Don Pier Giuliano Tiddia, arcivescovo emerito di Oristano, è prete da 65 anni. Gli auguri di quanti gli vogliono bene! di Gianfranco Murtas
«La cerimonia fu fissata appena ottenni dalla competente congregazione vaticana la dispensa per l’età. Il massimo di dispensa allora era di un anno e mezzo rispetto all’età minima dei 24 anni. Ottenutala bisognava che compissi 22 anni e mezzo. Io li compivo il 13 dicembre 1951, e quindi l’ordinazione venne fissata il 16 dicembre 1951 in Sarroch. Sennonché capitò una difficoltà imprevista: ci fu l’alluvione, e anche la nostra chiesa parrocchiale di Santa Vittoria subì danni, si dovette puntellarla, ecc. E allora l’interrogativo che ci si pose era: in chiesa chi ci sta? Bisognava pensare di spostare la cerimonia fuori della chiesa e, trattandosi di dicembre, bisogna sperare che facesse bel tempo. Una bella scommessa. Ma fortunatamente quel giorno fece bel tempo, e sia l’ordinazione che la prima messa, l’indomani, avvennero in piazza di Chiesa. Non ci fu nessun problema per i presenti. Fu montato un palco, mi pare proprio non ci fossero altoparlanti. Allora non c’era, di fatto, questo servizio… Peraltro monsignor Botto aveva voce, e così si procedette, io cercai di aggiustarmi, la piazza era raccolta. Purtroppo non ho documenti fotografici, né sonori, di quell’avvenimento. Conservo invece alcune fotografie, ovviamente in bianco e nero, della mia prima messa, che celebrai il giorno dopo nella stessa piazza di Chiesa a Sarroch. Le scattò padre Crescentino Greppi, rettore di Cuglieri, che era un amante dell’arte fotografica».
Così ricordava il giorno della sua ordinazione presbiterale monsignor Pier Giuliano Tiddia, ripassando pur in velocità la sua vita di prete e di vescovo, quando, sette anni fa, alla vigilia dell’80° compleanno, pensai di raccogliere in un volume esperienze e giudizi del presule, personalità eminente del clero e dell’episcopato sardo del Novecento, e da lui ottenni garbata e amichevole disponibilità.
Prete da 65 anni, ancora attivo e impegnato nell’ascolto, nella riflessione, nella partecipazione, credo meriti, monsignore, un riguardo speciale per molti aspetti della missione così come l’ha espletata nel suo tempo. Scrivo questo, ovviamente, non tacendo anche le distanze, ma nella conoscenza di fatto, oltreché nella consapevolezza di quanto pur non sia emerso nella rappresentazione pubblica delle sue attività. In particolare, oltreché come incaricato, ora in successione ora in contemporanea, di numerosi uffici di curia, lo ricordo come assistente della FUCI cagliaritana, come parroco di Santa Cecilia nella Cattedrale intitolata a Santa Maria assunta in cielo, vicario generale e vescovo ausiliare presentissimo in ogni dove, come arcivescovo di Oristano ed amministratore apostolico di Lanusei e di Ales, soprattutto come segretario generale, autentico motore, con il collega monsignor Ottorino Pietro Alberti, del Concilio Plenario Sardo.
Né posso dimenticare l’atto esplicito di amicizia che mi riservò, e riservò – insieme con personalità del rilievo di don Efisio Spettu, padre Raimondo Turtas e tanti altri – allorché il 13 giugno 2011 l’associazione Cresia – affidando a me la relazione di apertura – promosse un convegno di riflessione a dieci anni dalla conclusione del Concilio, i cui deliberati erano stati messi in non cale dall’arcivescovo (nuovo arrivato a Cagliari) Mani e dagli altri presuli di recente nomina (in primis don Ignazio Sanna, perfino censore dell’iniziativa) poco sensibili alle fatiche che uomini, appunto come Tiddia ed Alberti, avevano messo in campo nei lunghi anni di celebrazione di quell’evento ecclesiale.
Presidente della Conferenza Episcopale Sarda dal 2003 al 2006, lasciò la ribalta ma non la relazione sociale e specificamente ecclesiale che anzi, tornando da Oristano nella Cagliari della sua formazione e del suo primo servizio da prete (cappellano alla chiesa del Santo Sepolcro, insegnante al Siotto Pintor), sviluppò aprendo nuove finestre.
Mi è sembrato bello, alla vigilia di questo suo giubileo, rilanciare alcuni brani della conversazione che mi concesse, evocando i tempi giovanili degli studi, fino alla sua ordinazione in Sarroch.
Raccontando di un’infanzia ed adolescenza fra Sarroch e il capoluogo
«Mio padre Emilio era figlio di Antonio Tiddia, un piccolo proprietario coltivatore della terra sarrochese forse da generazioni. Sua madre, una Loi, era invece originaria di Villa San Pietro, proprio il paese vicino a Sarroch dove avrei avuto il primo incarico dopo l’ordinazione sacerdotale. Contrariamente a tutto il resto dell’ambiente familiare, fu indirizzato, insieme con una sorella, agli studi: lui sarebbe finito medico, la sorella invece maestra (sposò un noto oculista: Giovanni Cossu). Frequentare la scuola a Cagliari, però, era allora un problema, per la difficoltà di viaggiare tutti i giorni così come per l’inesistenza di un collegio nel quale sistemarsi. Così mio nonno decise di mandarlo dai salesiani a Lanusei, dove conseguì la licenza ginnasiale. Fu allora, ragazzo ormai di 15-16 anni, che venne a Cagliari, dove frequentò il liceo Dettori e l’università. Prima dell’università, però, fu chiamato sotto le armi e spedito a combattere sul Carso, con tanti altri “ragazzi del’99”, come si diceva… Poi iniziò il corso universitario, ottenendo la laurea nel 1927. Mi pare fossero sei i nuovi dottori… Ebbe subito la condotta medica di Sarroch, che era vacante.
«Ma intanto, proprio negli anni universitari, aveva conosciuto a Cagliari mia madre Maria Ciuffo, allora studentessa alle magistrali di Castello. Lei era figlia di un notaio che abitava e aveva studio, allora, a Quartu. E infatti, quando poi decisero di fare famiglia, si sposarono, i miei genitori, nella chiesa, ora basilica, di Sant’Elena. Era il 27 dicembre 1927.
«Nonno Francesco Ciuffo e nonna Vincenza Massidda – lui originario di Nurri, lei di Mandas – ebbero quattro figlie, che studiarono tutte alle magistrali, che in quel tempo si chiamava scuola Normale. Questo avveniva di frequente fra le ragazze di famiglia, o di ceto medio, relativamente agiato. Debbo ricordare che i Ciuffo subirono diversi trasferimenti, in conseguenza delle necessità dello studio notarile: Nurri dapprima (nonno era stato anche sindaco di Nurri e lì appunto nacque mia madre nel 1907), poi Quartu (dove lui era stato anche amministratore dell’asilo) ed infine Cagliari. A Cagliari nonno Ciuffo morì nel 1939; nonna Massidda gli sopravvisse per ben 36 anni, perché morì molto anziana, alle soglie dei cento anni, nel 1975, proprio a Sarroch.
«Avevano avuto casa nel Largo – e io nacqui là –, ma già alla fine degli anni ’30, dopo essersi spostati per qualche tempo in piazza Yenne e da lì in via Gio.Maria Angioy 17, avevano lasciato Stampace per sistemarsi in via San Lucifero 74, all’angolo con la piazza allora Carlo Sanna, poi Antonio Gramsci, dove anche io avrei vissuto qualche anno al tempo delle ultime classi medie.
«Sul fronte sarrochese dei Tiddia, dovrei ricordare che mio nonno rimase vedovo relativamente giovane, e si risposò. Mantenne sempre però un ricordo carissimo della prima moglie, di mia nonna Loi… Anche lui morì molto avanti negli anni, nel 1955.
«Data la professione di babbo, i miei si sistemarono a Sarroch. Il paese allora doveva avere un po’ meno di duemila abitanti. In “Sardinia Sacra”, che era l’annuario ecclesiastico sardo uscito nel 1937, quando io avevo soltanto 8 anni, è riportata la popolazione di 1.831 residenti. Mio padre aveva la condotta medica, mia madre si occupava della casa per una scelta condivisa con mio padre, che le aveva chiesto di dedicarsi interamente alla famiglia, rinunciando all’insegnamento. Cosa che lei aveva accettato volentieri. C’era tanto da fare, e ce ne sarebbe stato ancora di più con noi piccoli… Perché appunto dopo siamo nati noi, io nel 1929 – il 13 giugno – e mio fratello Francesco due anni e mezzo dopo, nel novembre 1931. Dunque, moglie e madre. Di fatto poi mia madre l’insegnante l’ha fatto ma non a scuola, il suo campo di attività sarebbe stata per buona parte della sua vita la parrocchia, il catechismo ai bambini e l’opera sociale della Chiesa…
«Mio padre è morto nell’agosto 1984, mia madre nel marzo 2007. Mio fratello che è medico, è sarrochese nato e cresciuto. Anche io sono certamente sarrochese, anche se nacqui non a Sarroch, ma a Cagliari. Forse ci fu qualche incertezza o preoccupazione per il parto, e questo consigliò che mia madre, avvicinandosi il momento, stesse a casa dei suoi genitori, a Cagliari appunto, dato che nonno Ciuffo e la sua famiglia avevano nel frattempo lasciato Quartu e s’erano trasferiti in città. Abitavano allora, come ho detto, nel largo Carlo Felice, in un palazzo sulla sinistra salendo, credo al civico 29, di fronte al grande mercato che sembrava il Partenone di Atene».
Domanda curiosa sul doppio nome: Pier Giuliano. Chi lo scelse?
«Fu suggerito da mia zia Ida Ciuffo perché era devota di questo santo fondatore dei sacramentini. Lo propose ai miei con insistenza e la spuntò. Con la conseguenza però che al Comune di Cagliari, perché non si potevano mettere due nomi – anche se quello era un nome da leggersi come nome unico –, accolsero soltanto Piero. Infatti nella mia carta d’identità è indicato soltanto Piero…
«Fui battezzato al fonte di Sant’Anna, da uno dei parroci della Collegiata, allora giovanissimo, dottor Plinio Piu, che sarebbe diventato canonico penitenziere della cattedrale. Ecco, nei registri parrocchiali sono registrato giusto: Pier Giuliano come primo nome e Antonio – lo stesso di mio nonno paterno – come secondo nome».
Da allora a Sarroch?
«La nostra casa era alla fine della via Cagliari, la strada principale di Sarroch. Era una casa di affitto… si trovava all’uscita nord del paese. Vi restammo fino al 1950. C’era il loggiato, il giardino e ampi spazi laterali, l’orto con un pozzo. Le camere erano disposte su due piani, erano sufficienti per le nostre esigenze. Mancava il sevizio acqua purtroppo! Allora non esisteva l’acquedotto a Sarroch, e l’acqua potabile ci giungeva dalle sorgenti. Le donne il bucato lo facevano al fiume».
E lì suo padre attrezzò anche l’ambulatorio?
«Esatto. Allora in paese non c’era l’ambulatorio comunale. Intendiamoci, tutto era molto semplice. Il medico condotto è un medico generico, di base, come si dice, che doveva occuparsi di tutto, dagli infortuni ai denti, alla diagnostica che poteva poi meglio precisarsi in ospedale. Allora non c’era la mutua. Lui era per la sua professione medica. Lo era stato da giovane, lo sarebbe rimasto anche dopo, direi anche dopo il pensionamento, dopo quarant’anni di lavoro, nel 1967. Dico un particolare: non si muoveva mai da Sarroch, tant’è vero che, dopo in viaggio di nozze, il secondo viaggio in continente lo fece quasi cinquant’anni dopo, quando io divenni vescovo e ci fu accordata l’udienza con il papa. Andammo insieme a Roma, naturalmente in aereo, dove lui non era mai salito. Ricordo che rimase un po’ turbato…
«Lui era sempre presente in paese, non prese mai supplenti. Una volta soltanto, nel 1946, fu costretto dalle circostanze. Intanto, durante la guerra, gli avevano tolto la macchina, che era stata requisita dal governo: chissà perché, come se al medico potesse non essere necessaria. E capitò questo, che nel febbraio 1946 fosse chiamato d’urgenza da Villa d’Orri. Era a letto con la febbre per un’influenza. Ciò nonostante si alzò e andò, nel freddo della stagione e con la febbre addosso, a visitare quel malato. Andò in carrozza, e non è tanto per la scomodità del viaggio, quanto per l’aria che entrava dentro, si buscò una grave pleurite, poi riconosciuta purulenta. Fu ricoverato all’ospedale e fu necessario operarlo. Fra operazione e convalescenza dovette passare molti mesi fuori dal lavoro, e quindi dovette farsi sostituire.
«Naturalmente, quando mio fratello si laureò in medicina, alla fine degli anni ’50, aveva un aiuto più vicino. Finché non lasciò il campo, perché ormai anziano. Ogni giorno le visite in paese le faceva a piedi, i sarrochesi lo ricordano senz’altro. Soltanto negli ultimi anni, quando prese una utilitaria, una 600, si spostava in macchina. Così ha continuato fino al 1967, dopo 40 anni di servizio, quando chiuse la condotta e continuò ad esercitare come medico libero, e ricordo sempre questa attenzione, questo affetto, questa preoccupazione per i suoi pazienti. Al fondo c’era la sua convinzione cristiana. Amante della caccia, dove evidentemente poteva andare soltanto la domenica, si organizzava per poter essere di ritorno in paese all’ora della messa delle 11. Morì il 30 agosto 1984, all’età di 85 anni compiuti a marzo. Era, come ho ricordato prima, un ragazzo del ’99, come si chiamavano i diciassettenni chiamati al fronte dopo Caporetto. La sua agonia è stata breve, non stava bene. Poi mi chiamarono durante la notte, io partii subito per Sarroch. Spirò dopo due ore, quando sopraggiunse il collasso. Era in casa, aveva paura di andare in ospedale: “Non mi ci porteisi in ospedale”, diceva. Ed era stato accontentato».
La casa era sempre quella di via Cagliari?
«No, alla fine degli anni ’40 il proprietario vendette lo stabile, quindi mio padre pensò a costruire la casa, spostandosi però dall’altra parte del paese, in direzione del mare, ma in quel tempo ancora campagna… Il terreno era di mio nonno. E’ lì che entrambi i miei genitori sono deceduti.
«Ricordo con affetto le amicizie infantili, le amicizie anche del vicinato. Erano frequentazioni che valevano anche come passatempo, la società allora non è che ci desse molte opportunità. L’ambiente era sereno, ci accontentavamo del poco. Spesso facevano le scampagnate nei dintorni di Sarroch, senza allontanarci troppo; portavamo da mangiare, ma poi si riusciva a tornare a casa per l’ora di pranzo.
«I giochi dell’infanzia erano i più semplici, per lo più all’aperto, oltre a quelli delle gite in campagna. Tracciavamo le linee per terra in strada, e giocavamo a pincareddu… Poi sarebbe venuto anche il calcio, che mi è sempre piaciuto ed ho praticato anche negli anni del seminario: dico in seminario ma anche a Sarroch, quando tornavo…
«A Sarroch mancava all’inizio una qualsiasi struttura organizzata. Trovai da fare, e divertirmi, con il gruppo dei chierichetti della parrocchia, che don Giovanni Tronci, allora nostro parroco, curava molto. Ragazzini, passavamo un po’ di tempo anche giocando a carte, naturalmente senza scommesse in denaro!
«Ecco, al tempo della mia infanzia, di fronte a casa risiedevano due famiglie Casula che offrivano a me e a mio fratello proprio i compagni di giochi. Le amicizie si allargarono poi nel gruppo chierichetti… soprattutto con il calcio, una passione che ho sempre avuto, come moltissimi miei compaesani.
«Le prime classi elementari le frequentai a Sarroch. La prima, in verità, la saltai, nel senso che mi preparò, per entrare direttamente in seconda, una maestra – Marta Cois, amica di famiglia – che veniva a casa. I miei genitori s’erano convinti che potessi saltare quell’anno, volevano accelerare, dicevano che rispondevo bene… Quindi frequentai la seconda, nel 1935, e la terza rispettivamente con le maestre Nina Mura e Gina Sarais, quest’ultima moglie di Elio Piroddi, futuro direttore didattico. Della maestra Sarais avrei celebrato il funerale io stesso, molti anni dopo.
«Il caseggiato era nuovo, la scuola si intitolava all’avv. Luigi Siotto, un sarrochese importante. So che l’edificio, inaugurato nel 1936, era stato costruito perché non si poteva andare avanti con quelle aule precarie e inadatte che per lungo tempo erano state allestite sotto il municipio, di fianco alla caserma dei carabinieri, in locali dispersi qua e là. Le classi comprendevano anche allora una ventina di alunni e ricordo che non c’erano bidelli, ma soltanto una signora che era incaricata delle pulizie.
«Io ricordo che quelli erano anni che scorrevano veramente sereni, almeno per quanto potevamo cogliere noi bambini: le dimensioni le paese favorivano questo, la vita era molto semplice per tutti, si viveva nella dignitosa povertà… Ma naturalmente ricordo anche che numerosi compagnetti venivano scalzi a scuola. Riconosco che io ero un po’ privilegiato rispetto a molti, ero – come dicevano – “su fillu ’e su dottori”… D’altra parte si sa che nei paesi d’un tempo il medico, magari il farmacista, il maresciallo dei carabinieri, il parroco e i maestri di scuola erano quelle “autorità” che si incontravano… In più avevo una famiglia che mi sosteneva a casa con i compiti, completando la lezione, ecc. Soprattutto mia madre, anche perché maestra lei stessa, poteva seguirmi utilmente, come avrebbe fatto anche con mio fratello Francesco.
«Per gli ultimi anni delle elementari mi spostai dai nonni Ciuffo a Cagliari. Stavano ancora a Stampace, in via Gio.Maria Angioy. Frequentai la scuola Satta, in via Angioy. Lì ebbi per maestro Sebastiano Pirodda, il fratello del medico dottor Antonio Pirodda che poi mi operò di naso e gola. Io ero preso da questi malanni già da piccolino, con conseguenti bronchiti e addirittura, una volta, la polmonite. Mi risolse il problema, una volta per tutte, proprio l’operazione alla gola. Ricordo ancora gli stratagemmi adottati per distrarmi e non mettermi in agitazione...».
Quindi le ultime classi elementari al Satta e poi il ginnasio. Siotto o Dettori?
«Siotto, che era Giovanni Siotto-Pintor, il parlamentare del nostro Ottocento, non il Siotto delle elementari sarrochesi. Dopo aver saltato la prima, saltai anche la quinta elementare. Infatti dopo la quarta diedi, in autunno, l’esame di ammissione al ginnasio. Mi preparò, quell’estate, la maestra Nella Laconi, amica di mia zia Ida Ciuffo, quella che aveva ispirato il mio nome di battesimo. Tutti i giorni salivo in casa sua, nella piazza Yenne. E’ morta, molto anziana, pochi anni fa.
«Il Siotto – allora soltanto ginnasio, perché si sarebbe trasformato in ginnasio-liceo soltanto nel 1951 – era, anno scolastico 1938-39, nelle scalette del Santo Sepolcro, quelle che collegano la piazza con la via Manno attraverso il portico Sant’Antonio. Non lontano quindi dalla mia casa in via Gio.Maria Angioy. Era preside, allora, professor Gioacchino Longobardi, che mi pare prese la guida della scuola proprio allora. Suo vice era professor Piero Atzeni, monserratino, che era stato compagno di studi di mio padre, dai salesiani di Lanusei. Fui iscritto al corso D, che era quello in cui insegnava anche il professor Marcello Serra: lettere italiane e latino.
«Era un carissimo insegnante: lo ricordo per la giovialità del carattere e il modo vivace e intelligente di fare lezione e tenere la classe. Quando fui nominato arcivescovo di Oristano, venne apposta a trovarmi. Non poteva salire le scale e quando il vicario generale mi avvertì che mi attendeva in curia, scesi io felicissimo di incontrarlo. Era già passato mezzo secolo!
«Docente di matematica era la signora Sole… In seconda – corrispondente alla seconda media –
iniziai lo studio anche della lingua straniera, che nel corso D era il tedesco, con la professoressa Sanna. Studiai il tedesco per due anni, purtroppo poi l’ho lasciato, mi sarebbe piaciuto proseguire… Per entrare in quarta ginnasiale – per cui mi ero prenotato anche io dai salesiani, di Cagliari però – occorreva però passare al francese. Ragion per cui mi preparai d’estate. Era il 1941. Di religione la mia classe aveva monsignor Giuseppe Lepori».
E dei compagni quali nomi le sono rimasti in mente?
«Ah, certamente Gianfranco Podda, con cui continuo a frequentarmi e del quale ho celebrato perfino le nozze d’oro, e Marino Fontanarosa…
«Ho sempre studiato bene, con metodo e impegno. Ma mi sono anche divertito, amavo lo sport come forse tutti i ragazzi. Non dimentico le lezioni di educazione fisica. Allora utilizzavamo le strutture della GIL, in viale Bonaria. Nella mia memoria sono momenti indissolubilmente legati alla situazione di guerra in cui eravamo precipitati.
«Tutto il ginnasio l’ho vissuto in quel clima, fra preparazione e svolgimento della guerra, e in quinta ginnasiale avrei poi assistito anch’io ai bombardamenti, e conosciuto lo sfollamento… C’era stata prima una abbondante preparazione propagandistica, e c’erano anche state – verso la metà degli anni ’30 – tutte le campagne africane dell’Italia fascista, in Etiopia, Eritrea e Somalia. Allora non erano infrequenti, anche a Cagliari, le cosiddette “dimostrazioni”: in sostanza si trattava di scioperi, di astensioni dalle lezioni con una scusa patriottica. Una volta si doveva gridare contro l’Inghilterra, un’altra volta si doveva acclamare per gli avanzamenti, veri o supposti, delle nostre truppe in Africa… A promuovere queste cosiddette “dimostrazioni”, evidentemente tollerate dal regime per il loro sfondo patriottico e lo scopo propagandistico – almeno all’apparenza –, erano i ragazzi delle ultime classi. Era ed è abbastanza intuitivo, però, che spesso dietro il fine sbandierato se ne nascondesse, negli studenti, un altro molto meno nobile: saltare una lezione, magari qualche interrogazione… Tutto poi si concludeva in fretta. Non si aveva per meta né il municipio né la prefettura, si sfilava in corteo per qualche strada e poi ciascuno a casa propria. Il corteo si impoveriva man mano che procedeva per il centro cittadino.
«Il regime aveva le sue organizzazioni, la sua ritualità, il suo calendario. Io fui iscritto d’ufficio, da bambino, fra i balilla. Il sabato c’erano le cosiddette adunanze. Il più delle volte venivamo convocati nel cortile dei salesiani per andare poi, sfilando, per le strade magari di Stampace o della Marina. Debbo dire che io non le gradivo molto, ma neppure le potevo evitare: anche perché se non portavo a scuola, il lunedì successivo, il mio libretto con il timbro di partecipazione all’ultima adunata, dovevo giustificare. Erano noie, insomma.
«Un modo per salvare capra e cavoli però c’era. Talvolta mi presentavo con qualcosa dell’abbigliamento che non andava – tipo le calze o le scarpe di colore marrone – sicché, dopo aver acquisito il mio timbro di partecipazione, potevo andarmene per i fatti miei, ero congedato. Oppure capitava che mi ingegnassi perché, in un certo punto della sfilata – il mio punto prescelto era l’angolo fra la via Portoscalas e le scalette che portano al corso Vittorio Emanuele –, le mie scarpe si slacciassero: dovevo quindi chinarmi a riallacciarle e mi ci apprestavo… lentamente, molto lentamente, mentre i miei compagni proseguivano a passo di marcia per la meta. Fino a che, rimasto solo, me ne tornavo a casa o andavo al circolo di Azione Cattolica di Sant’Eulalia».
A raccontarle così sembrano storie anche divertenti. Ma la guerra c’era veramente, e anche gli allarmi.
«La cosa può raccontarsi da punti di vista diversi, fra il prima e il poi. All’inizio nessuna preoccupazione veramente grave, gli allarmi di dopo significarono invece i bombardamenti sulle case, i morti, la tragedia. Ancora nel 1940-41, la cosa funzionava così: se l’allarme suonava dopo la mezzanotte, era regola che si entrasse un’ora dopo. Il che capitò più volte. Erano allarmi “benedetti” quelli, anche perché veramente restavano senza conseguenze serie. Noi ci scampavamo un po’ di scuola…
«Poi cambiò tutto, purtroppo, anche se progressivamente. Iniziavano altri problemi rilevanti nella vita di tutti quanti: erano i problemi economici per le famiglie, i problemi di approvvigionamento alimentare. C’era una crescente scarsità di viveri, furono distribuite le tessere annonarie nominative. La fame credo sia stata un’esperienza di tutti. Anche a scuola, la merenda di mezza mattina, che pure sembra una cosa modesta e normale, la dimenticammo…
«Io abitavo, anche con mio fratello che intanto aveva iniziato le scuole medie, da mia nonna e mia zia Ida, nella casa di via San Lucifero dove ci eravamo frattanto trasferiti. Ai primi del 1939 era morto mio nonno Francesco, il notaio, anzi il presidente del Consiglio notarile di Cagliari. Era già anziano, anche se non vecchissimo: 74 anni. La casa, al secondo piano, era grande. Avevamo una portinaia sempre molto disponibile, la signora Pinuccia.
«Nell’appartamento sotto il nostro abitava monsignor Saturnino Peri, nativo di Trasnuraghes, che era stato parroco di San Lucifero, poi della cattedrale, e infine vescovo dapprima a Crotone in Calabria, poi ad Iglesias. Io ragazzo non ebbi molte occasioni di incontro, magari nelle scale… Era ormai al tramonto, cieco e bisognoso di accompagnamento. Lo portavano giù per fare quattro passi nella piazza… Poi, dopo lo sfollamento, non tornò più a Cagliari. Di tanto in tanto veniva a trovarci mia madre, non mio padre che era tenuto alla presenza nel suo servizio medico comunale. In paese io tornavo, in quegli anni del ginnasio, fra triennio e biennio, fra il Siotto ed i salesiani, durante le vacanze d’estate, ed a quelle di Natale e Pasqua.
«Per i bambini, ma non soltanto per loro, la chiesa di Santa Vittoria Vergine Martire era un punto di riferimento non soltanto religioso ma sociale. Teoricamente potevano contare anche su un’altra chiesa, nel territorio, appena fuori paese, a Barracas de susu: San Giorgio Vescovo. Però allora era in rovina. Fortunatamente di recente è stata ricostruita, anche se non officiata. Poi c’erano le associazioni: il gruppo Donne di Azione Cattolica, l’associazione giovanile maschile intitolata a San Luigi e quella femminile intitolata a Santa Vittoria stessa. Era attiva anche la Conferenza delle dame di San Vincenzo. Dopo la morte di don Raffaele Perra, quartese di origini, che fu anche lui parroco di Sarroch e morì quando io ero ancora ragazzino, arrivò don Tronci».
Ginnasiale al Siotto, liceale dai salesiani, e Sant’Eulalia per il resto
Riprendiamo il filo del corso degli studi. Siamo ora all’istituto dei salesiani.
«Dunque, dopo il triennio del Siotto frequentai la quarta e la quinta ginnasiale dai salesiani in viale Fra Ignazio. Mio fratello mi seguì, con il distacco di qualche anno. Mi facevo delle belle passeggiate, da via San Lucifero al viale Fra Ignazio! Per passare dal Siotto ai salesiani c’era, ho ricordato prima, il problema della lingua francese. Non è che dovessi passare un esame fra la terza ginnasiale e la quarta, però ignorare le basi del francese, che era la lingua studiata nelle classi dei salesiani, mi avrebbe messo in difficoltà. Per questo mi aiutò molto il parroco di Sarroch, don Tronci, che durante l’estate del 1941 mi approntò uno studio intensivo della lingua, con indubbio profitto negli anni seguenti.
«Do un ottimo giudizio di quella scuola, di quei metodi didattici, di quella esperienza anche umana e spirituale oltreché culturale che consentiva. Il direttore dell’istituto era don Giulio Reali, l’economo don Mario Girolimetti, un piemontese. Il docente di italiano credo di ricordare fosse don Buccarelli, di latino e greco avevamo don GiamBattista Atzeni, di francese don Mele, di matematica don Carnevale. Erano tutti sacerdoti.
«Io ero alunno semiconvittore, nel senso che tornavo a casa, da nonna e zia, per la cena e dormire. La mattina ero puntuale. A scuola si iniziava con la messa, poi venivano le lezioni ed a fine mattinata il pranzo. Nel primo pomeriggio lo studio formativo, fin verso le 19, quando rincasavo abbastanza stanco… ma soddisfatto. Un ricordo gradevole lo conservo del pranzo, dati i tempi… Era sufficiente, quasi abbondante, e potevamo consumarlo senza dover far ricorso alla tessera annonaria, che quindi rimaneva a disposizione per le necessità della famiglia».
Ha il ricordo di qualche compagno in particolare?
«Andrea Pirodda, fra i compagni della mia classe soprattutto lui, ma non solo lui ovviamente. Anche Cocchitto Orrù, Elio Salabelle, Carlo e Marcello Marchi…
«Quelli furono anni certamente molto formativi, come dicevo, non soltanto dal punto di vista culturale in generale, ma umano e inevitabilmente anche spirituale. E posso dire che valsero anche per la messa a fuoco di una scelta che cominciava a farsi presente in me: quella del seminario.
«Lo studio impegnava gran parte del tempo, sia negli anni del ginnasio inferiore che in quelli del ginnasio superiore in viale Fra Ignazio. Ma allora riuscivo abbastanza bene a combinare con il circolo di Azione Cattolica di Sant’Eulalia. Intendiamoci, dal punto di vista prettamente ricreativo non è che il circolo di Sant’Eulalia offrisse molto: un cortiletto dove si potevano dare calci a un pallone, anzi una palla, ma non è che si potesse giocare una partita vera e propria. Noi però ci accontentavamo, giocavamo cinque contro cinque… I passaggi avvenivamo anche con calci al muro, che rimandava la palla in gioco… Nelle sale, poi, avevamo il calcio balilla e il ping pong.
«Naturalmente c’erano gli incontri formativi, di catechismo, che erano concentrati soprattutto nel fine settimana, o in occasioni particolari, perché la scuola ci impegnava molto, fra lezioni, interrogazioni e altro».
Don Mario Floris, viceparroco meno che trentenne allora, era l’anima di tutto, vero?
«Verissimo, l’anima di tutto. Dottor Floris era stato ordinato sacerdote nel 1937, ma era rimasto a Cuglieri un altro anno per laurearsi. Nel 1938 era quindi tornato a Cagliari, e si può dire che io iniziai la mia esperienza di circolino con lui. Nel 1938-39 avevo dieci anni! Bisogna anche considerare che dottor Floris era nativo del quartiere della Marina, quindi conosceva l’ambiente molto bene. Condusse il circolo per cinque anni, perché poi i bombardamenti sulla città, fra febbraio e maggio, costrinsero alla evacuazione.
«Il nostro riferimento era, direi, soltanto dottor Floris, che divenne parroco nel 1944, quando morì, dottor Amedeo Loy. Gli altri vice erano don Giacinto Macis e don Mario Marcialis, che nel dopoguerra sarebbe diventato cappellano dell’Ospedale civile.
«Dottor Floris rappresentò un modello che evidentemente fu fecondo. Quando lo incontrai, all’inizio, certamente lui – essendo appena arrivato a Sant’Eulalia dopo la fine degli studi – non aveva ancora una visione decisa, cosa che maturò soprattutto nel tempo, accelerandosi al ritorno dallo sfollamento. Ricordo la sua delicatezza verso noi ragazzi, una delicatezza che è rimasta una sua caratteristica. Mi ha accompagnato sempre, man mano che sono cresciuto, finché sono diventato sacerdote. L’ho reincontrato più volte, da sacerdote e da vescovo, e ho visto come l’attenzione da parte sua fosse diventata affetto e rispetto non soltanto per la persona ma anche per il ruolo. Voglio dire: non si è mai consentito un “eh, ti conosco da ragazzo…”, no, è sempre stato molto misurato, delicato e rispettoso.
«La cresima mi fu amministrata da monsignor Piovella che ero ancora proprio piccolo, avevo sei anni soltanto – ma allora si usava così –, il 26 dicembre 1935, nella cappella di monsignor Piovella presso il palazzo arcivescovile. Eravamo un bel gruppetto. Il mio padrino fu nonno Ciuffo, il notaio».
Dunque, com’era questo Pier Giuliano ragazzino, studente ginnasiale e circolino? Chi erano i coetanei con i quali condivideva quelle esperienze di studio e di circolo? Com’era strutturata l’attività dell’Azione Cattolica di cui s’era fatto militante?
«Ho vissuto intensamente quella esperienza. Per temperamento e per educazione ho cercato sempre di applicarmi seriamente alle cose, anche… al gioco. A Sant’Eulalia ricordo, fra i molti compagni – eravamo numerosi davvero, perché la Marina era allora un quartiere veramente popoloso –, soprattutto Franco Murtas, destinato a diventare sindaco di Cagliari all’inizio degli anni ’70, e Gianni Gandolfo, poi Ernesto Dessì che era un dirigente… Credo si fosse poi imparentato con dottor Floris. Era ancora giovane e nell’Azione Cattolica avrebbe fatto una bella carriera. Allora mi pare lavorasse in un negozio vicino alla piazza del Carmine che trattava articoli che interessavano i ragazzi… Ho un ricordo sfumato…Ci si divideva in aspiranti ed effettivi. Gli aspiranti erano i ragazzi fino ai 15 anni, gli effettivi juniores comprendevano la fascia fra i 16 e i 18 anni, quelli seniores oltre i 18 anni.
«A parte le attività ludiche di cui ho detto, una parte centrale l’aveva, a Sant’Eulalia, la messa domenicale alle 9. Allora gli iscritti al circolo erano ammessi ai lati del presbiterio, di fianco all’altare dove il sacerdote celebrava spalle al popolo. Gli aspiranti, fra cui io, stavamo sulla sinistra, dove era ed è la porta della sacrestia, gli effettivi invece erano posizionati sulla destra del presbiterio. Il resto delle attività comprendeva essenzialmente il catechismo, e con il catechismo quegli incontri di formazione spirituale che erano ben distinti se destinati agli effettivi, fossero seniores o juniores, oppure agli aspiranti».
I bombadamenti, l’esame di maturità “sfollato” nel 1943
Tutto questo fino al 1943, quando lei aveva 14 anni, e da Villanova dove abitava aveva iniziato a farsi tutti i giorni quelle simpatiche sgroppate attraverso il viale Regina Margherita, la via Manno ed il corso Vittorio Emanuele fino all’istituto dei salesiani. Poi la tragedia. Come la visse, l’apocalisse, quel quattordicenne?
«I primi bombardamenti non destarono preoccupazioni particolari. Furono piuttosto allarmi. Quasi ci eravamo abituati. I problemi veri iniziarono ai primi di febbraio. Un certo giorno, mentre noi facevamo lezione in aula, ci fu questa mitragliata. Fummo portati d’urgenza nel teatro, che si considerò evidentemente una specie di rifugio. Partì l’allarme, poi questo mitragliamento forse in conseguenza di uno scontro aereo fra alleati e italiani. Credo fosse il 9 febbraio. E dopo quel fatto molti cominciarono a lasciare la città. La cosa divenne sfollamento di massa dopo i bombardamenti del 17, e soprattutto del 26 e del 28 dello stesso febbraio. La scuola vennero chiuse. Mi sembra però che l’ultima seduta scolastica sia stata quella del 9 febbraio.
«Io mantenni i contatti con i salesiani per concordare l’esame di licenza ginnasiale, che sostenni a Santulussurgiu, appunto su indicazione dello stesso collegio di Cagliari, forse qualche giorno dopo il fatale 13 maggio. Naturalmente noi compagni ci disperdemmo seguendo ciascuno la propria famiglia. Naturalmente anche noi, mia nonna e mia zia, mio fratello e io lasciammo Cagliari. Loro si ritirarono a Meana, a casa di cari amici, perché a Sarroch non c’era spazio a sufficienza. Noi ragazzi tornammo in paese, in famiglia. Bisogna dire che Sarroch era in una zona pericolosa, dal punto di vista aereo, però non avemmo i bombardamenti. Solo una mitragliata fra aviogetti che si inseguivano in cielo. A fine 1943 cominciai con il liceo, a Cuglieri, e quindi le possibilità di contatti con i miei diminuirono notevolmente per forza di cose.
«Certo, a ripensarci, il fascismo arrivò alla mia generazione come una organizzazione sociale tutto sommato positiva, c’era ammirazione per tutto quello che era inquadrato, e voci dissenzienti a noi non ne arrivavano. Ma con l’andare della guerra mi resi conto anch’io, pur ragazzo, che così non si poteva andare avanti. La situazione era diventata insostenibile. Debbo anche dire che non ci fu verso gli americani, che pure ci bombardavano o ci avevano bombardato con le conseguenze che si conoscono, quella paura che avemmo invece verso i tedeschi fino alla loro partenza all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre. Ricordo una reciproca cordialità fra gli americani e noi che li accoglievamo sul finire della guerra».
Gli uomini di chiesa, per non scomodare la Chiesa con la “c” maiuscola, furono in larga misura conniventi con la dittatura che pure era intimamente pagana. Ha approfondito questa pagina di storia?
«Io credo fosse mancata la consapevolezza profonda della natura della dittatura. La Chiesa è informata sempre da uno spirito di rispetto e obbedienza verso il potere civile, e questo ha contato senz’altro nell’incoraggiare nella… magari direi convivenza, non connivenza».
Torniamo alla scuola. Come andò a Santulussurgiu?
«Benissimo. L’esame di licenza ginnasiale a Santulussurgiu, dove i salesiani avevano un collegio ed avevano trasferito il ginnasio in alcuni locali vicini presi in affitto, che poi avrebbero lasciato negli anni ’80, non fu particolarmente esigente, data anche la situazione generale di emergenza. Le interrogazioni riguardarono tutte le materie; non c’era scritto, l’esame fu solamente orale, secondo le regole stabilite dal ministero. E ricordo che, alla fine, il professore che mi aveva interrogato – don Giuseppe Perino – venne ad abbracciarmi commosso, dicendomi che trent’anni prima aveva esaminato, a Lanusei, mio padre.
«C’erano stati diversi sacerdoti che mi avevano detto “tu sei fatto per il sacerdozio”, vedevano la mia frequenza regolare, quotidiana, in chiesa, il servizio all’altare… Ma la decisone ultima, che fu anche un momento di commozione interiore, la presi all’indomani dell’esame di Santulussurgiu. Mi parve di sentire una voce interiore più forte e più chiara. Ne parlai subito a casa. Andare in seminario? Accettarono tutti volentieri, e così nei mesi da maggio a settembre – e parlo del settembre dell’armistizio, e quindi della fine della guerra in Sardegna – mi disposi a quella svolta totale nella mia vita.
«Fui in contatto costante con il mio parroco monsignor Tronci, che a sua volta interessò il seminario diocesano, allora diretto da monsignor Giuseppe Orrù. Furono avviate tutte le pratiche perché fossi presentato al seminario di Cuglieri. Preciso che il seminario arcivescovile di Cagliari, quello di via Università, era chiuso in conseguenza dei danni di guerra che lo resero inagibile per due o tre anni. Ma anche il seminario di Cuglieri, dove ero destinato per frequentare il triennio di liceo, soffriva dell’emergenza dei tempi, non tanto per esser stato danneggiato, quanto per essere a corto di approvvigionamenti. Infatti l’anno scolastico iniziò a novembre inoltrato, mentre di norma si partiva ai primi di ottobre».
L’avventura cuglieritana, teologia e canto
Come fu l’impatto?
«La vestizione, che era il primo atto di questo nuovo corso della mia vita, la feci nel mio paese, a Sarroch: misi la sottana nera, e così mi inoltrai per Cuglieri. Fu un viaggio avventuroso. Il punto di incontro fra tutti i seminaristi che venivano dalle varie parti della Sardegna era stato fissato ad Oristano, e là arrivavano tutti o con il treno o con mezzi propri. Io ci arrivai con il treno, partendo da Cagliari, accompagnato da mia madre. Andai subito a salutare l’arcivescovo, che era monsignor Giuseppe Cogoni – di origini cagliaritane, di Pirri precisamente –, che conosceva la mia famiglia. E quindi partii a bordo di un camion militare fino a Cuglieri…
«Era una bella esperienza che iniziava fra le difficoltà. Avevo 14 anni e qualche mese soltanto, ero attento a quello che avevo attorno. I militari ci misero a disposizione una serie di camion, quelli coperti con la tenda. Percorremmo diversi chilometri di strada sterrata. Durante il viaggio facemmo conoscenza e amicizia fra noi ragazzi. Dal Cagliaritano partimmo quell’anno in tredici, includendo nel numero anche coloro che poi non diventarono sacerdoti. Quelli che arrivarono fino in fondo, di quel gruppo, sono Lauro Pinna, purtroppo deceduto prematuramente, Ivan Marras di Muravera, scomparso nel 2001, Dante Usai di Orroli, Antonio Porcu di Quartucciu, Lauro Nurra di Cagliari e Gino Porrazzo – deceduto nel 1956 – il quale, già docente statale, era venuto a Cuglieri per frequentare l’ultimo anno. Ma naturalmente mi rimane un caro ricordo anche degli altri, come Efisio Piredda di Pula, Franco Cocco di Samatzai, Raffaele Bodano di Quartu…
«Lasciavamo la nostra casa per un ambiente sì accogliente, ma a cui ci si doveva abituare. Il pasto, rispetto a quello di casa, certamente era scadente. D’altra parte noi eravamo ben 250 studenti, e se aggiungiamo tutto il personale e i superiori, toccavamo quasi le 300 persone, e dar da mangiare tutti i giorni, e tre volte al giorno, a trecento persone nel 1943 non era davvero facile!».
Arrivando nell’autunno 1943, lei entrava nel diciassettesimo anno di vita del seminario regionale, fondato appunto nel 1927 ed affidato dalla Santa Sede ai gesuiti, che prima avevano avuto la conduzione del seminario arcivescovile di Cagliari. Una istituzione ormai consolidata dunque, pur attraversata ora dall’emergenza bellica. Iniziamo dallo staff dei docenti. Chi lo componeva?
«Il rettore era padre Carlo Bozzola, il suo vice era padre Silvio Taras. In prima liceo – la classe era di ben 60 alunni – e negli anni successivi ebbi come professore di lettere italiane padre Egidio Boschi, di latino e greco padre Luigi Gallicet, di storia padre Camillo De Grandi, di filosofia padre Josto Sanna – uno dei pochissimi docenti sardi –, di matematica e scienze padre Federico Scheffter, che a noi che temevamo istintivamente la matematica ispirava i versi “Federico, egli è un uomo come noi…”. Della direzione spirituale era incaricato padre Nicola Della Casa.
«Come risulta chiaro ed ho accennato, la presenza continentale nel corpo docente era soverchiante. Così sarebbe stato anche nelle classi di teologia. Il corso scolastico era infatti costituito dal triennio di filosofia – in sostanza le classi liceali – e dal quadriennio di teologia che si concludeva di norma con la licenza. Con un ulteriore anno di studi si poteva conseguire anche la laurea in teologia».
Lei si inserì facilmente nella vita comunitaria?
«Direi di sì, ho buona capacità di adattamento. Avevo compiuto da qualche mese i 14 anni, me ne sarei andato via a 21. Sono anni cruciali nella vita di qualsiasi persona, quelli, estremamente formativi. L’esperienza comunitaria aiuta nella vita adulta, di responsabilità. Aggiungo che la maggior parte dei miei compagni aveva fatto già vita di seminario, provenendo veramente pressoché tutti dal seminario minore della propria diocesi. Essi più di me erano abituati alle dinamiche comunitarie, alla disciplina. Ma anch’io mi calai abbastanza naturalmente e senza grandi sforzi in questa situazione.
«Dati i tempi, una esperienza difficile che abbiamo fatto tutti subito è stata quella della scarsità del cibo. Non è una cosa da poco per gli adolescenti, questa… C’erano stati dei rifornimenti da parte della Santa Sede prima della chiusura delle frontiere, subito dopo l’armistizio; e i rifornimenti della Santa Sede erano quasi soltanto sacchi di riso, per cui tutto l’anno siamo andati avanti col riso: riso che era portato nel fondo dei piatti a pranzo e a cena, e poi era a volontà liquido, in minestra che non era certo brodo di carne… A colazione ci davano una mezza pagnotta, un’altra mezza a pranzo ed un’altra mezza ancora a cena, e poi basta.
«In queste difficoltà un aiuto ci veniva dalle famiglie che ogni tanto arrivavano a Cuglieri con qualche fornitura. Ma un aiuto più frequente ci veniva dato, fortunatamente, dai compagni nuoresi, i quali erano riforniti più facilmente da casa loro: i genitori e i fratelli prendevano un cavallo, caricavano su le bisacce, e ci portavano quel tipo di pane che si conserva a lungo. C’era la dispensa, che era un’aula per classe, dove ciascuno metteva in una valigia, di quelle valigie non certo di lusso di quel tempo, le riserve costituite appunto da questo pane che si poteva conservare, da formaggio e cose simili. Ricordo anche che una volta da casa mia portarono delle gallette militari perché da noi a Cagliari era sconosciuto quel pane di lunga conservazione, il pane secco…».
Un’austerità obbligata. Con quali conseguenze sul profitto?
«Beh, prima che sul profitto l’austerità si riflesse proprio sullo stato fisico, pur senza drammatizzare. La fame così incombente e continua incise sul nostro organismo come mancanza di grassi. La conseguenza immediata erano i geloni, le dita spaccate… A Cuglieri poi, non avevamo il riscaldamento, non c’era proprio nessun riscaldamento, e l’inverno l’abbiamo patito. Così abbiamo tirato il primo anno. Questa era la prima impressione, la fame… Ma il resto era tutto positivo: la novità della scuola che ci impegnava, il collegamento di amicizia fra di noi ragazzi che si mostrava soprattutto nello sport».
Giocavate a…?
«A pallavolo. Prendendo spunto dalla storia chiamavamo la nostra squadra Burschenscaft… Burschenscaft era una corporazione studentesca tedesca fondata dopo il congresso di Vienna del 1815, che aveva finalità goliardiche e politiche. Facevamo veri e propri campionati. Giocavamo il giovedì, che era giorno di vacanza. Quel giorno si faceva solo un’ora di scuola. C’era questo campionato di pallavolo che ci coinvolgeva pressoché tutti, dai quattordici a venti e più anni quali erano le età delle varie classi, fra liceo e teologia. C’era anche la possibilità del tennis, riservata però a coloro che erano riusciti a recuperare la racchetta, ed erano pochi, dati i tempi…».
Insomma, non vi negavate il diritto al divertimento.
«Era giusto così. Ogni classe aveva il proprio campo di gioco. C’era poi il cortile centrale che serviva per le gare di campionato. Facevamo movimento ogni giorno, tanto più alla ricreazione che si svolgeva nel dopopranzo. Giocavamo sempre a pallavolo, era una necessità ma anche una passione. Eccetto i giorni della pioggia, quando si doveva rinunciare.
«A mezza sera avevamo la passeggiata fuori dal seminario. Dopo l’ora pomeridiana di scuola dalle 15 alle 16 –, che seguiva al pranzo e al dopopranzo, durante il quale spesso si dormicchiava appoggiati al tavolino, c’era un’ora di passeggio, con mete diverse. Attraversavamo il paese, oppure uscivamo per qualche zona di campagna…. Il giovedì la durata del passeggio era raddoppiata. Alle 17 finiva il piacere e tornavamo al dovere. Riprendeva lo studio.
«Lo studio era sorvegliato. In ogni classe c’erano il prefetto e il viceprefetto, che poi erano due studenti delle classi superiori di teologia. Dovevamo studiare in silenzio, e per uscire dall’aula di studio ci voleva il permesso, che doveva essere motivato, per esempio: «devo andare dal rettore»…
«Per quanto riguardava i professori, c’erano i bigliettini: “chiedo di essere ricevuto dal professor tale”. Quando poteva, il professore chiamava e riceveva chi gli aveva chiesto colloquio. Da questo punto di vista della burocrazia era più semplice farsi ricevere dal rettore, o dal suo vice, o ancora dal padre spirituale. Con loro non c’era bisogno di preavviso. Certamente erano chiarimenti sul programma, anche in vista delle interrogazioni e poi dell’esame annuale, che avveniva classe per classe, con tutti gli scritti e tutti gli orali».
I suoi risultati?
«Le mie votazioni erano abbastanza buone. Sia negli anni di liceo che, più tardi, di teologia simpatizzai soprattutto per le materie razionali: filosofia – meglio filosofia scolastica, non solo storia della filosofia – e poi teologia. Sì, il profitto era abbastanza buono. Anche se, evidentemente, un giovane che frequenta la prima teologia dopo aver frequentato il liceo, come anche avviene oggi, non può essere un teologo specializzato. Peraltro nessuno ce lo chiedeva».
Vediamo la formazione spirituale. Com’era impostata?
«La formazione spirituale seguiva questi ritmi: ogni giorno avevamo la messa, anzi la meditazione e la messa. Nel dopopranzo c’era la visita al SS. Sacramento, in cappella, e di sera il rosario. La domenica sera aggiungevamo la recita dei vespri. In generale, complessivamente, dedicavamo ai doveri spirituali un’oretta la mattina e un’altra oretta fra pomeriggio e sera. Avevamo quindi, periodicamente, le conferenze spirituali, questo soprattutto negli anni del liceo.
«Con qualche periodicità c’erano le visite dei vescovi, che naturalmente si intrattenevano in particolare ciascuno con i propri seminaristi. A Cuglieri i vescovi erano soliti incontrarsi fra loro una volta all’anno, in Quaresima, e anche quella era una occasione per vederli da parte nostra. Inoltre venivano anche se invitati per qualche speciale celebrazione: così per le ordinazioni, iniziando dagli ordini minori fino al diaconato, il che avveniva due volte all’anno, prima di Natale ed in Quaresima. Facevano a turno, per quanto possibile. Naturalmente il più assiduo era il vescovo di Bosa, dato che Cuglieri era ed è nel territorio della diocesi di Bosa. Abbastanza assiduo era anche l’arcivescovo di Oristano Giuseppe Cogoni, almeno finché fu in salute, dato che morì nel 1947. Egli si interessò molto del seminario anche dal punto di vista dei rifornimenti, organizzando collette in tutta la Sardegna. Qualche volta salì da Cagliari anche monsignor Piovella, che era già molto anziano e anche malato».
Penso però che maggior gioia dessero i contatti con i familiari, dato che lo strappo anche fisico dalle famiglie era abbastanza netto. Sbaglio?
«Gli incontri con i familiari avvenivano, quando possibile, di norma il giovedì e la domenica, e poi , per situazioni straordinarie, quando venivano richiesti e accordati dai superiori. Duravano un’ora circa, il tempo del parlatorio. Date le distanze dalle sedi di provenienza – per esempio Cagliari – bisognava calcolare anche i tempi di viaggio all’andata e al ritorno, per cui non si poteva restare a lungo. D’altra parte Cuglieri era un paese piccolo e anche abbastanza decentrato, e non è che offrisse alberghi per una permanenza maggiore».
Finito il liceo iniziò il corso quadriennale di teologia. Siamo nel?
«Nell’anno scolastico 1946-47. Nell’autunno 1946 iniziai teologia, dopo l’esame di terza liceo, peraltro uguale a quelli degli altri due anni precedenti: tutti gli orali e tutti gli scritti. Adesso naturalmente cambiavano le materie, e anche, da un certo punto di vista, l’ambiente. Ci spostammo infatti in un’altra parte del grande caseggiato. Anche i professori erano quasi tutti nuovi. Padre Angelo Perego insegnava teologia fondamentale, negli anni successivi, invece, dogmatica. C’era poi padre Carlo Bozzola, che intanto, nel 1947, aveva lasciato il rettorato a padre Crescentino Greppi proveniente dalla chiesa di San Michele di Cagliari, sacra scrittura la insegnava canonico Francesco Sole, teologia morale l’avevano padre Angelo Schiaffino e padre Alfredo Boschi, storia ecclesiastica ancora padre Camillo De Grandi, diritto canonico padre Francesco Maria Marchesi e anche dottor Gesuino Martis».
E l’insegnamento della musica e del canto che posto aveva nel corso di studi?
«Intanto inizio col dire che il nostro maestro di musica era padre Egidio Boschi, che era anche il nostro professore di lettere. Doveva fare la modulazione e lui era stonato. Però insegnava benissimo e per noi era un piacere partecipare alle sue lezioni. Alle funzioni dei giorni feriali si cantava sempre, ma erano canti vari, talvolta anche in gregoriano. La domenica, invece, sia la messa che i vespri erano sempre rigorosamente in gregoriano. Nei giorni solenni o in qualche ricorrenza speciale si cantava una messa polifonica. Al coro partecipavano soltanto voci maschili, perché ragazzini non ce n’erano. Anzi, un anno capitò una voce bianca: era Giovanni Dessì, il medico di Serramanna che viene con noi sempre a Lourdes con l’UNITALSI…
«Naturalmente, per essere ammessi al coro, le voci venivano provate e bisognava superare la prova. Io quando arrivai al coro fui inserito nel gruppo dei medi, cioè dei tenori secondi, che stavano fra i tenori e i bassi anche nella collocazione fisica all’interno del coro: a sinistra i tenori, poi i tenori secondi e infine i bassi. Si studiava musica direi molto seriamente, dovevamo saper leggere il pentagramma e anche le quattro righe del gregoriano… Con l’esercizio ovviamente tutto va bene, se manca l’esercizio però le nozioni di base rimangono comunque… e la musica continuiamo a conoscerla anche se la voce non è più quella di un tempo. Qualche volta capita ancora di avere in mano la musica, per esempio mi capitava fino a qualche anno fa alla CEI… La memoria era rimasta: salivi in alto, andavi in basso…
«Il livello generale direi era buono, qualcuno più qualcuno meno. Ma insomma, non è che si negasse l’ordinazione se uno non riusciva. D’altra parte ci sono stati grandissimi uomini di Chiesa, venerati per santità e per sapienza e cultura, che erano stonati. Mica tutti erano come Giovanni Paolo II! Amando la musica, ho tanti ricordi di prove magari modeste anche di cardinali importanti… Ne ricordo a Roma, negli anni della mia gioventù, quando nel 1950 il papa Pio XII definì il dogma della Assunzione… Di norma, e mi riferisco agli anni del seminario, chi non è proprio intonato viene lasciato nell’assemblea, mentre vengono valorizzati quelli meglio intonati.
«A Cuglieri avevamo la schola cantorum del liceo e la schola cantorum dei teologi. Naturalmente questa seconda era migliore perché più allenata ed esercitata, più matura. La scuola di musica e quella di canto erano per tutti. Noi studenti avevamo alcune stanzette – saranno state cinque o sei o sette –, con gli harmonium per l’apprendimento e l’esercizio. Ci si iscriveva, c’erano i turni di frequenza nelle stanze degli harmonium. Ed era un insegnamento generalmente gradito dai ragazzi, il canto piaceva a tutti e non mancavano certo le occasioni per “esibirsi”. Non soltanto nelle liturgie, dove come ho detto la norma era la polifonia, ma anche nelle accademie che venivano organizzate per qualche anniversario o ricorrenza particolare: e anche le accademie erano polifoniche».
Che giudizio dà, a tanti anni di distanza, di quella esperienza anche dal punto di vista prettamente culturale e anche pedagogico?
«A Cuglieri si imparava a studiare, il metodo era indubbiamente buono, poteva migliorare ma era buono. Lo si è accusato di non essere sufficientemente inculturato nella realtà sarda: è vero, i professori venivano quasi tutti da altre regioni. Però l’insegnamento era impartito secondo la maturità dogmatica quale la Chiesa poteva offrire in quel tempo. Aggiungo che quando andai a Roma a studiare al Laterano, dopo aver concluso i quattro anni di teologia e prima dell’ordinazione sacerdotale, non trovai nessuna difficoltà nell’inserirmi, mentre quelli che venivano da altri seminari d’Italia dovevano fare l’esame di ammissione alla facoltà di diritto. Questo potrebbe dimostrare che l’impianto di studi da noi era adeguato.
«Quello era un ambiente riservato, super-disciplinato, ma insieme apriva alla vita comune, dando ai giovani la possibilità di realizzare varie attività gradite, di avere conforti e svaghi; lo stile di povertà del tempo esortava alla rinuncia insegnando la validità dei proverbi popolari: chi si contenta gode; il troppo storpia. Può sembrare poco, a me sembra molto».
Man mano che si proseguiva negli studi, la selezione, proprio sul piano della vocazione, ritengo si facesse più severa. Erano numerosi gli abbandoni?
«Debbo dire che molte volte queste partenze erano preceduta da confidenze tipo “non me la sento di andare avanti”, mentre altre volte, a parte le confidenze, ci si accorgeva di un certo disagio, di una crisi… Intanto però va precisato che c’erano due tipi di uscite: c’era chi usciva durante l’anno, e chi non ritornava dopo le vacanze estive. Le prime magari erano più clamorose, anche se più o meno annunciate come ho detto, le altre si mettevano nel conto, tanto più se conseguenti a una certa disaffezione… Comunque, di norma, non c’era una sorpresa assoluta. Nel giro dei miei compagni non ricordo episodi particolarmente importanti da questo punto di vista.
«Non mancavano, per i compagni che lasciavano, delle conseguenze concrete, e noi ne eravamo coscienti: chi frequentava il liceo a Cuglieri era fuori da un inquadramento scolastico, e cioè chi abbandonava doveva poi sistemare le sue cose dal punto di vista scolastico, perché il titolo era carente per lo Stato. E quindi doveva sostenere da privatista gli esami per conseguire un titolo ritenuto necessario ad un certo tipo di lavoro. Anche se è vero che in quegli anni, a differenza di oggi, era più facile inserirsi in attività che non richiedevano un titolo specifico».
I ritorni in paese, i parroci di riferimento e il pallone
Dopo gli esami annuali, l’estate la passavate a casa. Lei tornava nella sua Sarroch… Come impegnava il tempo, di cosa si occupava?
«Certo, d’estate, da metà luglio a fine settembre, si tornava a casa per le vacanze, io a Sarroch. Mi dividevo fra casa e parrocchia, molto tempo lo dedicavo alla parrocchia e anche agli amici e ai ragazzi del paese, organizzando in particolare le andate al mare e le partite di calcio. Molti ragazzi – e io ero poco più grande di loro, avevo 18-20 anni allora – non potevano andare al mare perché i genitori non si fidavano. Potevano invece farlo con noi, perché dei seminaristi ci si fidava. La nostra zona balneare era a 2-3 chilometri dal paese, dove adesso è la raffineria. La sera, invece, si giocherellava a calcio in piazza di Chiesa.
«Una volta, o forse più di una volta, si organizzò anche una specie di campionato estivo, rione contro rione, oppure studenti contro lavoratori. Naturalmente, nelle partite studenti-lavoratori, più della metà degli studenti erano preti o seminaristi, a cominciare dal parroco che intanto, dopo il 1944, era don Giovanni Serra. Giocavamo dopo le funzioni la domenica, il campo sportivo non c’era allora, le partite vere e proprie le giocavamo nelle aie comunali, agibili dopo la raccolta del grano. Ricordo moltissimi di quei compagni di squadra od avversari: Rino ed Ireneo Meloni, Pasquale Lorrai, Giovanni Nappi, Mario e Saverio Murgia… Debbo tornare indietro di 60 o 70 anni… e la memoria appare in bianco!».
E suo cugino Mario, prossimo giocatore e allenatore del Cagliari, era con voi?
«Diciamo che in quegli anni, immediatamente dopo la fine della guerra, lanciammo il calcio in paese. Giovavamo quasi regolarmente, c’era un buon afflusso di pubblico a tifare per le squadre. I Tiddia eravamo sette, Mario era del gruppo, ma non era il primo, almeno dal punto di vista anagrafico, perché ce n’erano di più anziani di lui. Eravamo tutti di famiglia, una bella rete di fratelli e cugini… Si trattava di un diversivo estivo, che serviva a legarci di più, a creare il gruppo giovani che portò avanti un suo messaggio, e infatti ancora oggi quando ci incontriamo a Sarroch, noi che ormai siamo tutti avanti con gli anni, ricordiamo quell’avventura del calcio, che fu anche l’inizio per la squadra che oggi c’è in paese. Una tribù a Sarroch… e in campo. Mario prima di tutti, ed Edoardo, Francesco, Luigi, Antonio, Giovanni… e modestamente Pier Giuliano…».
Lei diceva prima che intanto era cambiato il parroco a Santa Vittoria. Lei come entra nella storia?
«Nel 1944, quando monsignor Piovella decise l’avvicendamento, io, ormai quindicenne, ero a Cuglieri da un annetto circa. Presi atto di quel cambio. Ero stato molto legato, da bambino e ragazzino a don Giovanni Tronci, che era stato una specie di tutore della mia vocazione, che non aveva suscitato o sollecitato ma certamente aveva assecondato e accompagnato.
«Don Tronci, poi fatto monsignore nel 1942 come fondatore di un nuovo canonicato nel nostro Capitolo cattedrale, era originario di Settimo San Pietro. Allora era un sacerdote già maturo, press’a poco quarantenne – un’età già di rispetto, soprattutto in quel tempo… Lui era del 1904 ed era stato ordinato nel 1930, conosceva molto bene l’ambiente di Sarroch.
«Don Giovanni Serra, samassese, era più giovane di dieci anni: venne a Sarroch quando era trentenne e in forza, con pochi anni di messa. Rimase da noi sino al 1952, insomma fino a poco dopo che io fui ordinato sacerdote. Andò poi a Villasor, e dopo ancora a Dolianova. E al suo posto, a Sarroch, venne don Mario Contu, cagliaritano di Castello, un sacerdote ancora giovane, con una dozzina d’anni di esperienza.
«Ciascuno con la sua personalità, erano dei modelli con i quali era facile la confidenza. Monsignor Giovanni Tronci era molto sensibile alla problematica vocazionale, cui dedicava il meglio delle sue energie come direttore spirituale. Mi seguì da vicino non soltanto nel disbrigo delle pratiche per l’ingresso in seminario, ma soprattutto nella preparazione spirituale, nell’avvio del cammino vocazionale cioè. Ricordai questo quando celebrai la mia prima messa a Sarroch, all’aperto, allorché lo invitai per la predica, come avveniva allora. Nel 1944 andò parroco a Quartucciu, dove rimase sino alla fine, al 1980 cioè. Io lo assistetti fino alla fine, anzi gli detti anche l’unzione degli infermi: glielo chiesi, e lui accettò volentieri, fu l’ultimo dialogo. Ero già vescovo allora. Veramente mi sono sentito molto legato a questo sacerdote. Egli si dedicava completamente alle vocazioni e alla formazione dei giovani, come ho detto. Allora era molto sentito questo.
«A Sarroch c’era allora un pienone di vocazioni, e diversi siamo diventati sacerdoti: prima di me c’era stato Lauro Pinna, che morì in un incidente d’auto nel 1972, quand’era parroco di Senorbì, a soli 47 anni, e che ho ricordato in un libricino biografico. Poi Mosè Piroddi, che fu parroco a Villa San Pietro e attualmente vive a Sarroch, ordinato nel 1952. Poi ancora Gavino Pala, parroco di San Carlo Borromeo a Cagliari, ordinato nel 1955. E anche un frate cappuccino, sorto in quell’ambiente e deceduto qualche anno fa. Passò poi al clero diocesano e andò parroco – don Nino Pinna era il suo nome – nel Sarrabus. Naturalmente gli altri, pur se non diventati sacerdoti, hanno vissuto la loro vita cristiana».
Parteciparono alla sua prima messa?
«Certamente ve n’erano diversi, fra i preti, i chierici e anche fra i fedeli nella piazza. Quel giorno, con l’arcivescovo e numerosi sacerdoti, e con monsignor Tronci, c’era naturalmente dottor Giovanni Serra, che fu appunto il parroco della mia prima messa. Anzi ricordo che, al termine della messa, il vicario generale Lai Pedroni, presente anche lui, lo chiamò da parte e gli disse che si intendeva trasferirlo a Villasor. Andò, e da lì sarebbe poi andato a San Pantaleo, l’ex cattedrale di Dolianova – e a Dolianova fu anche preside delle scuole medie del seminario minore alla fine degli anni ’50 – e dopo ancora a Sant’Ambrogio di Monserrato, per finire canonico del Capitolo metropolitano con le mansioni di archivista. Era un persona amabile, amica. Ecco, di lui ricordo questo spirito d’amicizia… Fra l’altro, negli anni sarrochesi, come ho già ricordato, era un grande anche appassionato del gioco del pallone, e partecipava anche lui quando noi si giocava fra seminaristi, o in paese si facevano le partite studenti contro lavoratori, dopo i vespri… Aveva proseguito i suoi studi fino a laurearsi in lettere, dedicandosi molto anche alla ricerca storica ed ha anche pubblicato diversi libri».
Botto dopo Piovella, gli studi di diritto canonico alla Lateranense
Nel febbraio 1949 morì monsignor Piovella. In ottobre 1949 arrivò a Cagliari, dalla sua Liguria, monsignor Paolo Botto. Come entra il nuovo arcivescovo in quella fase della sua vita tra conclusione degli studi a Cuglieri e ordinazione sacerdotale?
«Sì, monsignor Botto giunse a Cagliari nell’autunno 1949, proprio quando io iniziavo l’ultimo anno di teologia. Il giorno del suo ingresso a Cagliari fu invitato dal padre rettore a visitare Cuglieri, e venne poi volentieri a conoscerci. Fui presente, a Cagliari, il giorno del suo arrivo. Ascoltai la sua parola con attenzione e ammirazione, era un discorso vivo e vivace. Certo la sua voce e la sua immagine contrastavano nettamente con la voce pacata e ormai stanca e la figura dell’anziano monsignor Piovella, sempre più malato e decadente. Appena entrato nelle sue funzioni, monsignor Botto, che era stato a lungo rettore di seminario lui stesso, a Chiavari, e dunque se ne intendeva, mostrò subito la sua esigenza disciplinare e di serietà nell’ambito degli studi e della formazione del clero. Giustamente, credo.
«L’ordinazione gliela chiesi io la prima volta che venne a Cuglieri. Allora non avevo ancora 21 anni. Lui mi disse: “pazienta, devi aspettare”.
«Intanto va detto che nel luglio 1950 conclusi il quarto anno di teologia con l’esame di licenza, presentando un lavoro su “L’infallibilità del Papa in Luca 22, 31-32”. Pochi mesi dopo – forse erano i primi giorni di settembre –, quando cioè andammo a Roma per l’anno santo, l’arcivescovo mi chiamò da parte e mi disse che l’anno seguente mi avrebbe ordinato sacerdote. Io ero interessato a continuare a Cuglieri per la laurea, ne avevo anche parlato con il professore, precisamene con padre Bozzola. L’arcivescovo però mi disse: “no, desidero che tu venga a Roma a studiare diritto canonico”. E naturalmente gli risposi di sì. Mi aveva anche già cercato il collegio, era il Nepomuceno, in via Concordia 1, dalla parte di San Giovanni in Laterano, quartiere Appio. E appunto cominciai a studiare, già alla fine di quel 1950, a Roma.
«Per l’ordinazione dovetti aspettare circa un anno e mezzo. Mi riferisco adesso soltanto all’ordinazione sacerdotale, perché alla fine del quarto anno di teologia presi il suddiaconato, poi l’anno seguente a giugno presi il diaconato e il 16 dicembre, sempre del 1951, il presibiterato».
Un vero e proprio affollamento di ordini minori, prima di quest’ultimo, concentrati in poco tempo. Come li ricorda?
«La tonsura mi fu proposta dal padre rettore che era ancora padre Bozzola il quale, siccome era annunciata una visita di monsignor Piovella alla fine del 1946, mi disse: “penso che l’arcivescovo sarà contento di darti la tonsura”, e naturalmente fui d’accordissimo, anzi felicissimo. Sennonché monsignor Piovella si sentì poco bene e non venne, quindi la tonsura fu trasferita al 1° gennaio 1947 nella cappella del seminario di Cuglieri, e mi fu conferita da monsignor Nicolò Frazioli vescovo di Bosa, che era lì vicino. Venne infatti, quel giorno, monsignor Frazioli, e oltre alle tonsure conferì anche vari ordini minori fino al suddiaconato, e anche qualche diaconato. Così iniziai il cammino ecclesiale. Ero in prima teologia. Invece i quattro ordini minori, prima ostiariato e lettorato, poi esorcistato e accolitato, mi furono conferiti tutti e quattro nella cappella dell’episcopio di Cagliari da monsignor Piovella, due per volta: il 28 giugno del 1947 ed il 28 giugno del 1948 rispettivamente, allorché iniziavo la seconda e la terza teologia. Dovrei aggiungere che il 28 giugno significava la vigilia della festa di San Pietro.
«Per ricevere il suddiaconato, che richiedeva un impegno stabile legato al celibato, bisognava avere almeno 21 anni. Quindi dovetti aspettare qualche tempo ancora. Lo ricevetti, ultimo degli ordini minori, alla fine del quarto anno di teologia, appunto al compimento dell’età minima. Fu il 16 luglio 1950, pochi giorni dopo la licenza in teologia. Lo ebbi dallo stesso monsignor Botto, nella cattedrale di Cagliari.
«Per il diaconato dovetti attendere un altro anno, sempre per ragioni di età. Fu ancora monsignor Botto ad ordinarmi diacono, in cattedrale, il 29 giugno 1951. Allora studiavo già da un anno a Roma».
Vediamo questa nuova fase della sua vita. Siamo ancora nella fase formativa, prima dell’ordinazione presbiterale.
«Trascorsa l’estate 1950, anche con quel viaggio per l’anno santo, partii per il Laterano in autunno. Il corso universitario al Laterano mi era stato proposto, con una certa forza, da monsignor Botto, che lo desiderava ritenendo che la diocesi avesse bisogno di sacerdoti competenti in materia giuridica sia per gli uffici di curia che per il Tribunale ecclesiastico regionale che tratta delle cause matrimoniali.
«Io non avevo alcuna ragione per oppormi alla richiesta dell’arcivescovo e quindi partii. Certo, come ho detto, avevo avuto, personalmente, altri progetti, sul fronte della teologica piuttosto che del diritto. Pensavo alla laurea in teologia, tant’è che mi ero già mezzo inteso con padre Bozzola sul tema “La dottrina trinitaria di Ricardo da San Vittore”. L’adesione alla richiesta di monsignor Botto chiuse il discorso con Cuglieri.
«Tutto ho fatto con un intento di servizio alla Chiesa e obbedienza al mio vescovo. Anche se qui non c’era da obbedire a un comando, ma ad un desiderio, per quanto pressante.
«Il corso al Laterano era triennale. Andai ad abitare come convittore – ospite cioè – presso il collegio Nepomuceno che accoglieva i cecoslovacchi. Soltanto che nessuno lo chiamava così, perché… i cechi non volevano sentirsi cecoslovacchi ma soltanto cechi, e gli slovacchi lo stesso dal loro punto di vista! Quelli erano gli anni già bui del regime comunista. Si chiamava “collegio Nepomuceno” e basta, San Giovanni Nepomuceno era il protettore. Era stato un sacerdote boemo del XIV secolo, ucciso dalla ragion di Stato. Gli alunni che arrivavano da Praga e dintorni erano pochi, però, ed allora si pensò di aprire l’istituto, come convitto, ai sacerdoti ancora in studio e agli studenti che avessero già finito il quadriennio di teologia.
E fu anche un’occasione per stringere molte relazioni e nuove amicizie. Ne ricorda qualcuna?
«Ricordo benissimo l’economo di quel collegio, al quale portavo le 30 lire mensili della retta, che non era poca cosa, ma era comunque una cifra abbordabile. Quell’economo era don Jozep Tomko, sacerdote slovacco, che sarebbe diventato vescovo e, promosso da papa Wojtyla, anche cardinale e prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli. Per svariato tempo, negli anni fra’70 ed ’80, fu anche segretario generale del Sinodo dei vescovi. Con lui mi sono visto molte volte, quando finii il mio corso e tornai in Sardegna. Lui venne alla mia ordinazione episcopale nel 1975, ed io andai alla sua nel 1979, una delle prime decise da Giovanni Paolo II.
«Mah, i nomi sarebbero numerosi… Ecco, fra quelli che alloggiavano al Nepomuceno c’era anche don Salvatore Isgrò, siciliano di nascita ma cresciuto in Sardegna e per lunghi anni rettore del seminario di Oristano, poi vescovo di Altamura e Gravina in Puglia e, dal 1982, arcivescovo di Sassari come successore di monsignor Paolo Carta. Diversi di quei miei colleghi di studio o di alloggiamento sarebbero diventati vescovi nelle diocesi o nelle nunziature; molti si fermarono nella curia romana. Altri, non pochi neppure loro, erano sacerdoti stranieri con i quali ho mantenuto i rapporti per lungo tempo.
«Aggiungerei che mi maturarono molto, né poteva essere diversamente, le dimensioni vaste dell’ambiente che presi a frequentare. Esse mi consentirono molte esperienze extra, favorite anche dal fatto che il corso triennale era strutturato in maniera tale da non prevedere interrogazioni, consentendo di collocare gli esami in questa o quella sessione, fra giugno e ottobre, con una certa elasticità, secondo il criterio dello studente stesso. Cosa che a Cuglieri evidentemente non era possibile, essendo là tutto più regolamentato. E quindi c’era lo spazio anche per fare altro, anche esperienze di parrocchia, visite qua e là, partecipazioni a qualche solenne liturgia papale come fu per la proclamazione del dogma dell’Assunta il 1° novembre 1950. Questa fu preceduta da svariati incontri di approfondimento, che mi permisero di vedere l’argomento teologico da vari punti di vista. Non c’era che l’imbarazzo della scelta, allora, fra le conferenze di cultura che Roma offriva al Laterano, o all’Antoniano, o alla Gregoriana, ecc.
«Dal punto di vista dello studio al Laterano, l’esperienza costituiva per me, indubbiamente, una grande novità, non soltanto per le materie della specializzazione. Non era cosa facile. Le lezioni delle materie canoniche, per esempio sul codice, erano tenute in latino; in italiano si svolgevano quelle non canoniche, come storia del diritto canonico, diritto romano, ecc. Partecipavano anche molti studenti stranieri che così avevano modo di allenarsi alla nostra lingua. Le lezioni erano interessantissime. In generale, al Laterano gli studenti iscritti erano diverse centinaia, divisi nei due settori della teologia e del diritto canonico. Moltissimi gli stranieri, mandati dai loro vescovi a specializzarsi per esser poi meglio impiegati nelle rispettive diocesi. In più erano iscritti numerosi non frequentanti, che venivano soltanto per gli esami».
Quali erano – anche se la cosa è intuibile – gli insegnamenti fondamentali?
«Le principali discipline del corso erano senz’altro diritto canonico e diritto internazionale comparato, cioè il codice civile e il codice penale delle principali nazioni messi a confronto fra loro. Professore di diritto penale comparato era Camillo Corsanego, di diritto romano Gabrio Lombardi. Alcuni docenti divennero cardinali, come il libanese Coussa, che insegnava codice sulle persone, o Violardo e Staffa, titolari rispettivamente di diritto matrimoniale e processi matrimoniali, e ancora Pavan, docente di sociologia, e Roberti, specializzato sul clero.
«Alla fine del primo anno del corso al Laterano, nel 1951, ottenni il titolo di baccelliere. Alla fine del secondo, l’anno successivo, ebbi la licenza in diritto canonico. La discussione della tesi, alla fine del terzo anno, riguardò il tema delle relazioni giuridico-pastorali di papa Gregorio IX con la Sardegna. Questo lavoro non l’ho mai pubblicato perché ero già entrato nel tran tran del lavoro in diocesi».
Ma intanto lei era stato finalmente ordinato sacerdote. Baccelliere e prete, alla fine del 1951. Con un futuro abbastanza pronosticabile, mi sembra…
«Secondo le previsioni, e quel che l’età concedeva, come ho detto prima, poco dopo l’inizio del secondo anno accademico 1951-52 fui ordinato sacerdote. E neppure un mese dopo rimasi vittima di un drammatico incidente stradale, che mi mise fuori combattimento per lunghi mesi obbligandomi a rallentare per vari mesi la ripresa degli studi.
«Riuscii a rientrare a Roma, nella frequenza delle lezioni, dopo la Pasqua 1952. Il rettore di allora, monsignor Pio Paschini, mi concesse la validità dell’anno nonostante le numerose e prolungate assenze. Cercai di recuperare studiando sodo e fui in grado di dare gli esami del secondo anno tutti quanti ad ottobre. Allora, al Laterano, non c’era la sessione di febbraio, quella di giugno finiva con la solennità di San Pietro e poi c’era la seconda sessione in autunno.
«Frequentai il terzo anno, dunque, fra il 1952 ed il 1953. L’anno conclusivo del triennio era il meno impegnativo dal punto di vista del numero delle lezioni… Debbo dire che in quegli anni, insieme alle lezoni di diritto al Laterano potei frequentare, nella curia, due corsi collegati al diritto canonico: alla Congregazione del Concilio (poi divenuta del Clero) prassi amministrativa canonica, e presso la Rota, per due anni dopo il baccellierato, le lezioni mensili di tre giorni sulla prassi processuale rotale. Ricordo la presenza, fra i docenti, oltreché di monsignor Jullien e monsignor Staffa, anche del sedilese monsignor Giovanni Maria Pinna, allora uditore rotale, che mi seguì benevolmente; purtroppo morì prematuramente. Quest’ultimo corso effettivamente mi sarebbe stato utilissimo ad introdurmi nel lavoro del Tribunale matrimoniale.
«Quando tornavo in Sardegna, fra le varie sessioni di studio al Laterano, riprendevo la cura pastorale della parrocchia che mi era stata assegnata da monsignor Botto dopo l’ordinazione: quella di Villa San Pietro intitolata ovviamente a San Pietro apostolo. Una chiesa bellissima, nella sua sobrietà: in stile romanico-gotico risale addirittura al XIII secolo, una delle più antiche dell’intera diocesi. Rimasi parroco di San Pietro fino alla domenica in albis del 1953, quando arrivò il mio successore, don Portas jr, Salvatore (c’era anche don Portas sr. – Teodosio – , che era lo zio, in quel tempo parroco a San Nicolò Gerrei)».
Un incidente rovinoso, la visita di fra Nicola
Ora possiamo fermarci su quel pericoloso incidente che rischiò di chiudere un discorso iniziato appena 27 giorni prima, nella piazza principale di Sarroch. Cosa avvenne precisamente?
«Il 13 gennaio 1952 era una domenica. Dopo la messa delle 10 celebrata nella mia parrocchia di San Pietro, salii sulla motoretta Guzzi che era stata il dono dei miei genitori per la mia ordinazione, e mi diressi proprio a Sarroch, dove avrei dovuto tenere l’omelia per la solennità della Sacra Famiglia, nella parrocchiale di Santa Vittoria. Le suore dell’asilo, che appartenevano proprio alla congregazione della Sacra Famiglia, avevano preparato la festa. La messa era fissata alle 11, e quindi dovevano essere passate di poco le 10,30 quando all’incrocio della strada sulcitana che non era ancora asfaltata, alla seconda uscita dal paese in direzione di Sarroch, fui investito da una macchina che era diretta in senso opposto, verso sud cioè. Caddi e persi conoscenza. Mi raccolse una macchina di passaggio, che era dei Manca di Villahermosa, di Villa d’Orri, e fui portato all’ospedale San Giovanni di Dio, nella clinica chirurgica diretta dal professor Ligas, che fra l’altro era amico di mio padre. Rimasi a rischio di morte per diversi giorni. Fui successivamente trasportato alla clinica di neurochirurgia diretta dal professor Marco Longo, ma ritennero che non fossi operabile. Non avevo fratture ma un brutto ematoma. Dovevo andare all’altro mondo, in famiglia avevano anche preparato i paramenti con cui vestirmi… E invece, la sera di giovedì 17 ripresi conoscenza, pur rimanendo confuso, con scarsa memoria, non ricordavo i nomi delle persone… Io credo sia stata la grazia del Signore per l’intercessione di fra Nicola da Gesturi… In quei giorni tutti si interessarono della mia salute. Monsignor Botto, che mi aveva ordinato neppure un mese prima, veniva spesso a trovarmi, e anche monsignor Giovanni Cogoni che era il rettore del seminario diocesano, e così numerosi preti soprattutto i giovani, e naturalmente monsignor Marcialis, cappellano dell’ospedale, che mi conosceva bene…».
Pensa d’esser guarito per miracolo?
«Non lo so, non lo posso dire, mi fa bene pensarlo. So che la mia famiglia chiese in quei giorni la preghiera di fra Nicola il quale venne anche a trovarmi in ospedale. Disse: “state tranquilli, ché dovrà fare molto nella vita”. E i frati mi spiegarono poi che, nel suo linguaggio, questo significava che mi sarei ripreso. Egli avvertiva questo senso spirituale…, e quella volta, nell’intimo della sua persona, quel senso spirituale gli consentì di dire ai miei familiari parole di speranza. Perché, quando non c’era niente da fare, parlava chiaro».
Fra Nicola da Gesturi morì nel 1958, sette anni dopo l’episodio che la riguardò. Ne è rimasto devoto?
«Certamente, è un beato proclamato tale dall’autorità del romano pontefice. Però vorrei dire che, oltre alle preghiere di fra Nicola, forse mi dette una mano la Madonna. Per un credente queste cose non sono certo incredibili! Ho poi saputo, infatti, che, durante quel mio stato di incoscienza, proprio la sera di giovedì 17 gennaio e ancora i medici non davano speranze, mia madre mi fece scendere sulle labbra alcune gocce dell’acqua benedetta di Lourdes… Poco dopo ripresi conoscenza! Quell’estate del 1952 partecipai, con mia madre e mio fratello, al pellegrinaggio dell’UNITALSI a Lourdes e debbo dire che da molti anni partecipo con gli altri malati e pellegrini al viaggio annuale a Lourdes. Sta di fatto che la sera del 17 gennaio, quattro giorni dopo l’incidente, ripresi conoscenza. Tornai a casa a fine mese, venendo seguito da mio padre medico. Dopo un mesetto andai a controllo. Il professor Longo era sorpreso: rispondevo bene a tutti gli esami, sia quelli per verificare la mia sensibilità – ricordo i classici colpi di un martelletto al ginocchio – che quegli altri riguardanti di lettura. Il professore mi dette un foglietto da leggere: lessi bene, e spiegai che già da diversi giorni avevo anche ripreso a dire messa. Riuscivo infatti a celebrare abbastanza bene, benché lo stare in piedi mi stancasse tremendamente. Era normale così, non c’era allora la possibilità di adoperare una sedia, se non con una dispensa della Congregazione competente di Roma, che però non avevo chiesto… D’altra parte, ripresi a dire messa senza chiedere autorizzazioni, ripresi quando me la sentii».
Superato l’incidente e tornato gradualmente in forza, ripresa la frequenza alla Lateranense e dati gli esami del secondo anno e quelli del terzo, discussa infine la tesi. A proposito: su quale argomento?
«Al Laterano presentai per la licenza il seguente argomento: “De supputatione temporis in Jure Canonico”, mentre per la laurea, come ho detto, “Le relazioni di Gregorio IX con la Sardegna”».