La Sardegna, l’Arte e la Massoneria. Lettera (immaginaria), con postilla, di Francesco Ciusa agli amici di Oristano, di Gianfranco Murtas

 

Lavorando, anni addietro, ad un profilo storico della Massoneria oristanese (poi rifluito nel volume  Le stagioni dei Liberi Muratori nella Valle del Tirso, Oristano, S’Alvure, 2009), non potei evitare di dar giusto risalto alla esperienza che nella locale loggia Libertà e Lavoro e poi nella cagliaritana Sigismondo Arquer compì, con grembiule e sciarpa scozzese, Francesco Ciusa.

Alla sua figura, ricchissima di virtù umane  e talenti artistici, mi riportarono, invero, le confidenze molto più datate nel tempo della figlia Antonietta, la cui tesi di laurea in lettere, nel 1950, aveva riguardato Sebastiano Satta (Sebastiano Satta: l’uomo e il poeta il titolo) e s’era nutrita anche degli inediti familiari, della corrispondenza cioè fra il grande poeta e il più giovane e però già riconosciuto ed amato scultore nuorese. Materiali riproposti esemplarmente, anni fa, dalla stessa professoressa Ciusa, nel suo bellissimo (per contenuto e per grafica) Francesco Ciusa, mio padre, pubblicato dalle edizioni Il Maestrale di Nuoro (1999) con prefazione di Leandro Muoni.

Una famiglia potente la sua, per intelletto e per spirito, nel passaggio delle generazioni. Fino a Raffaele, figlio di Antonietta: «Uomo dell’essenza», anch’egli come la madre e come la sorella, essere «d’un tempo diverso, un tempo assoluto» – secondo Vittorio Sgarbi studioso meravigliato e appassionato dell’opera del grande Francesco. «Un uomo tutto volto all’interiorità, come se per lui non fosse importante uscire di casa perché il mondo era dentro di lui», ancora nel giudizio del noto e pirotecnico critico d’arte, prefatore, unitamente  ancora a Leandro Muoni e ad Antonio Romagnino, di Nel mare dell’ignoto, sèguito perfetto di Al primo soffio di vento, miscellanee entrambi i volumi di pensieri, racconti e poesie del giovane autore, sfortunato migrante verso la morte, giunta prematura e dolorosa nel 1992.

Francesco Ciusa era così entrato, ma era poi rimasto, nel mio mondo ideale al quale aveva pure dato alimento il riflesso di altre relazioni personali, quelle in particolare con Nino (il solo maschio della prole di Francesco e della sua Vittoria) e con il figlio di questi, carissimo, Pietro.

C’era poi stata, a Cagliari, la fondazione di una loggia intitolata proprio a lui, a Francesco Ciusa, e il mio sforzo di ricostruzione biografica s’era ancor più indirizzato a trovare bibliografia e, possibilmente, carte nuove, poiché il Venerabile di quella loggia aveva inteso pubblicare, nel 1987, un libro comprensivo anche di queste pagine (cfr. Quaderno di Loggia. Compasso belle époque. Appunti per una storia della Massoneria sarda, Cagliari, R.L. Francesco Ciusa Or. di Cagliari, titolo: “O Francesco, o Fratello!”).

L’anno successivo accadde inoltre che, anche e forse soprattutto per interessamento della Chiesa diocesana di Nuoro, che poco si curò evidentemente della scomunica latae sententiae che per due volte aveva (antievangelicamente) fulminato l’artista, le sue spoglie tornarono nella nativa Barbagia per essere raccolte nell’urna della chiesetta di Santu Caralu. E bisognò anche allora nuovamente ricordare che Ciusa fu libero muratore, accolto Apprendista, promosso Compagno d’arte e successivamente Maestro nel circuito del Grande Oriente d’Italia. Sicché in un articolo pubblicato con larga evidenza sul numero di novembre del 1988 del periodico La nuova Città, diretto dall’amico indimenticato Cesare Pirisi, tornarono, per la conoscenza e la riflessione tanto più dei nuoresi storici di Santu Predu, di Seuna e di sa bia Majore, quei trascorsi e quelle assurde punizioni dottrinarie dell’autorità supponente: quella volta del 1911, quando egli, 28enne, entrò nel Tempio della Libera Muratoria oristanese, e quell’altra del 1948, quando – uomo già anziano ed ormai quasi alla vigilia della morte – accettò la candidatura senatoriale da parte della coalizione social-comunista nel collegio di Oristano.

Il suo nome risulta registrato nel libro-matricola della loggia Sigismondo Arquer, oggi vincolato, per valore storico, dalla Soprintendenza archivistica della Sardegna. Qui sono riportati gli estremi anagrafici dell’Artiere ed è indicata al 4 aprile 1911 la data dell’iniziazione (o forse del suo brevetto). Ad Oristano, appunto fra le Colonne della Libertà e Lavoro operante in quel capoluogo di circondario dal 1907: per singolare coincidenza lo stesso anno della gloria compensatrice ricevuta alla Biennale di Venezia con la celeberrima “Madre dell’ucciso”. Nel monumentale Tempio di via Barcellona, a un passo dalla via Roma, a Cagliari, invece, il 28 aprile 1913 ed il 20 giugno 1914 – queste sono sempre le registrazioni – gli erano stati conferiti gli altri due gradi simbolici.

Ripensando alla sua personalità ed alle prove provate della sua spiritualità naturaliter cristiana, che perfettamente si combinava ad una intelligenza iniziatica della vicenda umana e civile, mi apprestai così, per le conclusioni di Le stagioni dei Liberi Muratori nella Valle del Tirso – titolo: “Dedicato  al “padre della Madre dell’ucciso” – e per la sollecitazione di una loggia cagliaritana (quella intitolata nientemeno che a Giordano Bruno!), a stendere un testo biografico, simulando anzi l’autobiografia e cioè ricavandone  una trama di racconto fedele strettamente, però, ai fatti, agli ambienti, alle relazioni personali, alle conquiste artistiche.

Idealmente essa era indirizzata ai Liberi Muratori sardi (ed in particolare oristanesi) d’oggi. Così essi la raccolsero – non saprei con quanta effettiva partecipazione ideale –, unitamente ad altre che mi parve utile confezionare con gli stessi panni narrativi. Eccola (con qualche minimo ritocco).

 

Parla il padre… della Madre, e l’avolo del figlio

«Carissimi, sono Francesco Maria Ciusa, il Fratello Francesco Maria Ciusa, nuorese classe 1883, nato artista e scultore, massone dall’aprile 1911. Ebbi infine il mio exit nel 1949, in Cagliari. Nel capoluogo vissi la metà circa della mia vita, qui crebbi la mia famiglia, qui allacciai rapporti umani fecondi e realizzai molte delle mie opere.

«Vi scrivo per raccontarvi brevemente di me e più diffusamente, per quanto mi sia possibile, delle mie antiche ed onorate logge: la “Sigismondo Arquer” all’Oriente di Cagliari, che frequentai a lungo, e la “Libertà e Lavoro” all’Oriente di Oristano, dove fui iniziato. Dirò poi che ad Oristano mi sarei trasferito per qualche tempo tre lustri dopo, nel 1925, per dirigere la Scuola d’Arte Applicata voluta dal Fratello, o ex Fratello, onorevole Paolo Pili, un sardista che era confluito, nel frattempo, nel fascismo, nella convinzione, o illusione, che il regime potesse realizzare quel per cui Lussu e il Partito Sardo avevano battagliato con tanta generosità. Ottenni allora perfino l’accettazione, come direttore del reparto di ebanisteria, di un amico antifascista, esule in Francia.

«Aggiungo che, chiusa nel 1930 la scuola oristanese, partecipai alla fondazione della Famiglia Artistica Sarda, presto soppiantata dal Sindacato Regionale Fascista Belle Arti, da cui però mantenni le distanze, conservando nel mio intimo le antiche idealità democratiche. Ciò non di meno, realizzai, con perizia professionale e secondo precisa committenza, alcuni busti e medaglie di celebrazione dei miti di quel tempo triste.

«La mia famiglia paterna era nuorese di ascendenze piemontesi (un Francesco Maria Ciusa aveva raggiunto Nuoro per comandare la piazza in rappresentanza del governo Savoia); quella materna – Quidacciolu – era nuorese di derivazione gallurese, tempiese per la precisione. Potrei dire di quelle figure avìte, ognuna era speciale… Mia madre seguiva le faccende di casa – moglie e madre ma con un carattere fiero e autonomo. Tale e quale me lo trasmise, e la cosa contò anche nei nostri difficili rapporti. Mio padre aveva un suo laboratorio di intaglio del legno ed ebanisteria e morì quando ero ancora bambino, la mascotte di casa.

 

La nuoresità d’un artista

«Nacqui nel rione di Santu Caralu, all’interno del perimetro di Santu Predu, l’antico quartiere pastorale che fu di Grazia Deledda e del mio carissimo amico e maggior fratello Sebastiano Satta, il quale molte attenzioni mi concesse negli anni cruciali della mia formazione e del mio esordio artistico. Nella chiesetta di Santu Caralu riposano oggi le mie spoglie, perché comunità e clero della diocesi che fu mia, così vollero nel 1988, richiamandomi dal cimitero di San Michele di Cagliari. Tutto ciò nonostante la scomunica che pendette, per l’imbecillità di qualche statuto, sul mio capo a causa della militanza massonica e poi della candidatura social-comunista nel collegio senatoriale proprio di Oristano alle elezioni politiche del 1948. Ricordo che raccolsi allora qualcosa come 14mila voti. Pochi per andare a Palazzo Madama, ma comunque un bell’attestato di considerazione e amore alla mia persona. Ricordo anche che  in quella competizione v’era anche qualche altro Fratello, ricordo bene Armando Businco nella scheda sardista appoggiata anche dai repubblicani,

«Venni iniziato alla Massoneria che avevo 28 anni: ancora giovane, ma certo non privo di esperienze. Meno d’un lustro prima avevo vinto l’ambìto premio della Biennale internazionale d’arte di Venezia con la “Madre dell’ucciso”. In verità si è molto discusso e giustamente precisato, neppure è molto tempo fa, se di vittoria in senso proprio, materiale cioè, si sia trattato o di vittoria piuttosto morale per i riconoscimenti aperti che mi giunsero dalla giuria e anche dai critici, fra essi quello del Corriere della Sera, ed e anche per le committenze che presto arrivarono, sulla scia di quei riconoscimenti. Vale questa seconda lettura, ma con me la Sardegna e la Barbagia in particolare fecero davvero una gran bella figura su quella ribalta nazionale! Ne fui fiero per tutti. Aggiungo che la Galleria d’arte moderna di Roma acquistò la mia scultura.

«Pochi mesi dopo il successo della Biennale sposai Vittoria Cocco, dalla quale ebbi sei figli. In quegli anni realizzai diverse altre delle migliori opere del mio catalogo: ecco così, per le esposizioni internazionali di Roma e Bruxelles (1908, 1909), “Il pane”; per la Biennale veneziana ancora del 1909, “La filatrice” ed “Il nomade”; per la mostra della Società di Belle Arti di Firenze, “Il dormiente”; ed ancora per Venezia e l’esposizione mondiale di Roma, entrambe del 1911, la “Dolorante anima sarda” e “La bontà” – sculture tutte di dimensioni importanti.

«Ripenso adesso ad una lettera che, in una fase difficile e già crepuscolare della mia vita – eravamo nel gennaio 1947 –, ricevetti da Mario Delitala, amico oranese e collega d’arte, Fratello massone anche lui per l’iniziazione ricevuta qualche anno dopo di me, nel 1914, fra le Colonne della cagliaritana loggia “Karales”.

 

Del Fratello Mario Delitala

«Egli frequentò, da giovanissimo, il mio studio, di cui pure sarebbe stato assiduo anche un altro Fratello destinato a segnalarsi, massonicamente, nei primi anni ’20, quando a Roma avrebbe montato la guardia armata di Palazzo Giustiniani minacciato dalle squadre fasciste al pari di numerose altre nostre sedi; e validissimo anche nel secondo dopoguerra, perché nel precario Tempio della “Risorgimento” del Fratello Silicani si sarebbe attivato, con altri, per l’ammissione di diversi bosani in vista di una gemmazione capace di dare finalmente autonomia numerica alla loggia planargese, eretta sotto il titolo distintivo di “Salvatore Parpaglia”. La cosa avvenne anch’essa nel 1947.

«Dunque, entrambi, Delitala ed io, vivemmo a Cagliari le nostre prime esperienze muratorie. Le voglio ricordare: io arrivai al Tempio della “Sigismondo Arquer”, al civico 29 della via Barcellona, nel settembre 1912, provenendo dall’oristanese “Libertà e Lavoro”. (Questa s’era costituita nel 1907 – lo stesso anno del mio successo veneziano – congregando i Fratelli dell’alto Campidano che fino allora avevano arricchito il piedilista dell’officina cagliaritana). Nel 1913 e nel 1914 fui promosso, rispettivamente, ai gradi II e III.

«Delitala, come accennavo, fu invece accolto nel Tempio della “Karales”, una loggia che, a differenza della “Sigismondo Arquer”, era giovanissima: nata ferana (degli scozzesi cioè di Via Ulpiano, poi Piazza del Gesù), quell’officina subì, proprio nel 1914, il trauma della scissione: mentre infatti la maggioranza degli Artieri decise di regolarizzare la loggia presso il Grande Oriente d’Italia, alcuni persistettero nell’antica obbedienza, e Cagliari ebbe così, in contemporanea, due logge “Karales”: quella divenuta giustinianea, con Delitala, Businco e anche Silicani (giovane allora di vent’anni), e quella ferana. Ritornerò sull’argomento.

«Da artista, e da Fratello artista, aggiungerei il ricordo rapido di altre presenze, tutte molto qualificate, di pittori e scultori nelle logge sarde, ad iniziare dalle più remote. Ripensando alla “Sigismondo Arquer”, citerei Guglielmo Bilancioni, prestigioso ritrattista riminese presente in diversi siti pubblici, civili e religiosi, della città capoluogo, dalla Camera di commercio alla chiesa di Sant’Antonio abate in via Manno (suo è anche il ritratto a colori di Attilio, il primogenito militare del Fratello Serpieri, che si trova alla sommità di una guglia altissima nel cimitero monumentale di Bonaria a Cagliari), nonché autore di molte pitture nel bellissimo palazzo Giordano di Sassari; Giuseppe Boero, autore fra l’altro dei busti di Giuseppe Verdi e del Fratello Giovanni Bovio, collocati nel primissimo Novecento nello square delle Reali, oggi piazza Matteotti; Antonio Ghisu, autore anch’egli di un’infinità di tele custodite in chiese importanti – come la basilica di Bonaria (anche se molte si sono perdute per i crolli causati dai bombardamenti del 1943) – e sedi di rappresentanza del centro antico cagliaritano; Battista Rossino, pure lui pittore, e fra i maggiori e di più lunga lena del primo Novecento sardo e dei decenni che sono seguiti; Andrea Valli, scultore presente in molte commesse pubbliche – in specie del Municipio – e private, autore fra l’altro, se non ricordo male, di un busto del Carducci custodito fra gli arredi dei Passi Perduti di via Barcellona, che furono saccheggiati dai questurini fascisti nel 1925. Sono nomi rappresentativi di un ben più largo settore che comprende anche gli Orienti storici di Sassari e Nuoro – basti citare Attilio Nigra e Giustino Angioni –, e momenti anche meno lontani, se possiamo evocare il nome di Hoder Claro Grassi. Chiusa parentesi.

«Torno al Fratello Delitala, alla sua lettera confidenziale e d’incoraggiamento, scherzosa e serissima. Mi ricordava alcuni momenti del tempo trascorso, della comune giovinezza, esortandomi a non cedere al tramonto che l’età ed i malanni annunciavano.

«“Caro Francesco, ti avevo promesso di alleviarti gli ultimi tuoi anni con la mia amicizia, e spero che fino a cento anni possa tu campare, senza più calli e duroni, per merito della mia amicizia e dell’arnese che ti mando… Ti ricordi quando insieme salivamo per l’erta di via Manno e tu camminavi zoppo? Mi [dicesti] che era colpa dei duroni e ti promisi di mandarti il raschino per curarli. Sono andato a Pesaro, poi a Bologna ed io non mi sono dimenticato di te. Ora sono qui ad Orani, in attesa di una insperata fortuna, che mi lasci ancora fra le case del mio bellissimo paese, a fare quadri, ossia a sognare, a dipingere.

«“Tu che fai? Ti stai forse ad indurire le cute al sole cagliaritano, oppure ad ammuffirti l’anima nell’ombra del tuo studio? muoviti! ed ora che hai il raspino dei calli, riprendi a camminare verso Orgosolo ove mi si dice che abbi trovato e lasciato un filone di bianco marmo di pario, la vena cristallina di un tempo, assai superiore alle leggendarie cave fenicie di Monte Labau. Tu lo sai, e più di te nessuno, si è sempre in tempo a ricominciare, o meglio a riprendere quel che si crede perduto, o distruggere quel che si crede vero ed è falso.

«“Vorrei essere con te ma lontano dalle tegole di uno studio cittadino: ti vorrei vicino per considerarti il mio nume tutelare, per fare il sagrestano nel tuo altare dei sogni e per riaccender tutti i lumi; ed io ho bisogno di uno che mi sorregga l’entusiasmo nella ricerca dell’anima della nostra isola.

«“L’altro giorno sono stato con Tavolara al cimitero di Sassari, per vedere il tuo Cristo, che nel marmo freme e non vuol morire, come è tutta la tua vita d’artista, tutta la tua arte. Quel cristo sei tu, e la Madonna che lo avvolge con l’alito, e lo preme con le mani, rappresenta tutti noi artisti che ancora aspettiamo da te tutto quello che è ancora in te. Caro Francesco, una cosa ancora e poi basta!

«“A quel Cristo furono tagliate ambe le mani, pezzo a pezzo, da ignoti, e per tanto tempo è rimasto monco. Ora quei pezzi furono raccolti, e altre benevole mani li hanno congiunti e rimessi a posto. C’è in tutto questo la tua storia, e tutto l’amore che noi artisti abbiamo per te…”.

«Che bella lettera d’un amico e Fratello! Da alcuni anni, quelli della guerra od immediatamente successivi, ero inoperoso, come svuotato dentro, almeno sotto il profilo della creatività… Ero stato altro, negli ultimi tempi, fra 1943 e 1945, professore di disegno alla facoltà di Ingegneria. Per il resto m’era occupato di stendere od ordinare i miei appunti autobiografici, pubblicati poi a cura di Remo Branca, e m’ero dedicato alla lettura della Bibbia… Erano testi di un’edizione pesante, che poggiavo su un leggio. Combinavo meditazione e, forse, preghiera, senza per questo negarmi a quella richiesta di testimonianza elettorale venutami dal campo avverso alle falangi cattoliche o clericali.

 

I santi, i modelli, le opere

«L’intimo richiamo della spiritualità cristiana non era cosa recente. Amai sempre il caro e santo fra Nicola da Gesturi, il questuante del convento dei cappuccini di BuonCammino che aveva rimpiazzato fra Ignazio da Laconi.

«Leggevo molto, in quegli ultimi anni in cui mi sentivo spento; e ricevevo molte visite d’amicizia nel mio studio di via Tigellio, ultimo di una serie che aveva compreso anche le vie Pirri, Alghero, San Bartolomeo…

«L’ultimo mio episodio creativo risaliva al 1940. Era successo che l’anno prima il Comune di Cagliari avesse acquistato gli originali in gesso delle mie maggiori opere, per 15mila lire complessive. Con questa somma avevo pensato di ritirarmi ad Orgosolo per replicare la fase d’oro della mia produzione. Creai ad Orgosolo “Il fromboliere”, quel nudo di giovinetto che poggia il suo avambraccio destro sul capo. Creai anche un secondo gruppo dal titolo “Il giogo”, lasciandolo però ancora in creta, prima della versione in gesso cioè, e per motivi accidentali – dopo il mio improvviso abbandono della Barbagia – esso si corruppe andando perduto. Forse anche quel cattivo destino che aveva colpito l’ultimo nato pesò nel mio senile incupimento. Un incupimento che mi impedì anche di ritornare, in quei pochi anni che vissi nel dopoguerra, alla militanza attiva nella Libera Muratoria finalmente restituita a libertà… Fui invitato, e altri come me. Ero privo di energie, quelle che sarebbero servite per la militanza. In fondo anche la partecipazione alle elezioni del 1948 fu un partecipazione più nominale che effettiva: poi Oristano era una città bianca, non potevano bastare le mie benemerenze a darmi il successo della elezione…

«A questo punto ripasserei, pur con ritmo veloce, il mio percorso esistenziale compiutosi sì in gran parte a Cagliari, ma avviatosi nella mia Nuoro, cittadina allora di 6-7mila abitanti, quella di cui scrive il professor Salvatore Satta, più giovane di me di quasi vent’anni, nel suo bellissimo “Il giorno del giudizio”. Un capolavoro che ho letto, qui non non tempo, e gustato con il mio Bustianu e gli altri barbaricini, compresi quelli che erano stati ritratti in quelle pagine formidabili…

 

L’infanzia, le prime suggestioni, Grazia

«Fu per me una fonte inesauribile di suggestioni infantili la casa dei nonni galluresi, con la scuderia con i cavalli di pura razza, il gran cancello di ferro e la larga gradinata che conduceva ad un vasto cortile con i pergolati e gli alberi da frutto…

«Cruciale fu l’esperienza di osservazione – un po’ casuale un po’ cercata – che compii, ancora bambino, nel privato di una ragazza-madre che abitava vicino ai nonni e celebrava, nell’intimità della sua camera da me spiata, un rito di dolcezze con la sua creatura: il bacio, il segno della croce, l’allattamento… La scena era tanto religiosamente poetica quanto sensuale. Ne scrissi più tardi, indugiando su quell’attimo eterno della ragazza che, mentre il pargolo ancora succhiava al suo seno, beveva a sua volta. Mi parve proprio che quel “recipiente di terra… gorgogliante d’acqua, [dissetasse] due creature unite nella gioia di vivere insieme”.

«Sulla stessa linea furono altre occasionali scoperte del nudo femminile, destinate ad una resa nelle opere plasmate con la creta neppure molti anni dopo. In una certa calda estate, scorsi le giovanissime domestiche di casa dei nonni che si offrivano, come “natura le aveva fatte”, all’acqua che pioveva generosa dal cielo…

«C’era allora Salvatora, la giovanissima filatrice che mi avrebbe ispirato, nel 1911, l’omonima scultura: quella conocchia “sollevata verso il cielo dalle nude e scarne sue braccia” mi suggerì un paragone: era lei ad impedirmi di pensare ad altro; anch’essa partecipava a quel mondo di figure femminili entrato nel mio turbolento immaginario di adolescente…

«Anche la Deledda – di dodici anni più grande di me – non restò fuori dai miei sguardi indagatori. Furono numerose le occasioni di incontro, di conversazione fra lei giovanissima ed io bambino, quasi adolescente. Leggeva sempre, scriveva sempre…

«Nel rione di Santu Caralu risiedeva allora una popolazione di nuoresi che si faticavano la vita nelle durezze dei pascoli, e pativano delle efferatezze così frequenti in quel contesto sociale. Essi però vivevano quelle sofferenze sublimandole negli orgogli dei candidati al mito. Arrivava, quasi ogni sera, al tramonto, un cantastorie, poeta estemporaneo – tziu Pompoi –, e per ascoltarlo ci davamo convegno, vecchi e giovani e piccoli del rione, sui gradini della chiesetta. Anche io, allora decenne, ero in quel posto, e nutrivo la mia fantasia, allargavo il mondo dei miei sogni…

«Lo ricordo, tziu Pompoi, quando precipitò a terra per un attacco di malaria che non aveva saputo controllare perché un proprietario, per il quale aveva tagliato legna e trebbiato, non l’aveva pagato se non con l’immotivata minaccia di… qualche pugnalata. Allora, tutta la popolazione del rione aveva preso le parti della vittima, assaltando con lancio di pietre, nel buio della notte, la casa dell’ingordo e arrogante che l’aveva offeso. Arrivarono due carabinieri, e tziu Pompoi improvvisò allora alcuni versi toccantissimi che denunciavano la triste sorte d’una società in cui i poveri, per avere il giusto, dovevano ricorrere alla violenza! Fu allora che, per la febbre, svenne: raccolto da terra, con la protezione adesso dei carabinieri, fu portato a braccia aperte, sulle spalle compattate del gruppo, nella zona più alta di Nuoro. Sembrava un corteo funebre: “Su mere e sa mere mea, tziu Pompoi paret Zesu Cristu!”. S’aggiunsero a noi due ragazze che servivano nella casa di quel padrone ingrato: portarono pane e miele.

«Potrei raccontare un’infinità di episodi in cui toccai con mano l’ingiustizia della società, a Nuoro come poi anche altrove, perfino a Firenze dove andai a studiare Belle Arti con una modestissima borsa di studio deliberata dal Comune, non senza opposizioni: che cosa ce ne facciamo di un artista? disse qualcuno.

«Avevo frequentato, nei locali antichi del convento degli osservanti, le classi elementari. Mi piaceva il disegno… Con quanta sorpresa, allorché tornai dal mio trionfo veneziano, ebbi dal mio vecchio maestro un mio disegno di bambino, che egli aveva conservato per quindici anni!

«La morte di mio padre sconvolse la famiglia, non soltanto sul piano degli affetti ma anche su quello più materiale, degli studi interrotti di noi figli, del trasferimento di qualcuno a Milano alla ricerca di un lavoro…; le femmine si sarebbero presto sposate: una con un medico – Andrea Romagna, l’altra il sassarese Ettore Gasperini. Mia madre riprese marito, ma nessuno di noi figli ne fu felice.

«Si pose allora, avrò avuto undici o dodici anni, il problema del mio futuro. La parrocchia forse aveva dato a mia madre l’idea che potessi farmi prete, ma io sapevo che la mia natura non avrebbe potuto negarsi né la piena e assoluta libertà della mente, né quelle consolazioni dell’amore cui anzi mi sentivo precocemente candidato… Per scampare dal seminario dove mia madre avrebbe voluto iscrivermi, suggestionata dagli abiti e dai riti delle confraternite e dalle novene, fuggii per Dorgali, dove vivevano degli zii. A piedi, di notte, ore e ore e ore. Quando tornai a Nuoro, venni accolto a casa di mia sorella Luisa, preferendo non stare per qualche tempo con mia madre che intanto, fra la nostra scontentezza – come ho detto –, aveva ripreso marito…

«La delibera comunale che mi riguardò fu assunta nel 1901; avevo 18 anni e un aspetto già da bohèmienne: sempre spettinato, baffetti biondicci, sorriso spontaneo e sguardo un po’ sognante…

 

Gli studi fiorentini, il tricolore

«A Firenze stetti complessivamente tre anni, e soprattutto all’inizio non fu vita facile. Imparai dai miei insegnanti che “l’eccesso di sensibilità è un bene e un male: è un male quando chi ha questa sensibilità s’infiamma senza meta e brucia senza equilibrio”. Monito valido per la vita. Tornavo con qualche frequenza in Sardegna, specie d’estate, e lavoravo molto, e vendevo. Alcuni versi di Sebastiano Satta si riferiscono proprio a quelle mie creazioni, prima della “Madre dell’ucciso”. Una volta mi scrisse: “Hai dinanzi a te aperto il gran libro che in codesta nobile Firenze scrissero su marmi e su tele e su monumenti i più grandi uomini della terra. Vivi in essi e con essi… Serba però nel cuor tuo un po’ di quella selvaggeria della Barbagia nostra e ti sorregga sempre il pensiero di chi ti vuol bene”.

«Ricorderei anche, di passaggio, quei versi simpaticissimi, e teneri, dedicatimi nei giorni forti della “Madre”: “Io son Francesco, il padre della madre / dell’ucciso,  e son l’avolo del figlio… / Così a vent’anni, puro come un giglio / divento nonno prima d’essere padre…”.

«Imparai anche a produrre e a vendere a Firenze stessa, sicché con i guadagni potei migliorare le mie condizioni di vita, ché l’assegno comunale era veramente cosa modesta. Entrai pure nel più brillante cenacolo artistico della città che includeva personalità come Amedeo Modigliani e Lorenzo Viani…

«Con quest’ultimo partecipai a una selezione per accedere alla Scuola libera del nudo: corso di perfezionamento. Subii alcuni torti, reagii, rischiai di compromettere tutto. Fui salvato in extremis e riammesso al concorso che superai brillantemente.

«Non mi trattengo qui però, a raccontare – ché il discorso si farebbe molto lungo. Basterà dire che, soprattutto in quei primissimi anni del Novecento, mi trovai a fronteggiare situazioni difficili anche sul piano… politico. Era il 1903. Volendo solidarizzare con i colleghi universitari trentini che a Innsbruck e in tutta l’Austria erano allora impediti di dichiarare la loro italianità, mi trovai perfino a capeggiare un corteo che le forze dell’ordine volevano impedire. Con una mezza bandiera salii fin sul monumento a Garibaldi per dire i miei, i nostri sentimenti nazionali. Fui preso, scappai recuperando l’altro mezzo tricolore, poi fui preso di nuovo e portato in questura… Mi salvarono le deposizioni dei miei professori. Italia, cara Italia mia, cara Sardegna che hai vissuto da mille e mille anni riflesso e relazioni della vita morale italiana, cara Italia che non saresti quella che sei senza la Sardegna, madre e figlia e sorella insieme…

«A Firenze imparai la tecnica, ma i soggetti della mia produzione artistica li avevo già tutti interiorizzati – l’ho detto – dall’infanzia e dall’adolescenza a Nuoro. Avevo vissuto esperienze drammatiche, visto episodi di violenza e sangue… V’è una letteratura abbondante sulla complessità socio-economica e morale-psicologica della Sardegna rurale e specie delle zone più interne dell’Isola, sulla cultura della balentia, sulla diffidenza ed avversione allo Stato dei giudici, carabinieri ed esattori, da cui emergono quegli episodi banditeschi di cui la cronaca di un secolo e più s’è intessuta.

 

I gessi, il debutto, la gloria

«Molte mie opere – non solo la “Madre dell’ucciso” che piange senza lacrime, ma anche la “Dolorante anima sarda” e “Il cainita”, ecc. – esprimono quella realtà. Sarebbero tornati sovente, anche nei miei racconti ai figli, gli echi di quei fatti: ed erano più frequentemente episodi che vedevano fra le vittime padri di famiglia disobbedienti alle leggi prevaricatrici imposte da banditi in lotta con proprietari che si voleva colpire colpendo le loro tanche coltivate.

«V’è, specificamente riguardo alla “Madre dell’ucciso”, una traccia dell’evento ispiratore. Mi riferisco ad esso per concludere questa confidenziale apertura dell’animo mio… Si chiamava Maureddu Muredda – ed era giovane e forte e bello, grande lavoratore… Dai banditi s’era dato ordine, con i soliti diktat affissi alle porte delle chiese, di boicottare quel tale proprietario che l’aveva assunto a giornata. Lui aveva disobbedito e ne aveva pagato il fio: i banditi l’avevano ucciso in pieno giorno, mentre mieteva a Funtana ’e Littu. L’ho scritto una volta: “In mezzo al grano, disteso supino, con la camicia aperta sino all’addome, metteva in evidenza il candido petto, più candido della camicia. Le braccia aperte come Cristo, teneva ancora la sua falce in mano. Il viso di un ovale quasi femmineo era incorniciato da una folta, nerissima capigliatura; rari peli sul mento, un angolo della bocca un poco sollevato all’insù disegnava l’abbozzo di un leggero e timido sorriso; le palpebre socchiuse, la testa poggiata sulla sua ultima mannella di grano. Era come se dormisse sognando cose dolci e tristi, dopo la fatica di tanto mietere; tradiva questa impressione un forellino nero sulla tempia destra, senza sangue, come se Dio non avesse voluto insanguinare la spiga, dodici volte benedetta per il pane degli Apostoli”.

«Una giovane, la sorella dell’ucciso, con un lembo della veste calato sul capo fino a nascondere la fronte e poi tutto il volto, lasciando scoperti gli occhi arrossati, s’avvicinò al cadavere. Le donne che l’accompagnavano intonarono alcune nenie funebri.

«Fu di quegli anni, forse di quei mesi, il mio debutto artistico. Modellai l’argilla che m’ero procurato nelle campagne intorno a Nuoro, realizzando piccole statue allusive a taluni personaggi in vista della vita cittadina. Mi saldai in amicizia allora con un coetaneo, Musinzu, dai tratti africani, che non solo si offrì come modello per un plastico che ebbe poi molto successo – esposto come fu in qualche vetrina di negozio di Nuoro –, ma con me collaborò attivamente per recuperare tutta l’argilla possibile per una produzione abbondante e sempre più apprezzata.

«Concludo questo ripasso degli anni della mia formazione, che mi portarono infine a compiere l’esperienza della loggia. Debbo molto a mia figlia Antonietta, la figlia più piccola, di aver messo ordine fra ricordi belli e brutti. Ne ha scritto in un bel libro, libro raffinatissimo anzi, Francesco Ciusa, mio padre

«Nel 1904 rientrai definitivamente a Nuoro. Qui intensificai il sodalizio con il mio poeta-fratello, che passava anche lui momenti bui. “Lavora bene o male, ma lavora e verrà per te, come per tutti i buoni, il giorno della vittoria”, mi esortava Bustianu. Pari amicizia incontrai in Giuseppe Biasi, che mi ospitò nella sua casa-studio di Sassari.

«Per due anni lavorai pensando alla mostra d’arte di Venezia. Il mio laboratorio era a Sos arboreddos: alcune stanzette in cui modellai il blocco della “Madre”. Per lunghi giorni o settimane o mesi fui assalito dal dubbio che l’opera potesse non essere ammessa… Anche Bustianu, anche Antonio Ballero prevedevano difficoltà… Nel gusto prevalente c’era ormai il nudo; il verismo sociale della “Madre” pareva troppo eccentrico… Fino a che non furono Peppina Deledda – sorella di Grazia – ed una mia cugina a rivelare tutte le suggestioni sprigionanti da quell’opera: entrando nell’ex pagliaio e vedendo il blocco ormai liberato dai panni bagnati, ammutolirono, segnandosi con la croce. Era ancora creta, quel 4 febbraio 1907. Pochi giorni dopo feci il gesso che collocai, con tutta cura, in una cassa e spedii a Venezia.

«L’opera entusiasmò la critica ufficiale. Il premio consistette in un assegno di 6mila lire. Un altro premio, come attestazione del buon frutto degli studi all’Accademia e al Libero corso di nudo, venne subito dopo dalla Camera di Commercio ed Arti di Firenze. Tornai a Nuoro, dopo esser passato, per altri festeggiamenti, dagli amici ed estimatori di Bologna, Lucca, Pisa. Qui mi offrirono di stabilirmi in America, anzi di farmi ricco in America. Sebastiano Satta mi telegrafò: “Se sei debole parti, se sei forte ritorna”. Tornai infatti.

«Poi feci famiglia. A Macomer, dove s’era trasferita mia madre con il suo secondo marito, conobbi lo splendore di Vittoria Cocco; ci sposammo nello stesso 1907. Nel viaggio di nozze, fummo ospiti anche di villa Puccini, a Torre del Lago. Il maestro si esibì per noi al pianoforte, presentandoci alcune arie dalla recentissima “Madama Butterfly”.

«Con Vittoria stemmo per qualche mese a Nuoro, anche per assistere Bustianu che aveva subìto quella emiparesi che diversi anni dopo l’avrebbe condotto alla tomba; poi ci trasferimmo a Cagliari. Nacque Fiammetta; sarebbero seguiti Giovanni, Cinzio, Laura, Maria e Giangiacomo. Quest’ultimo morì ancora bimbetto. Patii una lunga depressione. Abitavamo in casa Atzeri, all’inizio della via San Giovanni, mentre lo studio era in viale Pirri – l’attuale viale a me intitolato –, presso la villa d’Aquila. Poi ci trasferimmo a villa Asquer, sempre nel viale Pirri… Nel 1922 sarebbe arrivata Antonietta, mia dolcezza.

«Del resto ho detto, accennandolo sempre con discrezione.

 

La Massoneria sarda

«Ormai si era scivolati tutti quanti dentro la dittatura. Non era contemplato il diritto di associazione, mancavano i sodalizi di confronto libero… L’arte si era irreggimentata, e anche la Massoneria – la Fratellanza degli Artieri, artisti più artigiani – aveva dovuto chiudere le sue officine in tutta Italia, così in Sardegna…

«In quegli anni ’20, gli ultimi di vitalità della Fratellanza, funzionava a Cagliari soltanto la loggia “Sigismondo Arquer”; a Sassari c’era la “Gio.Maria Angioy”, a La Maddalena la “Giuseppe Garibaldi” – erano state fondate entrambe nel 1893 –, ad Oristano la mia cara “Libertà e Lavoro”, che alla fine però non fu forse all’altezza della missione… Orami si erano spente le luci ad Iglesias – l’Oriente della “Ugolino” –, e già da prima a Carloforte, sede della “Cuore e Carattere”; così ad Alghero, dove l’ultima officina era stata la “Vincenzo Sulis”, così in Gallura, dove aveva funzionato la “Andrea Leoni” (e in antico la “Spartaco”),  ed Ogliastra…

«Non c’era Massoneria a Nuoro, nella mia Nuoro. O meglio, c’era stata nell’Ottocento, dopo l’unità d’Italia: la loggia si intitolava a Eleonora dei Serra Bas, la giudicessa d’Arborea. Il suo grande ispiratore doveva essere Giorgio Asproni, non saprei come, ma dev’esser stato così. Vi operava il dottor Cottone, un siciliano garribaldino intimo amico dell’onorevole Asproni, medico di splendida umanità. Con lui c’era don Gavino Gallisay, il comandante dei barracelli in funzione antibanditismo, il costruttore di di Sae’Manca, il don Minosse de Il giorno del giudizio… C’era, mi hanno detto, l’avvocato Pirisi Siotto, che era stato sindaco ai tempi dei moti di “su connottu”, poi aveva sostituito Asproni in Parlamento. Si diceva che un bell’aiuto lo desse allora don Francesc’Angelo Satta Musio, che era rettore a Orune e avversario del vescovo Demartis. Eh, il vescovo Demartis è stato un problema, era un carmelitano sassarese del tutto acritico verso il papa che mandava alla ghigliottina quelli che sabotavano la sua teocrazia… Storia lontana ma sempre sgradevole.

«Invece nel primo Novecento s’era costituita una loggia obbediente a Piazza del Gesù, mi pare si chiamasse “La Barbaricina”, aveva anche un capitolo scozzese presieduto dal poeta giovanissimo ozierese Vincenzo Soro, che da bambino era lo scrivano di Bustianu, impedito a scrivere, dico a scrivere anche a quei giovanotti del Nuorese che erano partiti alla volta del continente per il servizio militare e che Bustianu voleva tenere aggiornati sulle cose del paese… Meriterebbe che si raccontasse quella storia.

«Anche i ferani erano nostri Fratelli. Fra gli altri si distingueva l’avvocato Pietro Mastino, tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione, eletto deputato e rimasto sempre antifascista. In futuro, dico negli anni ’50, sarebbe stato anche sindaco di Nuoro e fu proprio lui, da sindaco, a ricevere nel 1959 le spoglie di Grazia Deledda che tornavano alla chiesetta della Solitudine. Era un grande ammiratore, l’avvocato Mastino, di Sebastiano Satta, ne declamava a memoria i versi, ispirato, in stato di grazia… La sua famiglia veniva dal bosano, ma lui era tutto barbaricino. Credo sia stato, insieme con Gonario Pinna, il più grande penalista sardo del Novecento…

«So che a Cagliari, qualcosa come trent’anni fa, è stata costituita una loggia a me intitolata. Mi hanno detto che quei Fratelli usano aprire i lavori collocando ogni volta una mia piccola opera sull’ara dove dominano la Bibbia e la squadra e il compasso sopra le sue pagine… Si tratta, indubbiamente, di un pensiero gentile. Mi piacerebbe ci si dedicasse un po’, magari su mio stimolo ideale, a quello che è stato e sempre dovrebbe essere lo specifico apporto dell’arte al più vasto paniere dei valori e principi liberomuratori. In chiave di Sardegna e di universalità. Intendo l’amore partecipativo, disinteressato, alla causa della libertà e della giustizia sociale, che poi io tradurrei in termini di pura fraternità. Questa è, in fondo, la nostra vocazione di uomini… Bisognerebbe davvero amare la democrazia, nutrirci di senso di responsabilità, amare la patria, la grande patria e la piccola patria…

 

Oristano del cuore

«Vorrei però concludere questa lettera ritornando, sia pur brevemente, alla mia esperienza artistica e professionale in Oristano. Qui arrivai dopo aver chiuso la SPICA, una manifattura di ceramiche che avevo fondato a Cagliari, nel 1914, per esigenze soprattutto economiche, insomma per mandare avanti la famiglia che allora cresceva in numero e necessità… Paolo Pili, divenuto allora, dopo il 1923-24, l’uomo più potente della Sardegna, il duce della Sardegna come lo chiamavano (e si faceva chiamare), volle che assumessi la direzione della Scuola d’Arte Applicata, fondata proprio allora in Oristano. Chiamai subito, avendolo mio vice, il carissimo Carmelo Floris e anche Giovanni Ciusa Romagna, mio nipote talentuoso come pochi.

«Se non è indebito, vorrei richiamare a questo proposito qualche passo del bel libro che mi dedicò post mortem l’amico Remo Branca, titolo La vita nell’arte di Francesco Ciusa. Così scrive il caro Remo: “Francesco Ciusa aveva ideato e fondato in Oristano, nel 1925, una Scuola d’Arte Applicata… nell’anno successivo decise di dare maggiore notorietà a quella impresa che voleva essere ambiziosa. Me ne parlava. Sì, Nuoro era stata l’Atene della Sardegna agli albori del secolo, ma era appartata, fuori mano: ancora incapace di capire la grandezza della Deledda (proprio in quell’anno Premio Nobel). Bustianu, il poeta, di cui parlava come di un fratello, non aveva trovato un successore nei suoi Canti Barbaricini. Oristano, fra Sassari e Cagliari, a mezza strada fra il Capo di Sopra e il Capo di Sotto, era un passaggio obbligato, gli sembrava destinata a diventare la capitale dell’arte sarda, degna cioè della sua remota civiltà, dove le arti rustiche del popolo sardo potevano essere raccolte e mostrate, suggeritrici di un artigianato che dovesse conservare tutti i tesori dell’anima locale. E Lui ne dava già l’esempio.

«“Dunque la prima Mostra dell’Artigianato sardo. Mi volle come membro di una Giuria per attribuire i premi. Ed ero ad Oristano, ospite, carezzato da Francesco e da Carmelo… la città era tappezzata di manifesti con il memorabile annuncio. Mi suggeriva argutamente Carmelo Floris che per Francesco era più facile fare una statua che un discorso, e dunque dovevamo risollevargli lo spirito, recandoci in un luogo  dove splendeva l’oro colato, dove cioè la vernaccia aveva il profumo della terra nel primo giorno della sua creazione.

«“Al secondo bicchiere Ciusa mi dette le istruzioni: la vernaccia bevila sempre in piedi, perché lascia libero il cervello ma scioglie le ginocchia. Andiamo! E mentre ci avviavamo al teatro giudicavo che la particolare attenzione che mi dedicavano i due amici nascesse dal benefico ottimismo che avvicina gli uomini apertamente, e li rende più tali quando il vino è profumato come i fiori. Ne avevo la prova entrando in teatro, salendo in palcoscenico per fare coraggio all’Oratore…”… Eh!, è molto bello il libro del caro Remo, così come, d’altra parte, anche quello più recente della Bossaglia, o anche quello della Altea… ma Remo era un amico. Insegnava ad Iglesias. Lo ricorda ancora lui nel libro: “Francesco mi trascinava alla sua Scuola d’Oristano, in cui aveva raccolto tutti i suoi impulsi responsabili verso quei giovani che lo riguardavano come maestro. Ad Iglesias il suo monumento ai caduti era ancora chiuso nella piazzetta in una baracca: non avevo l’impressione che ne fosse soddisfatto… aveva riecheggiato il motivo della madre che bacia il suo bimbo rimasto orfano…  il Comitato locale, che non aveva capito il profondo significato di quel blocco, volle che vi fosse aggiunto il simbolo della vittoria… Quel pinnacolo che spunta dal blocco, per l’artista, che invano aveva resistito a quella stonatura rettorica, era stato una sofferenza. Si volle giustificare con me, togliendo dalla tasca dei calzoni, stretta nel pugno, un po’ di carta moneta, un acconto dopo che una vittorietta era salita sul blocco di marmo, e mi diceva allegramente superando se stesso: – Vedi, questo è il prezzo della sconfitta.

«“Non aveva portafoglio e colse l’occasione per commentare, con sua definizione, il denaro: gli faceva schifo; non meritava che quel trattamento. .. Se pensi al denaro, mi ammoniva, la poesia si spegne. Lo so, è necessario piegarsi talvolta… E si vendicava cacciandolo in tasca con il pugno chiuso. La verità è che non sentiva l’arte come commissione…

«“Quando a Iglesias sembrava pesargli sul cuore l’oscura terra di miniera mi prendeva sottobraccio: – Andiamo ad Oristano. Oristano ci aveva unito fraternamente ed ora la lezione continuava…  Parlava e si era, sempre con semplicità, di fronte al maestro. E fu così che ritornato ancora una volta ad Oristano ci raccontò di una sua scoperta, quand’era ancora ragazzo: di una madre che vide attraverso un finestrino, dietro una tendina, nella sua intimità…”.  L’episodio cui si riferisce Remo è quello che io stesso ho prima rievocato.

«Chiudo questo capitolo oristanese del racconto dell’amico Branca, il quale scrive: “Oristano è quel gran paese per eccellenza (ma pur sempre città) dove fino a quel tempo e forse ancora oggi si modellano con la stessa lignea ruota spinta con il piede nudo, come facevano i vasai dell’Antico Egitto, le brocche. In quel tempo, a Nuoro come ad Oristano, la brocca d’acqua era come il pane quotidiano: l’acqua bisognava andarla a prendere a su càntaru, alla fonte… ”. E’ sempre quel racconto della ideazione de “L’anfora sarda”, ma per questa conclusione: “Non so quanto o quante volte stetti davanti a quella divina serenità ellenica, non avevo il coraggio di aprir bocca per non rompere l’incanto, anche perché pensavo a quelle congreghe cagliaritane che, considerando Ciusa ceramista in Oristano, luogo che Casteddu sempre disprezzava, o di cui voleva ignorare l’esistenza, lo giudicavano finito. Alle foce del Tirso era nata, simbolo della sete dei sardi, la più bella fontana dell’Isola, dono profetico alla sua assetata Nuoro”.

«Sono belle parole, molto gratificanti, queste dedicate alla mia “Anfora sarda”. E anche queste altre: “Ciusa modellò quella statua in Oristano nel 1927. Mi condusse a vederla appena finita: era ancora avvolta nel bagno delle tele; … mi voleva premiare. Mi disse che per lui quella statua non sarebbe finita mai, per adeguarla al suo ricordo ideale. Non mi disse allora che essa rappresentava una delle sue esperienze penetrata nella sua esistenza dagli occhi, mentre forse celebrava, senza rendersene conto, la sua sposa, la prima figlia, fiamma inestinguibile dei suoi affetti. Rammento soltanto che mi disse d’aver compiuto la statua al limite della stanchezza fisica, quando lo portarono via quasi svenuto dallo studio, dove si era dimenticato delle ore del tempo e che in due giorni, dormendo e svegliandosi ai piedi della statua, aveva bevuto soltanto qualche sorso d’acqua da una brocca simile a quella sospesa sull’avambraccio della nuova Madre della vita, questa volta…”. Così l’amico Branca.

«Presentai il gesso dell’“Anfora sarda” alla Biennale di Venezia l’ultima volta che vi partecipai, nel 1928. Non fu apprezzata. I gusti d’arte, in quegli anni della dittatura, erano altri ormai… Lo ricorda anche Branca: “La critica non scoprì forse che Ciusa era passato dalla impostazione frontale e colonnare della “Filatrice” a volumi più complessi, quasi seguendo lo svolgimento della statuaria classica… Lo schema geometrico qui si avvolge in piani elicoidali, più idonei come nell’arte ellenistica ad esprimere non solo il simbolo ma l’azione del dramma. Il tema del gruppo lo richiedeva perché la vita si muove, mentre il dolore eterno si chiude nel blocco geometrico”.  Quel gesso fu acquistato nel 1939 dal Comune di Cagliari, che nel 1983 provvide alla fusione. Oggi fa parte del patrimonio d’arte del capoluogo.

«Realizzai allora anche un gesso che intitolai “Deposizione”, per la tomba di famiglia dei Pili, in Seneghe. Con i miei collaboratori allestii una mostra “d’arte e industria” in Oristano. Purtroppo non andò in porto un altro progetto proprio allora messo in cantiere: un’esposizione nazionale da tenersi a Cagliari. L’anno successivo – nel 1927 cioè – modellai una piccola scultura in stucco, titolo “Ali alla Patria”. E subito dopo terminai il “Monumento ai caduti” per il Comune di Iglesias. Si trattava di un’idea vecchia ormai di cinque o sei anni. Ma come ha ricordato anche Branca, ai committenti – i fascisti di Iglesias – la cosa non piacque, sembrava troppo “antiretorica”, ed imposero l’aggiunta di una figura rappresentativa della “Vittoria”…

«Ad Oristano rimasi fino al 1930. Caduto in disgrazia Paolo Pili, fu travolta nel declino anche questa sua Scuola orgogliosa. Ed ho detto che partecipai allora alla fondazione della cosiddetta Famiglia Artistica Sarda a Cagliari, che al regime non garbò, tanto da promuovere un alternativo Sindacato Regionale Fascista Belle Arti. Non mi coinvolsi più di tanto, rifiutandomi di partecipare – era il 1930 – alla prima Mostra Sindacale che si tenne in Sassari…

«Oristano fu una parentesi nella mia vita, una parentesi fatta di luci ed ombre… Sono almeno una trentina gli articoli di giornale o su riviste isolane o nazionali che mi hanno riguardato per il lavoro di quegli anni. Ho però il rammarico che di mio lì sia rimasto poco, molto poco, quasi nulla… qualcosa nel camposanto, qualcosa ci deve essere nelle collezioni private. Eppure produssi davvero molto: citerei “Il cane”, che doveva essere complemento al monumento a Sebastiano Satta, ma anche “La vita” con quel trittico genitori-e-fra-loro-la-creatura, il bassorilievo in stucco a marmo “La famiglia” o “La famiglia protetta” che mi pare fra le mie opere poeticamente più dolci, con tutti quei bimbi che giocano col volto e il seno della madre e sullo sfondo il nudo paterno. Citerei ancora il gesso “La cerbiatta”, e lo stucco a marmo “Solenne giuramento” di tipo decò, con quel bacio di lui sul cavallo ma piegato verso la bocca di lei in piedi…

«Davvero non avrei che l’imbarazzo del ricordo fra tutto quanto conclusi in quei sei anni oristanesi: “L’adolescente” nella versione lignea e in quella in gesso, “La bagnante”, pure in gesso, “Il coro dei mietitori” di cui è abbastanza noto il disegno a matita schizzato proprio sulla carta intestata alla nostra Scuola , il ritratto in bronzo d’una sessantina di centimetri di Francesco Sisini, che era un ingegnere nativo di Sorso, Fratello massone della loggia di Sassari, ma poi anche i gessi del monumento e del busto di Bustianu, di Bustianu Satta destinati a Nuoro, opere conosciute…

«Sì, io sono nuorese, inguaribilmente nuorese. E Oristano e Nuoro – non dico di Cagliari adesso, o di Sassari – sono stati poli diversi, diversamente stimolanti della mia vita. L’amico Branca, in una pagina quasi finale del suo affettuoso lavoro biografico a me dedicato, sembra volerlo marcare, di prima apparenza in senso negativo per Oristano per colpa della mia nostalgia barbaricina: “Non vedeva nulla intorno a sé, alle foci del Tirso, dove la terra acquista colori e quiete d’Oriente, ma tutto risorgeva dalla memoria delle idilliche mattinate e serate nuoresi. In Barbagia non tutto era dramma e tragedia, molte ore erano state serene: i bimbi, la famiglia, il ritorno del pastore, le campane delle sagre che richiamano il popolo cristiano alla unità dei cuori… Ma [l’] idillico era adesso più idoneo a tradursi in tutti quegli oggetti che dai trespoli della scuola artigiana di Oristano cominciarono a spargersi nelle case private. Sembrava proprio che in Oristano l’insediamento perpetuato dei figuli preistorici continuasse come il naturale centro d’irradiazione dei sogni di colui ch’era soltanto un artista sopravvissuto, che non fu mai né un commerciante, né un amministratore della sua inesauribile miniera di bellezza”.

 

Postilla

« Sì, Oristano mi favorì le condizioni ottimali per lavorare con frutto… Cara Oristano! Certo – mi permetto adesso questa postilla – mi piacerebbe che da Oristano, dalla Oristano da cui venne la “Carta de Logu”, dalla Oristano dell’arcivescovo Giovanni Maria Bua (benemerito anche da noi in Barbagia in anni lontani, quelli di Asproni giovane prete), dalla Oristano del senatore Parpaglia, dalla Oristano di uomini più moderni ancora come il professor Quintino Fernando e il mio caro Ovidio Addis – che fu sindaco di Seneghe ed anima delle cose migliori nel territorio, fra la piana e il Montiferru ecc., patrono di mille ricerche storiche e archeologiche e promotore del Centro Studi Arborensi – venisse qualcosa di più consistente per l’oggi e il domani della Sardegna. Potrebbe proprio la Massoneria oristanese promuovere cultura e iniziative civili in campi diversi, trovando collaborazioni di singoli e di corporazioni – associazioni, circoli, sodalizi –, magari con la stessa Chiesa diocesana. So che oggi lavorano in città ben quattro logge: la decana “Ovidio Addis”, la rinata “Libertà e Lavoro”, la “Raffaele Fadda” e la “Voltaire”. Spererei che tanto pluralismo non significhi frazionamento, spererei che tante frequenti iniziazioni – un’ultima, di un ottimo giovane, anche la scorsa settimana, come mi hanno riferito – costituiscano alimento a progettualità nuove, ad entusiasmo, a spirito creativo per il bene dell’umanità. L’arte, la promozione artistica, anche nella memoria di chi io sono stato nel mio tempo, potrebbe essere uno dei fronti di maggior impegno pubblico delle logge, insieme con la socialità, l’assorbimento di una certa sofferenza sociale che, poco manifesta, però c’è, in città e nel circondario… Potrò crederci?».

 

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