FIDEL CASTRO E IL ‘900 MUOIONO INSIEME, di Ezio Mauro
Il secolo delle guerre ideologiche è finito proprio nell’isola comunista, dove Fidel ha avuto l’ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l’ultimo esperimento socialista. E con l’ossessione di farla sopravvivere intatta
Incredibilmente, nell’aprile dell’anno in cui tutto stava crollando e ogni cosa diventava possibile – il 1989 - Fidel si alzò davanti al mondo per proporre il modello cubano come l’unica esperienza ortodossa del socialismo di fine secolo. I deputati, i capi del partito, il popolo cubano lo avevano visto celebrare gli onori massimi a Mikhail Gorbaciov, portato in trionfo sulla “ciajka” presidenziale nei 25 chilometri dall’aeroporto all’Avana, con Castro in piedi accanto a lui che gli alzava il braccio in segno di vittoria, procedendo in mezzo a un milione di cittadini plaudenti. Ma quando il segretario del Pcus, con la disperazione istintiva di chi avverte i morsi della fine, invitò Cuba a riformare il suo comunismo per poterlo salvare (come avrebbe fatto poco dopo a Berlino davanti ai gerarchi impassibili della Ddr) Fidel si alzò in piedi e consumò il suo personale strappo dall’eresia morente gorbacioviana. “L’Urss non può decidere da sola, l’unico suo privilegio è essere grande. E Cuba non ha mai avuto uno Stalin, dunque non ha bisogno di avere oggi una perestrojka”. Gorbaciov si guardò intorno smarrito, poi controllò l’orologio misurando il fallimento del suo tentativo di inserire L’Avana nel processo di distensione mondiale tra Est e Ovest e si trovò improvvisamente solo e straniero nell’isola del socialismo uguale a se stesso.
Così il comunismo tropicale, difeso e sostenuto per decenni dal Cremlino, si ribellava al suo protettore, rifiutando di cambiare. Fidel si presentava al mondo come l’Ortodosso, trent’anni dopo il “discorso delle colombe” con cui entrò trionfalmente nella capitale con la rivoluzione, mentre due colombe si posavano sulle spalline della sua divisa verde, in segno di benedizione di Nostra Signora della Mercede. L’ultima perfidia fu un fuorionda serale sulla tv cubana, coperto dalla voce monotona dello speaker, con Gorbaciov che in un angolo dell’Assemblea Nacional tirava fuori un pettine dalla tasca interna della giacca e si pettinava prima di entrare in scena, in un gesto post-imperiale e privato che rompeva da solo tutta l’iconografia monumentale dei Segretari Generali comunisti, vissuta sempre in pubblico.
La Cuba castrista doveva tutto all’Urss, seguita e omaggiata dal Comandante nelle sue visite ad limina a Mosca, fino allo scarto finale. Per Fidel era inconcepibile che uno Stato socialista, capace di sconfiggere il fascismo e soprattutto di uguagliare in peso e influenza la superpotenza capitalistica degli Usa avesse accettato di distruggersi. Perché questa è stata la sua diagnosi davanti al tentativo riformista gorbacioviano: invece di correggersi mantenendo la sua natura, l’Unione Sovietica ha commesso il grande errore storico di imboccare la strada di una riforma di sistema, nella convinzione di poter costruire il socialismo – o mantenerlo – attraverso “metodi capitalistici”, come li disprezzava Castro.
Ma regolati i conti con la deriva sovietica, costretto a rimodulare pesantemente l’economia dell’isola senza gli aiuti “fraterni” di Mosca, Fidel ha avuto l’ambizione di difendere e profilare la sua rivoluzione come l’ultimo esperimento socialista del secolo, con l’ossessione di farla fuoriuscire intatta. L’epopea, d’altra parte, non era mai stata mutuata da Mosca insieme con i finanziamenti, ma era ostinatamente indigena e autonoma. Il ricordo nostalgico e ripetuto dei “Tre Comandanti”, Raul, Camilo Cienfuegos e soprattutto il “Che”, l’eroe che fino agli ultimi anni secondo il racconto del líder maximo lo andava a visitare di notte, in sogno, e continuavano a discutere come avevano sempre fatto, quando avevano la mitraglia in mano. Il dissenso liquidato con l’etichetta dei “traditori”. La convinzione negli anni più difficili di poter vivere “del capitale umano”. La venerazione per José Martí ricordando il suo ammonimento: “Essere colti è l’unico modo di essere liberi”. Lo scambio epico di dialogo con Cienfuegos, inciso in plaza de la Revolucion: “Voy bien, Camilo”? “Vas bien, Fidel”.
La “prima generazione” della rivoluzione, tenuta insieme con il pugno di ferro del dittatore, si va esaurendo, ma ormai altre tre sono nate e cresciute nell’isola sotto il segno di Fidel. La quarta, l’ultima, è la più aperta al contagio. Ha visto salire al potere Raúl, appena quattro anni più giovane del fratello, in una deriva dinastica dove il carisma appassisce e cresce il bisogno di auto-tutela di una nomenklatura spaventata. Ha visto soprattutto Fidel passare dalla tuta mimetica con gli scarponi alla tuta sportiva rossa, bianca e blu con il marchio dell’Adidas, soprattutto l’ha visto smagrito e divorato dalla malattia, nei discorsi radiofonici sempre più rari.
Il regime si trova oggi davanti alla sua massima torsione, perché finisce il legame mitologico e storico con le sue origini, l’eroica fonte di legittimazione, la personificazione populista nel leader che finiva sulle copertine di Time, nelle televisioni di tutto il mondo mentre stringeva la mano di Allende, Mandela, Juan Carlos, Garcia Marquez, Saramago, Agnelli, Arafat, Tito, Indira Gandhi, Giovanni Paolo II attraversando con loro la storia da protagonista. “Dobbiamo dimostrare di essere in grado di sopravvivere”, è il comandamento degli ultimi anni di Fidel a Raúl, nella convinzione che sia più facile teorizzare come si costruisce il socialismo che capire come conservarlo e preservarlo in futuro.
Il Comandante in jefe ha regolato la successione in vita, tentativo onnipotente di garantire il futuro alla sua costruzione politica. Ma il castrismo senza Fidel è fragile e il sentimento di fine d’epoca dominava Cuba già a marzo, quando Barack Obama è sbarcato nell’isola come ambasciatore di un mondo nuovo, ottantotto anni dopo la visita dell’ultimo presidente americano, Calvin Coolidge. Il vuoto lasciato da Fidel riempiva già allora la scena, rimpicciolita dai timori di Raúl che non poteva fare a meno di normalizzare i rapporti con gli Usa per dare ossigeno all’economia cubana, ma cercava di cancellare ogni valenza storica ad una visita che simbolicamente segnava un passaggio d’epoca. Così non è andato ad accogliere l’ospite all’aeroporto ma ha mandato il suo ministro degli Esteri, non ha voluto nessun corteo d’onore, ha lasciato il presidente americano da solo nella passeggiata nella Città Vecchia, nella cattedrale, nell’incontro con il vescovo, poi con i “cuentapropistas”, quell’embrione di società civile e di economia gestita in proprio che si sta affacciando nelle maglie strette del regime.
I cubani osservavano la scena nelle vecchie televisioni dai colori incerti, appese sui trespoli coi fili volanti nei bar del centro senza niente da servire ai clienti. Al mattino, 68 “damas de blanco” si erano radunate nella chiesa della Quinta Avenida, la strada delle ambasciate, per chiedere davanti alle telecamere di tutto il mondo a Santa Rita, (“abogada de lo imposible”) di far scarcerare mariti, figli, padri dissidenti politici e prigionieri nelle carceri cubane: ma soprattutto di aiutarli a conquistare il vero traguardo, “una Cuba senza Castro”, finalmente con la libertà politica, di parola, d’impresa. Spente le telecamere, la polizia nel pomeriggio era passata nelle case delle “damas”, per arrestarle in gruppo. Come un apriscatole della storia, la visita di Obama in poche ore aveva certificato l’esistenza del dissenso, la conferma della repressione poliziesca e la speranza di un cambiamento di regime.
Oggi si guarda la vecchia “ceiba”, l’albero sacro dell’Isola, che proprio sulla Plaza de Armas è morto rinsecchito accanto al Templete. Il regime lo ha sostituito in fretta, di notte, ma la gente ricorda la vecchia superstizione caraibica secondo cui sotto l’”arbol del misterio” si svolgeva il rito sacro del passaggio di potere tra un Capo e un altro, perché sotto la ceiba “si muovono e parlano gli dei”. Il dio del comunismo, intanto, contempla da oggi il tabernacolo vuoto del castrismo. Riuscirà a sopravvivere, fuoriuscendo da se stesso nell’ultima metamorfosi che Fidel aveva sempre esorcizzato? Più probabile che il sistema crolli per estenuazione, senza più
l’anima fondatrice del vecchio dittatore. Che muore – singolare destino – insieme con il Novecento che era durato fin qui con le sue guerre ideologiche, ed è venuto a finire proprio nell’isola comunista, in questo tramonto tropicale dell’autunno 2016: altro che secolo breve.
La repubblica, 28 novembre 2016