Sempre a proposito di sconfitta al referendum …

Due analisi proposte da: Le cinque ragioni di una sconfitta, di Ernesto Galli della Loggia (Il corriere della sera, 5 dicembre 2016) e Il populismo del potere, di Ezio Mauro (La Repubblica, 6 dicembre 2016).

 

Il populismo del potere

Tutti gli elementi della grande semplificazione si erano riuniti in questo scontro referendario, e molti li aveva materializzati proprio il presidente del Consiglio, incautamente

di EZIO MAURO

 

06 dicembre 2016

LA SEMPLIFICAZIONE assoluta della politica è stata inventata da Renzi come il post-linguaggio, dopo la fine delle ideologie, delle appartenenze, delle distinzioni di campo tra destra e sinistra. Arrivata alla sua forma estrema nella logica propria del referendum — la riduzione del discorso politico alla scelta basica tra un Sì e un No, senza sfumature — quella semplificazione si è imbizzarrita, disarcionando il suo cavaliere e gettandolo a terra sconfitto, senza rimedio.

Tutti gli elementi della grande semplificazione si erano riuniti in questo scontro referendario, e molti li aveva materializzati proprio il presidente del Consiglio, incautamente. Una riforma della Costituzione è cosa complessa, che va spiegata con pazienza nella sua logica e nella tecnica. Qui ha preso l’aspetto di un mezzo colpo d’accetta contro la “casta”, con riduzione dei senatori, dei loro stipendi, della loro potestà legislativa, senza la costruzione di un paesaggio culturale, storico e istituzionale che trasmettesse la sensazione di una modernizzazione governata del sistema, di una riforma rispettosa della cornice costituzionale, nella quale inserire un principio di innovazione coerente.

Renzi ha scommesso sulla voglia di cambiamento degli italiani, estenuati dall’inefficienza della macchina politica, dall’inefficacia di quella amministrativa e dall’improduttività di quella istituzionale. Ha scelto due bersagli grossi e facili, l’alto numero dei parlamentari e la rigidità del bicameralismo troppo perfetto. Ha pensato di proporsi come l’unico attore del rinnovamento, denunciando come conservatori o parrucconi tutti coloro che avanzavano riserve e obiezioni, o difendevano la Costituzione. Chiuso in questo recinto artificiale perfetto, ha poi esposto la collezione degli avversari rivendicandola, orgoglioso del loro numero e incurante della somma finale, nella convinzione di avere il popolo con sé.

Attacco alla casta, antiparlamentarismo, mozione degli istinti antipolitici: sono tutti elementi di un inedito populismo del potere che Renzi ha provato a impersonare nel tentativo — o nella tentazione — di disegnarsi un doppio profilo di lotta e di governo, usando le armi dell’antipolitica per combatterla. Come se il premier dicesse al sistema che doveva torcersi per salvarsi, e l’atto stesso del cambiamento diventava più importante della sua qualità. Come se fosse semplice parlare contemporaneamente la lingua del governo e quella dell’opposizione. Come se fosse possibile una dose omeopatica di antipolitica nel governo di una democrazia occidentale moderna.

Tutto questo ha prodotto una semplificazione simmetrica nelle opposizioni, ma ben più radicale ed estrema, perché libera nei linguaggi, nelle responsabilità, nelle contraddizioni. In questa raffigurazione del No, la riforma è diventata addirittura una prova di colpo di Stato, di gesto tirannico, di autoritarismo, mentre era evidente semmai la mancanza di autorità del governo, non altro. La mostrificazione di Renzi lo ha trasformato in una sorta di nemico del popolo e della democrazia, figlio naturale di Berlusconi, mentre è chiaro che il premier ha tutti gli altri difetti del mondo, ma nessuna delle quattro anomalie che distinguevano il Cavaliere dai leader moderati d’Occidente: il conflitto d’interessi, la legislazione ad personam, lo strapotere economico che gli ha consentito di comperare parlamentari a grappoli, lo strapotere proprietario del mercato televisivo del consenso.

A questo punto è scattata l’ordalia mortale, e il referendum si è trasformato in un plebiscito a favore o contro Renzi. E qui c’è il peccato capitale del presidente del Consiglio: non aver creduto nella politica, ma solo nel rapporto di forza. Non aver capito che l’ordalia compiva il miracolo di coalizzare l’incoalizzabile. Non aver compreso che solo dando un’anima politica al corpo scomposto della riforma si sarebbero selezionati i consensi e i dissensi su un asse riconoscibile e trasparente, evitando una sommatoria indistinta. Un discorso autenticamente riformista, progressista, sulla necessità di riformare la Carta rispettandone forma e sostanza probabilmente avrebbe perso per strada Verdini ma avrebbe guadagnato coerenza, selezionando anche nel campo del No.

Qui c’è forse il limite maggiore di Renzi. Pensare che la politica sia di volta in volta forza, istinto, tecnica e coraggio — ciò che certamente è —, ma non cultura. Il referendum è il risultato finale di questa visione. Quasi che Renzi avesse rinunciato al tentativo più ambizioso e necessario, l’egemonia culturale. Ma senza una base culturale la politica non vive di vita propria, bensì di rappresentazione. Mima la realtà e non l’impersona. Trasforma se stessa in performance, che si consuma mentre si compie, senza lasciare traccia dopo lo spettacolo, quando si accendono le luci. Coinvolge il cittadino, ma nel ruolo di spettatore seduto in platea, e non di soggetto che pretende rappresentanza. Consente e autorizza un immiserimento della contro-politica, che abbassa il livello del discorso fino agli stilemi della “schiforma”, sostenuta dai “poteri marci”.

Questa debolezza culturale e politica si lega con la rinuncia di Renzi a impersonare e usare il Pd, accontentandosi di comandarlo. Bisognava spendere tempo e impegno — la “grande fatica della democrazia” — per far diventare la riforma una conquista ragionevole di tutto il Pd, capace a quel punto di sostenerla a testa alta nel Parlamento e nel Paese, come aveva fatto con la candidatura di Mattarella al Quirinale. La riforma avrebbe trovato così una base materiale, un’anima culturale e un’identità politica, diventando espressione matura e condivisa di una sinistra di governo, non di un singolo contro tutti. Naturalmente questo avrebbe dato un “colore” alla riforma, il colore del riformismo. Ma avrebbe anche dato un destino di leadership compiuta a Renzi e di responsabilità coerente alla sinistra interna, che oggi compie invece il gesto contronatura di chi applaude la caduta del proprio governo: ancora una volta, e senza sapere se e quando ce ne sarà mai un altro.

Alla fine, dunque, Renzi cade su un problema di identità, inseguendo il tutto e rinunciando a impersonare la parte che gli si è affidata. È una mentalità eternamente minoritaria (titanica e minoritaria insieme), che abbiamo già visto in altri leader incapaci di rivestirsi della maestà di una storia comune, accontentandosi di controllarla. Pesa in questo la dannazione fratricida della sinistra, la sua vocazione cannibale con la delegittimazione permanente del leader da parte della minoranza interna. Ma pesa anche la convinzione che i partiti siano strumenti del Novecento, senza tradizioni e radici, quindi impersonabili a piacere dal leader del momento, come vestiti che si cambiano quando cambia la stagione. In questo disancoramento dalla storia e dalla cultura la politica vive di fiammate estemporanee, nascono gli innamoramenti per un leader subitanei ma senza radici, cresce all’improvviso il disamore, quando si gonfia l’onda delle promesse mancate, del risentimento sociale, della solitudine dei non rappresentati, della crisi più forte di ogni sovranità democratica.

Al fondo c’è il grande errore della post-politica, la convinzione che destra e sinistra siano categorie superate che non servono più per leggere il mondo e per rappresentarlo. Come se Trump e i populismi di casa nostra non fossero destra reale — anzi, realizzata — nei linguaggi, nei disegni, nei programmi, nella cultura. Nell’età del trumpismo, di Salvini e di Grillo ci sarebbe bisogno di una sinistra di governo moderna, occidentale, europea, finalmente risolta invece di inseguire l’indistinto, che è un campo vasto, ma non ha un’anima. E la politica, come un buon diavolo, fa commercio di anime: senza le quali, come dimostra il referendum, va a fondo.

Le cinque ragioni
di una sconfitta,
di Ernesto Galli della Loggia

La rovinosa disfatta di Matteo Renzi manifesta un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della personalità dell’ormai ex premier, il rigetto della sua proposta in un certo senso «a prescindere», la crescita di un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso

La personalizzazione controproducente, certo; e poi l’eccessiva invadenza mediatica; poi ancora il fatto di avere contro 4/5 dei partiti del Paese e perfino buona parte del suo: tutto vero, sicché sembra essercene abbastanza per spiegare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum di domenica.

Invece non basta, credo. In quel risultato c’è qualcos’altro. Le sue proporzioni rovinose manifestano qualcosa di più: un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della personalità stessa dell’ormai ex presidente del Consiglio, il rigetto della sua proposta in un certo senso «a prescindere», la crescita di un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso

Lo dirò molto alla buona: il risultato del referendum più che mostrare la devozione degli italiani al testo della Costituzione indica che alla maggioranza di essi Matteo Renzi era ormai diventato insopportabilmente antipatico. «Poco convincente», se si preferisce un termine politologicamente più nobile.

Eppure Matteo Renzi non è mai stato il giovane Achille Starace, anche se in tutte queste settimane i suoi avversari di sinistra e di destra — uniti in un lodevole afflato di impegno antifascista — si sono sforzati di dipingerlo in qualcosa di simile a un pericolo per la democrazia e di descrivere la sua riforma come la potenziale anticamera di una dittatura. Invece, particolarmente oggi, nel giorno della sua sconfitta, sarebbe più che ingeneroso spregevole dimenticare le non poche buone leggi che il suo governo ha promosso, l’impulso dinamico che ha cercato d’imprimere in certi settori dell’amministrazione pubblica, la sua continua insistenza sulla necessità di svecchiare, sveltire, semplificare. Ma perché allora il risultato così negativo di domenica, perché l’ondata di antipatia e di avversione che ha travolto Renzi? Per effetto dei suoi errori, naturalmente, che hanno oscurato tutto il resto. Ecco un elenco disordinato di quelli che specie sul piano della comunicazione e dell’immagine, ma non solo, mi sembrano essere stati i più gravi.

1) Il profluvio dell’ottimismo, degli annunci sull’uscita dal tunnel, del «ce la stiamo facendo», «ecco ormai ce l’abbiamo fatta». Ai tanti italiani che viceversa se la passano tuttora male, talvolta malissimo e senza speranza, sentirsi dire che invece e contrariamente alla loro esperienza quotidiana le cose si stavano mettendo bene, deve essere suonata come una beffa e deve aver provocato un effetto di esclusione e di immeritata colpevolizzazione. Specie al Sud — verso il cui declino storico la comprensione politico-intellettuale e la personale empatia di Renzi non sono riusciti a mostrarsi se non eguali pressoché allo zero — l’effetto è stato catastrofico.

2) A una conferenza stampa o a una riunione di responsabili acquisti di una catena di supermercati si può comunicare all’uditorio attraverso le slide: a una massa di cittadini elettori no. Di un discorso complesso la gente comune può capire spesso la metà, ma capisce che se le si rivolge in quel modo significa che la si tiene in considerazione, che la si ritiene importante. Renzi non ha mai parlato al Paese in modo «alto» ed «eloquente»: starei per dire in modo «serio». La sola cifra di serietà del suo discorso è stata solitamente quella del sarcasmo: non proprio l’ideale, come si capisce, per suscitare simpatia. Per il resto la sua irresistibile propensione al tono leggero e alla battuta ne hanno inevitabilmente diminuito la statura politica.

3) La mancanza di posizioni critiche vere, argomentate e conseguenti di qualunque tipo verso le élite del potere che non fossero le élite politico-parlamentari o mediatiche italiane. In un’epoca invece nella quale — almeno a mio giudizio con più di un fondamento — è largamente diffuso un sentimento opposto, questo orientamento di Renzi non gli ha procurato alcuna simpatia. Che a mia memoria al capo del nostro governo non sia mai uscita di bocca un’espressione di censura verso i dirigenti dell’inefficiente e per più versi marcio mondo bancario o verso la Consob, responsabili della rovina di decine di migliaia di cittadini italiani, è apparso quanto mai significativo. Egualmente significativo, per esempio, che per tanto tempo egli non sia mai andato al di là delle battute circa il modo spudorato con cui l’Unione Europea si stava comportando con l’Italia a proposito della questione dei migranti. Cose come queste hanno allontanato Renzi dal modo d’essere e di sentire prevalente nel Paese. La sintonia con il quale non credo che sia stata di molto accresciuta dalla sua frequentazione intensa, a tratti si sarebbe detta compulsiva, con gli ambienti dell’industria e della finanza.

4) La politica dei bonus: dagli 80 euro ai lavoratori dipendenti, ai 500 euro a insegnanti e neo-diciottenni. Personalmente, così come dubito che i primi siano stati cruciali per il successo di Renzi alle Europee del 2014, invece sono sicuro che tanto i primi che i secondi non siano serviti ad aggiungergli il minimo consenso domenica scorsa. Il fatto è che l’attribuzione di tali somme (con quel termine «bonus», degno della pubblicità di un casinò volta ad attrarre clienti alle slot machine) è stata sentita probabilmente non già come il riconoscimento di un compenso atteso e meritato quanto, più che altro, come l’elargizione di una mancia umiliante, concessa per acquistarsi il buon volere e la gratitudine del «beneficato». È facile immaginare la popolarità derivatane al «benefattore».

5) Il tratto marcato di «consorteria toscana» che Matteo Renzi non ha esitato a dare all’intera, vasta cerchia dei suoi collaboratori. È ovvio come ciò lo abbia fatto percepire dal resto del Paese come murato in una posizione «chiusa», non disposta ad accogliere e a colloquiare con apporti diversi. Si aggiunga il carattere non proprio di rango di un gran numero di tali collaboratori, così come dei tanti nominati in una miriade di posti: troppo spesso scelti con ogni evidenza più che per i loro meriti per la loro sicura fedeltà (vedi il caso, esemplare tra i tanti, per il risultato grigissimo verificabile quotidianamente da tutti 24 ore su 24, dei vertici Rai)

 

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