Di storici, di archeologi e di Sardi, di Mario Cubeddu

1) Eleonora d’Arborea e i Sardi. 2) Gli archeologi e i Sardi.  3) Archeologia e ideologia.  4) La storia siamo noi. Riflessioni al seguito dell’importante convegno di Oristano “ELIANORA DE ARBAREE SA IUICHISSA” del 9-10 dicembre 2016.

Eleonora e i Sardi

Oristano dedica un convegno alla giudicessa Eleonora, la grande regina dell’Arborea a cui si deve la promulgazione di un codice legislativo che governò i comportamenti dei Sardi per più di quattrocento anni. Un codice per la nazione sarda, si diceva allora, valido solo per coloro che Sardi venivano qualificati, diversi dagli abitanti delle città, concepite come entità che avevano contrattato con la corona d’Aragona, e poi di Spagna, doveri e privilegi diversi.  Tra queste città solo Oristano ebbe in sorte di rappresentare i Sardi, oltre che i propri cittadini, come nazione e popolo. Dopo i 150 anni di guerra di liberazione perduta, che aveva portato la “nazione sarda sull’orlo dell’estinzione”, Ferdinando il Cattolico concedeva nel 1479 l’onore delle armi a una città prostrata, privilegiandola con la perpetua infeudazione alla corona e il diritto di insorgere in armi qualora fosse stata infeudata a qualcuno che non fosse la massima autorità del Regno. L’Istituto di Studi Arborensi ha avuto negli anni della sua esistenza, ormai più che ventennale, il merito di mettere a fuoco un capitolo fondamentale della storia sarda medioevale e moderna, illuminando le vicende del Giudicato arborense e del Marchesato di Oristano. Gli atti dei convegni realizzati dall’Istituto rappresentano un tassello importante nella bibliografia medievale sarda. Si spera che anche le due giornate di studi di questi giorni vengano pubblicati presto, in modo che anche chi non ha potuto trovare posto in una sala piccola, piena di studenti non sempre attenti e partecipi, possa accedere alla conoscenza delle relazioni che non è stato in grado di seguire. Chi ha partecipato ai lavori della seconda giornata ha avuto modo di sentire tra le altre la relazione di Paolo Maninchedda, filologo romanzo e studioso della storia e della letteratura medioevale sarda, nonché politico ormai di lungo corso e di sempre maggiore autorevolezza come fondatore di un nuovo partito, il Partito dei Sardi, e componente tra i più importanti della Giunta Pigliaru.  Maninchedda ha anticipato gli argomenti che saranno al centro di un volume di prossima uscita sul tema della rivendicazione di una sovranità autonoma da parte dei sovrani dell’Arborea. Partendo dalle affermazioni fatte da Brancaleone Doria nel 1393 sui 500 anni di esistenza dell’istituto giudicale, che non riconosceva nessuna autorità sopra di sè, in quanto l’antichità dell’istituzione sarda risultava addirittura maggiore rispetto a quella dei sovrani iberici, che dovevano ancora liberarsi dal dominio arabo, questo tema arriva sino all’ultimo Marchese di Oristano Leonardo Alagon, che ancora rivendica il nome e il titolo della dinastia degli Arborea. Con Mariano IV, il padre di Eleonora, e con la guerra da lui intrapresa contro l’Aragona, si era giunti a una liberazione quasi completa della Sardegna e alla rivendicazione del titolo regio, con l’obiettivo di cancellare la scelta sciagurata operata da Bonifacio VIII nel 1297. Nella relazione di Maninchedda non c’è stato molto di nuovo, a parte l’efficacia e chiarezza del racconto e un richiamo un po’ di maniera a un filosofo di moda come Paul Ricoeur. L’elemento forse più interessante è esterno ai contenuti della relazione e si lega all’attività politica dello studioso: la ricostruzione delle vicende storiche sarde è connessa con le problematiche attuali e con la costruzione di una piattaforma di idee e di indirizzi politici di tipo sovranista o indipendentista. Da qualche tempo è all’ordine del giorno il superamento dell’autonomismo sardista e la ricerca di nuove basi ideali per la politica sarda. Questo sta avvenendo nella massima confusione dei linguaggi e si accompagna a comportamenti incerti, oscillanti, spesso opportunistici. Risulta spesso difficile distinguere pratiche trasformistiche per l’accesso al potere dalla necessità di confronto con la realtà complessa del tempo in cui viviamo. La storia può aiutare a ricostruire almeno un quadro di riferimento condiviso. In questo Oristano e il Giudicato di Arborea hanno certamente un ruolo centrale.

 

 

Gli archeologi e i sardi

Nello stesso giorno (le settimane che precedono la fine dell’anno vedono un succedersi frenetico di iniziative culturali anche fuori dalle città) ci è capitato di assistere a una conferenza sulle ultime scoperte archeologiche nell’area adiacente al Golfo di Oristano, in siti popolati nell’età finale del bronzo recente  e nella prima età del ferro. L’incontro era organizzato dall’Associazione culturale Tocoele che da qualche anno costituisce un punto di riferimento per la ricerca archeologica per i paesi del Campidano Milis, rappresentando inoltre una forma nuova di incontro e collaborazione tra comunità contigue. Una giovane e valente archeologa, Alice Meloni, ha illustrato a Seneghe il frutto di ricerche condotte negli ultimi anni nell’area dell’antica Othoca. La relazione ha confermato il ruolo centrale che nella storia sarda ha ricoperto il territorio che dal golfo di Oristano si estende a nord sino alla Planargia, ad est sino a comprendere tutta la Barbagia, a sud sino a Marmilla e Trexenta.  Questa è sin dall’età nuragica la regione più popolosa, ricca e attiva della Sardegna e prima Tharros e poi Oristano ne furono il centro. Qui trova il suo cuore la civiltà dei sardi. La relazione ha presentato dati nuovi e interessanti e ha stimolato riflessioni e domande: che rapporto ha la civiltà nuragica con quella dei popoli che approdano alle coste dell’isola, quali legami si creano tra i nuovi arrivati e gli indigeni, cosa portano e cosa prendono in termini materiali e spirituali?  La relazione ha avuto come filo conduttore il tema dell’incontro positivo, dell’accoglienza, di una “fusione perfetta”, si potrebbe dire, tra popolazioni venute a commerciare pacificamente e popolazioni locali, curiose di assorbire gli stimoli culturali e artistici provenienti dall’esterno.   Gli archeologi sembrano non trovare tracce di una “conquista” violenta e guardano ora con sospetto termini come “colonia” e colonizzazione. Un quadro irenico di questo genere suscita qualche dubbio e il sospetto che si tenti una nuova e diversa sovrapposizione di ideologie contemporanee a quelle in voga sino a poco tempo fa. Al modello “resistenziale” di un Lilliu, che dedicava la sua opera monumentale ai pastori sardi, simbolo della resistenza del nostro popolo all’assimilazione, i nuovi archeologi oppongono un modello opposto, che sembra tratto dalla contemporaneità italiana: i sardi hanno accettato ormai di farsi assimilare, abbandonando lingua e tradizioni proprie, per riconoscersi, al termine di un processo ormai compiuto, nella lingua e nella cultura italiana. Gli archeologi sembrano dirci che è quello che i sardi hanno sempre fatto. Si sbaglia quindi chi parla di conquista, si sbagliava  Atzeni nella ricostruzione fantastica dei primi momenti della storia dei sardi raccontati in “Passavamo sulla terra leggeri”. Arrivo ben accetto, dunque, penetrazione tranquilla all’interno della Sardegna. A questa ricostruzione viene da obiettare che le fonti storiche individuano sempre due popolazioni nettamente distinte. I Sardi sono una realtà ben individuata sin dall’antichità. Nel momento in cui arriva un nuovo “conquistatore”, i Romani, i “popoli sardi” hanno un loro nome e una posizione geografica. Purtroppo non sono oggetto di una specifica attenzione, come non lo è in realtà il loro rapporto con la civiltà nuragica.

 

Archeologia e ideologia

Gli archeologi si lamentano dei Sardi: sentono il peso di accuse che ritengono ingiuste, vorrebbero che il loro entusiasmo e la loro fatica venissero apprezzati nel modo giusto, accusano la facilità con cui si lasciano ingannare da vane lusinghe di inventori di teorie senza alcun fondamento scientifico. L’eco suscitata dal favore accordato dal pubblico al libro di Sergio Frau non si è ancora spenta, così come il risentimento, non si sa se rivolto maggiormente alle tesi discutibili da lui proposte, o alle critiche indirizzate agli studiosi dell’isola, accusati di pigrizia burocratica dal giornalista di Repubblica. I Sardi si lamentano a loro volta degli archeologi; hanno l’impressione che non gliela contino giusta, che “nascondano” o minimizzino le informazioni, che siano portati a svalutare ogni elemento che potrebbe mettere in miglior luce le vicende passate dei loro antenati, che si interessino solo della storia dei colonizzatori. Chi legge sulle didascalie che illustrano i guerrieri di Monti Prama le conclusioni a cui gli archeologi sembrano essere arrivati con grande sicurezza, di un’origine straniera di chi li ha scolpiti, ne rimane meravigliato e ferito: come fate a esserne tanto sicuri, a darlo per scontato? Il mestiere dell’archeologo non è facile. Da un lato pretende lo statuto dell’affidabilità del metodo scientifico che si manifesta nella sistematicità della ricostruzione stratigrafica e nella valutazione degli elementi materiali offerti dallo scavo. Dall’altro, inevitabilmente, l’archeologo si trova a disporre solo di una serie di indizi, in base ai quali formula delle ipotesi di spiegazione delle condizioni di vita di popolazioni umane in determinate epoche. Costruendo con questi frammenti, pietra, ceramica o metallo, quella che oggi si chiama, con termine di moda, una “narrazione” delle vicende degli uomini del passato. E questa narrazione è spesso funzionale allo “spirito del tempo”, più che a pretese oggettività scientifiche. La scienza archeologica nasce d’altronde in coincidenza con il sorgere degli Stati nazionali e delle loro strutture burocratiche. Questi Stati hanno bisogno di un’ideologia che giustifichi il dominio di una regione o di un ceto sociale determinati su un insieme eterogeneo di realtà che hanno avuto vicende diversificate e spesso  contrapposte. Il grande archeologo Antonio Taramelli, tra i fondatori della nostra archeologia, che fu anche un fervente fascista, pretendeva di sentirenelle pietre dei nuraghi l’eco della Roma imperiale.

La storia siamo noi

“ La storia siamo noi”, canta Francesco De Gregori. Possiamo adattare questa bella espressione alla nostra vicenda: a noi sardi interessa anzitutto conoscere e capire la vicenda di un popolo che è andato  a popolare un’isola posta al centro del Mediterraneo occidentale e che lì vive da molte migliaia di anni. Conoscere se stessi per capire meglio gli altri. La popolazione sarda ha mantenuto caratteristiche ancora oggi individuabili attraverso gli studi sul DNA. Ha conosciuto vicende di ogni tipo, positive e negative (comprese ricorrenti tentativi di riduzione in schiavitù, più o meno riusciti). Ha acquisito col tempo e conservato un’identità storica peculiare, come è avvenuto per tanti altri popoli del mondo. Questa vicenda i sardi la sentono ignorata, o non raccontata come dovrebbe essere. E i dubbi riguardano soprattutto due fasi fondamentali, due epoche di passaggio nella storia del nostro popolo. Che rimangono sostanzialmente oscure, tanto che su di esse si sono potute imbastire le grandi, magiche, operazioni di falsificazione della nostra vicenda storica. La prima è costituita dalla crisi della civiltà nuragica. Che ne è stato della gente che ha costruito le cento torri presenti nei 5000 ettari che costituiscono il territorio del comune dove sono nato e dove ancora abito? Sono stati cancellati da invasioni, fusioni, epidemie, tsunami, si sono estinti, si sono dispersi per il mondo? No, è molto più probabile che abbiano continuato a popolare quel territorio, a vivere delle sue risorse.  Noi siamo i loro discendenti. Ne abbiamo visto di ogni genere, siamo usciti dalla nostra isola per commerciare, lavorare, conoscere il mondo; abbiamo visto arrivare uomini provenienti da altre parti, qualcuno pacifico, qualcuno in armi, intenzionato a impadronirsi del territorio e delle sue risorse. Convinto che la conquista gli desse il diritto di fare da padrone, come sostenevano, senza farsi tanti scrupoli, i re d’Aragona. L’altro momento cruciale, avvolto nel mistero, è quello dell’alto Medioevo sardo che, prima di quella atlantidea, ha conosciuto la leggenda delle Carte d’Arborea. Cos’è successo con la fine dell’Impero romano e la crisi del dominio bizantino? Quale è stata la reazione dei popoli, delle tribù dei Sardi, che erano stati “vinti, ma non convinti”, dai Romani? Ne avevano assimilato la lingua, ma avevano conservato  un rapporto peculiare col territorio, forse forme rituali di cui rimangono tracce nei canti e nel ballo. Avevano i loro cognomi, tratti da elementi della natura e da tutti gli animali con cui avevano consuetudine, oltre ai nomi imposti col battesimo portato da una nuova religione. La ricomparsa dei sardi come tali coincide con l’origine dei Giudicati. Ne sono indizio preciso i nomi di molti Giudici, gli Orzocco e simili. Nasce in quest’epoca la “nazione sarda” come la conosciamo, in cui siamo cresciuti e in mezzo alla quale ancora, almeno in parte, viviamo. Nasce con le caratteristiche di tutte le altre nazioni europee: una lingua, costumi, tradizioni, mentalità, ben riconoscibili. Che ancora esistono, anche se nelle scuole se ne parla poco. Può un popolo crescere, prosperare, imparare, conoscere, se ignora la propria identità, la propria anima?

 

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    1 Comment to “Di storici, di archeologi e di Sardi, di Mario Cubeddu”

    1. By Francesco Cubeddu, 15 dicembre 2016 @ 08:37

      La cosa più sconcertante della conferenza tenuta a Seneghe dalla DOTTORESSA (lo scrivo in maiuscolo perché lei lo ha ripetutamente ribadito in maiuscolo) Meloni è il suo riproporre la teoria che i nuragici non navigassero. Non so se questo sia un’ipotesi personale o faccia parte delle della mai sorpassata politica delle soprintendenze che tendono, da sempre, a sminuire il ruolo della civiltà nuragica per esaltare quello di tutti gli altri (primi i fenici) che sono arrivati in Sardegna. Il fatto strano è che se si leggono le pubblicazioni delle università spagnole e portoghesi che parlano dei siti iberici che ha citato la DOTTORESSA ma che forse non has letto, si scopre che il sito di El Carambolo, in Spagna lungo la riva del Guadalquivir, vine chiamato “la capanna dei mercanti sardi” che commerciavano oggetti in bronzo. Il fondaco nuragico di Komòs, a Creta, viene chiamato appunto nuragico dagli archeologi che lo hanno scavato studiando la stratigrafia; nuragico significa precedente ai cosiddetti Fenici i quali, secondo le nuove interpretazioni (stratigrafiche?) della DOTTORESSA gestivano la compagnia di navigazione che veniva utilizzata dagli abitanti dell’isola di Sardegna. A questo punto mi chiedo, non solo io che non ho la LAUREA ma tanti archeologi seri che pensano con la loro testa, come sia possibile che i nuragici non navigassero trovandosi in un’isola al centro del Mediterraneo che sin da tempi antichissimi (vedi il libro di Michel Gras: Trafics tyrrhéniens archaïques) era al centro dei traffici commerciali. Com’è che per creare le loro basi commerciali (secondo un archeologo specializzato in archeometallurgia gestivano il commercio del bronzo nel mediterraneo occidentale) non avevano pensato a costruirsi le navi che usavano solo per giocare a battaglia navale (le navicelle in bronzo). Buffo che conoscessero così bene le navi tanto da realizzarne dei modellini perfetti in bronzo, che fossero all’avanguardia nell’agricoltura visto che già bevevano malvasia e vernaccia nel 1300 a.c. o che abbiano conosciuto i meloni 500 anni prima del resto del mediterraneo occidentale, per non parlare delle prime statue a tutto tondo di questa parte di mare e non fossero capaci di navigare! Ma forse gli antichi nuragici erano un popolo che si godeva la vita bevendo vino e mangiando frutti esotici che le compagnie di navigazione di allora portavano nell’isola ed erano talmente pigri da importare pure scalpellini per farsi scolpire tante belle statue copiate dai loro bronzetti che esportavano in etruria, ma siamo sicuri che pure i bronzetti non siano stati realizzati da qualche antenato dei fenici tanto cari a questi archeologi oscurantisti?