pubbliche. Non soltanto per le processioni patronali o per le feste di calendario (da Sant’Isidoro a Sant’Antonio, da San Gregorio a Sant’Anastasia, ad altre dieci almeno, fino naturalmente all’Assunta – titolare della parrocchiale – ed alle rogazioni, che erano a puntate fra l’Ascensione e la solennità di San Marco evangelista), ma anche per molto altro. Per quel tanto che comunque ancora resisteva delle confraternite – o della confraternita del Purgatorio tutta gustosamente celebrativa di Santa Maria ‘e candebas –, ma soprattutto per l’assorbente partecipazione popolare alle liturgie o paraliturgie della settimana santa, alle vie crucis, alla pratica delle quarantore, alle benedizioni delle palme, ai passaggi del Cristo morto e poi del Cristo risorto, al memento del 2 novembre ed alla novena di Natale, ai presepi e poi all’epifania…

Peraltro sarebbe da sottolineare che Sardara, nella diocesi alerese, era stata sempre generosa sul piano delle vocazioni, offrendo ai ministeri della Chiesa personalità eccellenti: per restare soltanto al Novecento, ed oltre i già citati, si pensi a don Abramo Atzori, a lungo rettore del seminario minore e direttore del periodico Nuovo Cammino, don Antonio Onnis e don Camillo Pilloni, entrambi canonici prebendati della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, don Telesforo Onnis, arciprete di Terralba, don Antonio Piano disputato sacro oratore e decano del Capitolo cattedrale, Giovannino Tuveri, parroco anch’egli (oltreché di Gonnoscodina) di Tuili e benemerito valorizzatore di quella chiesa preziosissima, e ancora don Antonio Murgia, don Bruno Cirina, don Alviero Curreli, don Francesco Tuveri, don Angelo Zuddas, don Lorenzo Tuveri, don Giovanni Cuccu… e chissà quanti altri, e fra essi anche don Corrado Melis, attuale vescovo di Ozieri.

Tutti questi integrati poi, restando nei confini del secolo, da un numero anch’esso imponente anche di religiosi, soprattutto salesiani come Benedetto Corrias e Giuseppe Casti, come Renato Pinna e Ubaldo Montixi, o saveriani come Dorio Maxia, Gugliemo Saderi ed Antonio Ibba, o missionari PIME come Giuseppe Ibba (fratello di Antonio), o gesuiti come Anselmo Aru, o conventuali come Bernardo Musa… Nel novero  doveva esserci, non poteva non esserci, anche un cappuccino: fra Lorenzo appunto, al secolo Benvenuto Pinna.

Allora, proprio nell’anno del turbamento morale e dichiarato esistenziale di Benvenuto Pinna sardarese 16-17enne, su cui il libro biografico di Matta si sofferma riunendo le confessioni del protagonista, il quadro religioso del paese, sotto il profilo delle falangi organizzate, era vivace non meno che altrove: l’Unione Uomini di Azione cattolica contava su una ventina di soci, altrettanti erano gli effettivi della Gioventù maschile ed aspiranti, al doppio assommavano le iscritte alla Gioventù femminile, una sessantina frequentavano i circolini beniamine e piccolissime, una cinquantina erano le socie del Gruppo Donne, e sotto la loro vigilanza – dicono le statistiche parrocchiali volute da monsignor Francesco Emanuelli nel 25° del suo episcopato – 33 fanciulli e 16 bambini.

La parrocchiale, antica di tre secoli, era stata abbellita nel 1922 da Battistino Scano, un pittore cagliaritano che aveva lavorato nel capoluogo – molto in Sant’Anna – con grande abilità e universali riconoscimenti; da recenti sistemazioni venivano le chiese minori del circondario, da Sant’Antonio da Padova a San Gregorio Magno, da Sant’Anastasia a, naturalmente, il santuario intitolato a Santa Maria Acquas, in campagna (Villa Abbas). A quel compendio e in generale al paese e alla sua storia religiosa e devozionale hanno dedicato, nel tempo, studio e pubblicazioni anche diversi dei presbiteri locali, come il can. Atzori e il rev. Curreli. La biblioteca della curia di Ales possiede inoltre numerosi lavori compilativi (anche con memorie e quadri numerici) che danno conto, ogni qualche decennio, del quadro complessivo ed articolato e in divenire continuo di quella realtà religiosa che il giovanissimo Benvenuto Pinna pur doveva aver registrato, ancorché marginalmente, come s’è detto, vivendo la realtà del territorio tra famiglia ed anticipato lavoro in campagna.

Cronaca di una vita e i suoi perché

Il racconto del ministero di ascolto ed assistenza svolto lungo tre quarti di secolo da fra Lorenzo è reso, nel libro di Paolo Matta, al meglio. Vivace e misurato, attento all’aneddotica ma anche teso a cogliere le ragioni di profonde in quel dare ed avere, nello scambio fra anime che s’incontravano nel bisogno, al convento. In questa sensibilità del cronista emergono anche i dati di formazione di quest’ultimo, che ben conosce, per studio ed esperienza, le prevalenti aree immateriali della Chiesa nella sua dimensione comunitaria o popolare.

Conquista così la pagina, le pagine ed i capitoli, il fra Lorenzo volontariamente “prigioniero” (fino a nove ore al giorno) nel suo confessionale – confessionale non sacramentale ma religiosamente laico, prezioso non meno di quell’altro –, il fra Lorenzo soccorritore dei sofferenti nell’anima e nel corpo, dei malati per sollecitudine eccellente, il fra Lorenzo francescanamente ambientalista, cultore e conservatore della natura, botanico perfino (Arcuentu il paradiso delle sue rifocillazioni, l’orto conventuale quello dell’every day), il fra Lorenzo presepista dal 1948…

Certo colpisce, della personalità del cappuccino sardarese, quanto questa sia stata – all’apparenza almeno – diversa, od originalmente specchiata, da quella del suo maestro d’esempio, il beato Nicola da Gesturi. Ad associare i due concorrono le date: nel 1919 in cui Sardara si arricchì, proprio in uno dei giorni di vigilia del Natale, di una nuova nascita idealmente presepiale anch’essa, fra Nicola aveva emesso la sua professione semplice; in quel giorno della natività mariana – l’8 settembre del 1936 – i due s’erano incontrati: 54 anni l’anziano questuante, neppure 17 il giovanissimo che metteva il suo bisogno, o il suo sogno, nel sacco delle offerte miracolose, per l’edificazione propria ed altrui. Il teatro mondiale registrava, giusto allora, l’inizio della guerra civile spagnola.

Venne una frequentazione continuativa, fra i due religiosi, dopo il ritorno di fra Lorenzo dal convento romano, forte di una professionalità sanitaria confezionata di seguito al noviziato maturato a Fiuggi, alla professione religiosa (semplice e, tre anni dopo, solenne) ed al lungo servizio nella cucina della comunità cappuccina di Centocelle, nonché all’esperienza, formativa anch’essa nella dura fatica di ogni giorno, del questuante.

Nella capitale, qualche anno prima del ritorno nella sua Sardegna, egli poté focalizzare la sua più autentica chiamata, interna essa alla risaputa vocazione già dichiarata e suggellata: l’assistenza infermieristica. A tanto contribuì in misura forse determinante la visione, insieme con gli altri frati invitati in un cinema romano, di un film sceneggiante il classico manzoniano I promessi sposi: non quello televisivo però (mi permetto questa lieve rettifica al testo di Matta), ma quello della Lux, del 1941 – già tempo di guerra! –, con la regia di Mario Comencini e cast di prim’ordine: protagonisti Gino Cervi e Dina Sassoli, Enrico Glori nei panni di don Rodrigo, Carlo Ninchi in quelli dell’Innominato, nientemeno che Ruggero Ruggeri in quelli del cardinale Federigo Borromeo, e soprattutto Luis Hurtado calato nel sapiente saio di fra Cristoforo del convento di Pescaserico. Dal 1942, a Centocelle, fra Lorenzo replicò lo stile di fra Cristoforo, ma studiando scienze infermieristiche e specializzandosi all’ospedale di San Giacomo (suo il campo della medicina e chirurgia d’urgenza, della rianimazione e della farmacologia) donando alla dimensione della carità l’autorevolezza della competenza.

Il rapporto con fra Nicola da Gesturi

Il rientro al convento di Buoncammino avvenne nell’estate 1947. Fra Nicola stava compiendo i 65 anni, fra Lorenzo – nonostante gli affaticamenti romani – godeva ancora della forza dei suoi 28 anni. Piccolo e tarchiato, barbone nero a tutto volto, come a nascondere timidezze e volontà. E forza e volontà e sempre vigile lucidità doveva possedere per svolgere al meglio il suo servizio di responsabile dell’infermeria conventuale. Ben a ragione Matta insiste nel rapporto umano e religioso che univa il Nostro a fra Nicola, da lui e da tutti già vissuto come santo. E molto belle sono le pagine che egli dedica alla malattia finale del frate questuante (operato di una brutta duplice ernia strozzata) ed alla sua morte, riferendo della testimonianza personale resa dallo stesso fra Lorenzo: «Il decorso postoperatorio si presentò subito poco rassicurante. Uno stato tossinfettivo determinava nel paziente frequenti allucinazioni. Gli sembrava di andare per la questua, di sentire la campana… anche in questa fase allucinatoria era sempre uguale a se stesso. In altri casi del genere spesso saltano fuori impensabili emozioni represse e vecchi problemi non risolti. In fra Nicola nulla di tutto questo. Non mancavano degli spazi di perfetta lucidità. Al quarto giorno dopo l’intervento, le condizioni del paziente andavano aggravandosi… Credetti opportuno avvertire fra Nicola delle sue condizioni…».

Riportato in convento ed adagiato su un lettino dell’infermeria, attorniato dai suoi frati, l’agonizzante esalò il suo ultimo respiro: un quarto d’ora dopo la mezzanotte di apertura di domenica 8 giugno 1958. Il De Profundis intonato dal padre guardiano, le preghiere corali, l’emozione combinata alla fede del paradiso, i fratini riportati in dormitorio, i padri retrocessi ciascuno alla propria cella: «Ad un certo punto mi resi conto che gli occhi di fra Nicola erano rimasti semiaperti. Stesi la mano per chiuderli ma istintivamente la ritrassi. Come potevo chiudere quegli occhi che in lui erano la cosa più bella? Stetti così per un po’ ma infine mi decisi a farlo e nel farlo provai una stretta al cuore. Dopo un poco tutti si ritirarono e io rimasi solo. Mi guardavo intorno, smarrito, stordito. Andavo avanti e indietro e non sapevo che fare. Fra Nicola stava avanti a me, disteso nel letto, immobile, col crocifisso e la Regola tra le mani conserte appoggiate sul petto. Il suo volto, ormai ricomposto nella serena maestosità della morte, affondava nel cappuccio. Nonostante tutto io non riuscivo o non volevo ammettere che fra Nicola avesse lasciato questo mondo e non fosse più tra noi… Nella stanza c’era un letto vuoto. Lo spinsi vero il letto dove giaceva fra Nicola fino a toccarlo e mi sdraiai sopra, dopo aver spento la luce. Rimasero accese due candele issate su candelieri scuri… vinto dalla stanchezza, il sonno mi chiuse gli occhi. Dopo circa tre ore mi risvegliai e aprendo gli occhi non riuscivo a capire perché non stavo nella mia cella, perché c’erano due candele accese e cos’era quella lunga sagoma scura distesa sul letto accanto. Di colpo mi ricordai quello che era avvenuto in quella stanza alcune ore prima. Saltai dal letto, infilai i piedi nei sandali e inciampando in un candeliere, mi portai vicino alla salma. Stesi la sinistra tremante sulla fronte e con le dita della destra tentavo di palpare la radiale. La fronte era gelida e il sangue si era congelato nelle arterie… Mi lasciai cadere sulla sedia lì vicino, piegai la testa fino a toccare il capo di fra Nicola e piansi. Piansi a lungo al pensiero che fra Nicola non era più, e piansi perché la sua compagnia, il suo esempio e la sua parola poco avevano inciso nella mia vita».

Rievocata a questo punto la cronaca dei funerali di popolo in quel pomeriggio del 10 giugno – li ricordo anch’io, bambino non ancora ammesso alla scuola – Matta ripropone il bis di quel trionfo: il 2 giugno 1980 le spoglie di fra Nicola furono traslate dal monumentale di Bonaria al convento di Buoncammino, e dopo le complesse operazioni di ricognizione il 6 si procedette alla tumulazione definitiva nella preferita cappella dell’Immacolata. Fra Lorenzo era lì con gli altri frati, come un custode che ha vanta più diritti del provinciale e del vescovo.

Fra Nazareno, il presepe, Arcuentu, Benedetto XVI

E dopo fra Nicola un altro santo tutto sardo, laico anche lui: fra Nazareno da Pula. Se non so male, doveva essere il 1950 o l’anno seguente quando toccò a fra Lorenzo di accogliere, in quanto maestro dei postulanti, il più anziano Giovanni Zucca (allora quarantenne), reduce dalle sue esperienze africane e dal complicato incontro con Padre Pio da Pietrelcina, nel convento di San Giovanni Rotondo, indirizzandolo alle fasi introduttive della militanza cappuccina: probandato, noviziato, professioni semplice e solenne.

E’ noto che fra Nazareno, dopo quell’affaccio, svolse le sue prime mansioni di ortolano e cuoco all’interno delle comunità di Sanluri (fino al 1955), per passare poi ai conventi di Sassari (per due anni) e di Iglesias. Nel 1958 fu chiamato a Cagliari a prendere il posto nientemeno che dello scomparso fra Nicola. Così per quasi quindici anni, anche se in bilanciamento con l’attività dell’ascolto e del consiglio – il suo carisma –, con tale attività in crescendo e l’altra in cedimento progressivo. Un anno nuovamente a Sanluri, fra 1972 e 1973, poi altri cinque ancora a Cagliari e dieci a Sorso. Dal 1986 e fino al 1992 della sua dipartita – in un tremendo febbraio bisestile –, di nuovo a Cagliari, ma pendolare fra il capoluogo e Pula.

Sarebbe stato utile un approfondimento di questa pagina biografica coinvolgente entrambi i religiosi. E’ un invito a provvedervi, rivolto a Paolo Matta, il programma possibile di un suo futuro lavoro.

ll presepe mobile («incantevole e geniale» prodotto d’artigianato industriale) dal 1948 ed Arcuentu (missione rigenerante secondo il metodo di Francesco d’Assisi) dai primi anni ’80, talvolta in compagnia di fra Nazareno, costituiscono due tappe tematiche sviluppate dall’autore anch’esse con penna rapida e chiara, essenziale e gustosa. Nuovamente – a dire del presepe – s’affaccia, nel racconto, discreta e sempre orante la figura di fra Nicola, e vanno di seguito, nelle descrizioni, le scene della rappresentazione, con i loro protagonisti, con i comprimari e la massa dei figuranti. Quel che un tempo era stato, anno dopo anno, improbo rifacimento sempre ex novo, s’era ormai trasformato, per necessità di cose, in una composizione stabile ed ecco che ancora oggi ogni giorno, dal 25 dicembre al 20 gennaio, «per duecento volte» il nastro registrato «ripropone ai visitatori il racconto evangelico della Natività»: «Le voci recitanti si sovrappongono allo scorrere dell’acqua, fra laghetti e cascatelle naturali, all’ululato del vento, al canto degli Angeli». Lascito del frate di Sardara alla città capoluogo, alla diocesi e alla provincia, all’intera regione.

L’armonia del presepe è stata ed è la stessa della natura di Arcuentu: per un quarto di secolo circa quell’altura boscosa prossima alle miniere di Ingurtosu e Montevecchio, nelle cui gallerie diverse generazioni di operai avevano consumato la propria vita e ricavato il tanto per il sostentamento delle loro famiglie, s’era fatta ricetto ospitale del religioso. Così fino agli impedimenti derivati da una salute fattasi precaria e da un’età ormai troppo avanzata. La circostanza avrebbe consigliato ai superiori di suggerire a fra Lorenzo una modalità eremitica meglio vigilabile: nel giardino del convento, di quel convento che era stato faticosamente riconquistato dopo le leggi espropriative e la riduzione laicale dei poveri frati, a lungo costretti là dove poi arrivrono e si fermarono, ai primi del Novecento, le francescane di Seillon.

Il 7 settembre 2008 – vigilia del centenario della proclamazione della Vergine di Bonaria a patrona massima della Sardegna, e giornata di festa per l’Isola data la visita cagliaritana di Benedetto XVI – fra Lorenzo da Sardara, forse superando ogni ritrosia, accettò l’invito del suo provinciale a partecipare, in cattedrale, all’incontro del pontefice con il clero diocesano e religioso. In quanto frate laico egli non sarebbe rientrato nella categoria degli ammessi. Racconta Matta: «Il papa scorge questo piccolo frate, gli si fa incontro e quasi solleva verso di sé quella figura che gli si era prostrata davanti in segno di deferente devozione. Prende le mani di fra Lorenzo fra le sue e gli rivolge uno sguardo e un sorriso che valgono cento discorsi. Nella realizzazione del dvd di quella storica visita, questo episodio non è certo sfuggito. Saputolo, fra Lorenzo chiese di poter avere una copia “personalizzata” di quel disco, epurata cioè da quel commento che volle venisse coperto dagli applausi della folla presente in Duomo. Il silenzio di fra Nicola, il carisma di fra Nazareno, l’umiltà di fra Lorenzo».

Un cronista per la storia

Un’intera segnatura fotografica, opportuna, delicata, chiude il volume: direi trattarsi della prova o della conferma per immagini di una Sequela ideale o spirituale – da fra Nicola al frate che ne addolcì qualche pena servendolo da infermiere –, più ancora che una pura e semplice sequenza di fatti e personaggi. Dal bianco e nero dei tempi andati, al colore di quelli recenti o presenti. Splendidi primi piani del santo frate di Sardara, riprese della comunità cappuccina nell’insieme, del refettorio conventuale e del giardino sul mezzo colle di Buoncammino, istantanee del roseto e dell’orto officinale, flash rapitivi del presepe meccanico con la statuina del religioso in cammino anche lui, sandali ai piedi, verso la grotta…

Questo è il libro donato da Paolo Matta alla biblioteca dell’identità del maggior polo editoriale isolano. Un libro che si pone nel corso felice di altri lavori firmati dallo stesso autore, a cominciare dalla curatela di Ancu di currat sa giustizia, raccolta “di quindici dozzine di modi di dire e di frasi fatte” che si deve alla paziente metodicità dell’indimenticato e carissimo Paolo De Magistris (edizioni 2001, 2006); ma nel novero metterei senz’altro anche L’enciclica di due pontefici. Lo straordinario documento di fede interpretato da quattro esperti, volume uscito anche’esso per i tipi de L’Unione Sarda (2013), ed anche La sapienza dei passi. Il turismo culturale e religioso in Sardegna: fra itinerari naturalistici e cammini spirituali, pubblicato per commissione dell’assessorato al Turismo della Regione Sarda (2015). E certamente entra in elenco anche il bellissimo A come Alternos: viaggio nelle lettere di Sant’Efisio (2015) – curato per la parte grafica dall’abilissimo Daniele Pani –, così come entrano numerose videoregistrazioni fissate in cassette VHS o in DVD.

Per fatto personale

Concludo. Io non ho mai incontrato personalmente fra Lorenzo. Gli ho però scritto. E di risposta mi telefonò a casa, una sera di tarda ora, e fu – non ho reticenza alcuna a dichiararlo – un momento topico che mi parve, se la suggestione non è una colpa, come quella materializzazione che nel 1943 rischiarò le tenebre di Francesco Alziator, le tenebre delle quali il grande letterato ed etnografo scrisse lasciando testimonianza precisa dell’evento. Certo per me le circostanze erano assai diverse, ma il bisogno – io credo – resta bisogno quale ne sia il conio. Il mio riguardava un futuro di vita: quello specialissimo di una persona con cui pure non ebbi mai occasione di contatto ma di cui conoscevo il travaglio. Era il 2010, vigilia di primavera. Un quarto d’ora, forse meno, di colloquio via filo.

Poi, in altro modo, ci associò strettamente la trepidazione per la prolungata devastante malattia di un comune magnifico raro necessario amico, dico di don Efisio Spettu, spirito libero nella comunione dei sentimenti.

Ripenso, archiviando le divagazioni, alla basilica di Santa Maria di Bonaria, cui anni fa dedicai un corposo lavoro infine incluso nel volume Ecce Sardinia Mater tua 1908-2008, dai padri mercedari donato a papa Ratzinger allorché visitò Cagliari. Ripenso alla basilica in cui, con i vescovi Miglio e Melis, il plenum della famiglia cappuccina sarda ha concelebrato i funerali di fra Lorenzo lo scorso 20 dicembre, prima di recarne e depositarne le spoglie al monumentale, nell’altura calcarea di faccia alla città storica ed a quella moderna. E date alcune delle mie migliori amicizie personali, date le idealità ampiamente condivise, ripenso a quante volte quella stessa basilica che accolse (o accoglie) i lavori d’arte di Francesco Ciusa e Antonio Ghisu, artieri della loggia Sigismondo Arquer, abbia ospitato, con spirito di fraternità, anche le esequie di liberi muratori, tanto quelli di fede cattolica quanto quelli di minor sensibilità religiosa. Fra essi anche un gran maestro emerito, che da ginnasiale vestì anche lui l’abito francescano, serbandone sempre tenera memoria.

Fra Lorenzo da Sardara, nelle sue più discrete cure evangeliche, abbracciò molti liberi muratori: essi furono benedetti e ammirati dal frate cappuccino. Il frate e i fratelli, mi verrebbe da dire, e il sentimento si fa circolare, comprendendo le diversità che godono, per ispirazione e statuto, della compromissione musiva, della reciproca integrazione, senza pretese d’avanguardia o primazia, e si fanno preziose quando combinano all’esperienza faticata la purezza dei sogni, le più alte mete umanistiche cui tendere. La Libera Muratoria sarda, corporazione ecumenica per eccellenza e passata per i travagli di epoche storiche complesse, deve molto, nei tempi recenti, a fra Lorenzo, e lui si  beò del dono fiduciario. Seguendo il suo talento che giocava anch’esso fra orizzontalità e verticalità, offrendo all’una il senso dell’altra, l’umile fra Lorenzo mostrava la propria originalità dentro lo schema antico e riusciva perciò ad essere significativo per chiunque lo incontrasse. Offrendosi non come maestro ma come testimone, così come testimone eccellente fu Francesco d’Assisi.

Sì, mi viene di concludere così, in tutta libertà. Attraversando gli spazi generosi della basilica mercedaria introdotti dalle caravelle bronzee di Franco d’Aspro – anche lui austero ed alto dignitario della Massoneria scozzese –, la mente raggiunge o si ricongiunge ai francescani, da sempre amati nelle logge: si ricongiunge anche e soprattutto ai francescani isolani e contemporanei, ai minori di una famiglia o dell’altra. Di fianco ai cappuccini ed ai conventuali, fra gli osservanti, i più datati per marchio della regola, il pensiero corre oggi particolarmente a fra Salvatore Morittu, samaritano laico laico, lui pratico delle beatitudini, e regista e motore di mille iniziative a concorso universale, alla cui opera almeno cinquanta liberi muratori sardi, in un modo o nell’altro, dichiarandosi o meno, da Cagliari a Sassari, offrono da sempre l’energia calda della loro partecipazione.

Si può collaborare, e se si può si deve. Sempre.

 

 

 

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