Profughi, tocca all’Ue. La proposta di Milena Gabanelli
«La situazione è esplosiva», «L’Italia non può farcela da sola», «La popolazione è impaurita, si rischia la rivolta sociale». Queste sono le conclusioni dei vertici politici sul tema: presa d’atto del problema. Ma la soluzione qual è? Gli sbarchi sono quotidiani, e il numero di disperati destinati a restare in Italia cresce: senza documenti in regola, dalle frontiere verso il nord Europa, non si passa più. Nel mondo ideale se ne uscirebbe fermando guerre e persecuzioni, in quello reale si negozia e basta, mentre milioni di disperati fuggono dai bombardamenti, e altrettanti in cerca di lavoro. L’Italia ha proposto all’Europa il «migrant compact», che vuol dire: aiutiamoli creando occupazione a casa loro.
Ma chi va a investire in Africa se non vede un ritorno economico? Paradossalmente chi ci sta aiutando è la cinica Cina, che da 10 anni, dall’Angola allo Zambia, sta finanziando infrastrutture ripagate in risorse minerarie. Ora hanno costruito in Etiopia un polo industriale che impiega 7.000 persone; collegato con autostrada, ferrovia e il nuovo porto di Gibuti. Sono entrate in produzione 23 aziende: cinesi, indiane, olandesi, e il gruppo Unilever. Stanno investendo 500 milioni di euro nella nuova città industriale di Huajian, con la creazione diretta di 50 mila posti di lavoro. La convenienza sta nella manodopera a basso costo nell’industria manifatturiera. Possiamo chiamarlo neocolonialismo, ma è dentro alle organizzazioni sindacali nate nelle fabbriche che si sviluppa la consapevolezza necessaria a trasformare i regimi in democrazie; senza contare che per un africano un posto di lavoro malpagato è sempre meglio del nulla. Europa e Stati Uniti hanno regalato denaro per 70 anni, senza curarsi del fatto che serviva ad arricchire i dittatori senza creare posti di lavoro. L’Africa oggi ha bisogno di tutto, mentre il nostro mercato è saturo, e nel mondo si sta facendo strada una nuova visione di sviluppo, però i tempi sono lunghi e intanto gli sbarchi nel 2016 rasentano i 190.000, contro i 153.000 del 2015. Questo è la situazione che ci attende per i prossimi 10 anni, e la nostra posizione geografica non ci consente di chiudere frontiere: il mare non lo puoi recintare. Di fatto siamo diventati l’hub d’Europa.
Lo sa il ministro dell’Interno Minniti, che 3 giorni fa ha deciso la riapertura dei Centri di identificazione ed espulsione, in parte dismessi fra mille polemiche e violenze. La delega è passata al prefetto Morcone: «I tempi per la riapertura sono lunghi, perché le strutture sono state vandalizzate». Intanto lo Stato continua a fare quello che ha sempre fatto, smista gli sbarcati nei Cara, nei comuni, negli alberghi o parrocchie, fra gestioni mafiose e umanitarie, con pratiche che girano da una commissione all’altra per anni. Il risultato è quello che viene raccontato dalle cronache di Milano, Roma, Torino, Bologna, Genova e di tutto il Sud: un’umanità che girovaga nei parcheggi, chiede l’elemosina, quando va bene finisce nel giro del caporalato, quando va male in quello dello spaccio, e poi in carcere, dove si radicalizza. Intanto cresce l’insofferenza della popolazione, cavalcata dalla politica più populista.
Allora proviamo a trasformare lo tsunami in una opportunità, attraverso un progetto complessivo, pragmatico e a gestione pubblica, dove il terzo settore si limita a svolgere un lavoro di supporto; un progetto da portare a Bruxelles per farcelo finanziare. Il piano deve prevedere la mappa dei luoghi in cui convogliare i flussi (stimabili in circa 200.000 persone l’anno), nei quali identificare chi ha diritto di restare e chi no, fare i corsi di lingua, di formazione al lavoro e alle regole della democrazia europea. Per una migliore razionalizzazione e controllo, sono preferibili ampi spazi, che abbiamo già: i resort sequestrati alla mafia, gli ex ospedali, l’enorme patrimonio delle caserme dismesse. La caserma Montello a Milano è già operativa, ma nelle mani delle cooperative e associazioni che non prevedono né l’identificazione né la formazione. La caserma Lamarmora, a Tarvisio, dismessa due anni fa, dove c’è già tutto: bagni, refettorio, mensa, stanze. Poi c’è la caserma Serena a Treviso, la Gasparro a Messina, la Battisti a Sulmona; poi ci sono quelle utilizzabili in parte (la Serini nel Bresciano, la Stamoto e la Perini a Bologna), altre da ristrutturare perché disabitate da tempo. I lavori si possono fare velocemente con provvedimenti d’urgenza, con personale qualificato ad evitare la solita spartizione della torta, e la supervisione di un commissario europeo delegato.
È necessaria poi l’applicazione di regole rigide: obbligo di frequenza quotidiana dei corsi, e tempo massimo di permanenza nelle strutture di 6 mesi, trascorsi i quali i richiedenti asilo, provvisti di status e curricula devono essere trasferiti per quote nei diversi Paesi europei e sul nostro territorio. Per attuare questo piano occorre assumere circa 25.000 professionisti, fra insegnanti, formatori, addetti alla gestione, medici, e 40 giudici dedicati a stabilire chi ha diritto a restare e chi no. Costi: circa 2 miliardi di euro per la messa in abitabilità; circa 2,5 miliardi di euro all’anno, fra stipendi, manutenzione e mantenimento. Sono calcoli approssimativi, ma fatti con la consulenza di esperti dei diversi settori coinvolti.
Se l’Italia si assumesse la responsabilità dell’identificazione e formazione, l’Europa farebbe la sua parte? Il commissario europeo Avramopoulos ha dichiarato pubblicamente che i soldi per finanziarci ci sono. E i Paesi membri si prenderebbero la loro quota? I delegati all’immigrazione da noi consultati (Carina Ohlsson per la Svezia, Inhjerd Schon per la Norvegia, Marian Wendt per la Germania) hanno espresso disponibilità. I nostri sindaci invece sarebbero disponibili a mettere a disposizione dello Stato le caserme o gli ampi spazi necessari ubicati nei loro Comuni, per realizzare il progetto, e poi accogliere i migranti in piccoli gruppi, già identificati e formati, per provvedere all’integrazione sul territorio?
«Non ci sono altre alternative» hanno dichiarato il sindaco di Milano Giuseppe Sala e quello di Bologna Virginio Merola. Favorevole a questa impostazione l’assessore al Welfare del Comune di Torino Sonia Schellino, l’assessore all’Urbanistica del Comune di Roma Paolo Berdini, il sindaco di Livorno Filippo Nogarin, quello di Prato Matteo Biffoni, di Pietrasanta Massimo Mallegni, di Zeri Egidio Pedrini. Il sindaco di Vicenza Achille Variati afferma: «Questo è un esodo che durerà anni, se non vogliamo riempirci di un popolo di disgraziati e di clandestini, che vengono buttati nelle braccia della delinquenza, dobbiamo prendere per mano il fenomeno. Ci sto!». Ci sta anche il sindaco leghista di Cecina Susanna Ceccardi, anche se preferirebbe non vedere nemmeno un migrante sul suo territorio, e pure il sindaco di Novara Alessandro Canelli. Con tutti i distinguo del caso, anche Matteo Salvini è favorevole a una gestione pubblica centralizzata.
Resta aperta la questione più complessa: i migranti economici. Il rimpatrio è costoso perché gli accordi con i Paesi d’origine prevedono una contropartita. Un ricatto che finora non abbiamo mai affrontato in modo energico, e coordinato. Abbiamo fatto accordi con l’Egitto, il Gambia, e intavolato un dialogo con la Nigeria, ma le rotte si sono spostate in Libia. In quella polveriera con chi dialoghi? Sui tavoli internazionali c’è la proposta di allestire i controlli direttamente alla frontiera dei Paesi coinvolti. Ma chi ci deve pensare? L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati? Forse. E mentre si discute, noi abbiamo un problema dentro casa che ci riporta al punto di partenza.
Sono i Comuni che devono fare pressione sul governo affinché chieda all’Europa il finanziamento di un «progetto d’impresa» che crei le basi per una vera integrazione degli aventi diritto, in modo che anche il migrante economico, in attesa di rimpatrio, possa essere gestito tramite l’organizzazione complessiva.
Vantaggi: una maggiore percezione di sicurezza da parte dei cittadini, la creazione di posti di lavoro e la rivalutazione di un patrimonio, oggi destinato alla svendita o alla fatiscenza.
È l’occasione per riprenderci dignità e dimostrare al mondo che sappiamo diventare un modello, là dove gli altri hanno fallito.
Milena Gabanelli
Corriere della Sera, venerdì 30 dicembre 2016