Antonio Romagnino, s’avvia oggi l’anno del centenario, di Gianfranco Murtas
Siamo al quinto anniversario della scomparsa del nostro caro e indimenticato professor Antonio Romagnino Defensor Karalis 2006 e nostro maestro di militanza civile. Insieme con la ricorrenza dell’episodio di lutto che tutti ci ha coinvolti e ancora viviamo in una dolce perdurante malinconia, apriamo l’anno che ci porterà a celebrare, il 25 novembre 2017, il centenario della sua nascita cagliaritana, in quella via Lamarmora che funzionava da “ruga deretta”, asse direzionale del quartiere di Castello, muovendo dal fornice dell’antica torre dell’Aquila e dalla sua edicola d’onore alla Vergine delle Grazie per arrivare alla piazza Indipendenza delle case Amat e Sanjust, del Conservatorio della Divina Provvidenza e del dirimpettaio Museo archeologico, del palazzo delle Seziate e della torre più alta e più antica di San Pancrazio. La sua casa affiancava quella dei De Candia, poco sopra palazzo Barrago, e quasi fronteggiava quella dei De Magistris, con il prospetto disegnato dal Cima. Era stata registrata, quella lieta venuta, giusto un mese dopo la disfatta di Caporetto. A mitigare le amarezze e le paure e le frustrazioni che avevano preso tutti per l’eco che ne era arrivata in città, attraverso i bollettini militari rimbalzati, ma con tutte le prudenze della censura – quella che si allora chiamava “Anastasia” –, sui giornali. Anche su L’Unione Sarda.
Sarà un centenario che dovremo molto indagare nelle pieghe della storia cittadina – Bacaredda (di nuovo in sella dall’autunno 1911) s’era da poco dimesso ed in municipio era stato sostituito da un commissario prefettizio, mentre in duomo officiava ancora per qualche tempo il duro monsignor Rossi –, e da lì muovere, con approfondimenti biografici mirati, dispiegandoli lungo le molte stagioni vissute dal professore: che aveva cinque anni quando il fascismo andò al potere, e ventisei quando la dittatura finalmente cadde; ventinove quando il referendum si pronunciò per la Repubblica. Ventuno anni quando si laureò in lettere, ventitré quando partì in guerra e ventisei quando fu fatto prigioniero in terra d’Africa dagli inglesi e ceduto poi agli americani. Una fortuna quella prigionia in Missouri che durò due anni, perché furono anni di rigenerazione, di scoperta anzi della democrazia secondo le modalità proprie, partecipative ed associative, degli Stati Uniti.
In quell’età che ancora restava sotto i trenta egli, rientrato in patria e restituito alla vita civica di Cagliari, compì qualche esperienza (anche giornalistica, nel periodico Presente) all’interno del movimento dei reduci, poi nel Partito Liberale Italiano di Cocco Ortu, divenendo nel 1947 redattore (dapprima con Ritarella Carboni Boy, poi in esclusiva) di Rivoluzione Liberale, il periodico che presentava anche da noi il “perenne” crociano; cominciò presto a sviluppare una militanza segnata da molte contraddizioni ma pur capace di un potenziale enorme che ne avrebbe maturato la consapevolezza politica, ancor più e meglio accompagnando le sue prime lezioni al Dettori. Lui affascinato dalla personalità prorompente di Ciccio Cocco Ortu, ma lontano dal suo obbligato tatticismo, indotto a qualche critica non da poco, ora per la propensione o la nostalgia monarchica di gran parte della dirigenza e dell’opinione liberale, ora per l’accoglienza fatta, nella speranza di un decisivo apporto elettorale, ai qualunquisti di Giannini.
Ne avrebbe parlato e scritto, il professore, in più occasioni, anche in lunghi colloqui, destinati alla pubblicazione, con me (che da repubblicano e azionista ero interessato alle macerazioni del liberalismo nazionale).
Da lì, da quelle esperienze intense, e civili e culturali, direi anche politiche, della fine degli anni ’40, avrebbe mosso un crescente protagonismo pubblico di Antonio Romagnino. Il quale – anche questo va sottolineato guardando agli anni ’60 e ’70 – avrebbe, insieme con molto altro, accompagnato e qualificato la sua docenza liceale, ora nello stabilimento di spalle al palazzo di Giustizia, con la presenza animatrice nell’associazione dei professori europeisti.
Le frequentazioni che anche questa militanza avrebbe favorito, mischiandole ai rapporti interscolastici che nel tempo egli sempre curò procurandogliene l’occasione le missioni di inviato commissario agli esami di maturità in mezza (o tutta) Italia ed allargandone il ventaglio degli interessi e delle conoscenze personali, furono dote preziosa quando, alla vigilia del suo pensionamento mise, con spirito definitivo, i primi mattoni della sua “seconda vita”: quella di “magister civium superior”, non applicato all’amministrazione, s’intende, ma allo spirito pubblico, al sentimento ed alla responsabilità cittadina. Il che avvenne attraverso una gamma larga di modalità: con la presidenza regionale di Italia Nostra, con i ruoli apicali, fino alla quindicennale presidenza nell’epoca post-Valle, agli Amici del libro, nella collaborazione continuativa a L’Unione Sarda, ben oltre gli spazi del recensore che si era conquistato nella terza pagina già dalla fine degli anni ’60; e naturalmente nella moltiplicazione delle sue partecipazioni come conferenziere o come presentatore di libri non soltanto dell’editoria isolana, come autore o coautore di volumi ora d’argomento ambientale, ora d’argomento storico o letterario. Sempre con un segno di distinzione che fu nella sua firma: senza mai sovrapporre l’attualità al passato, invece indagato e raccontato nella sua precisa contestualizzazione temporale, ma anche cogliendo del passato i nessi col presente, secondo la legge crociana della storia “sempre contemporanea”. Fino al diploma di Defensor Karalis, di difensore nobile dei beni pubblici naturali e storici della città – lui amante del Poetto pianse a vederlo tanto volgarmente offeso da amministratori (e tecnici) insipienti, lui amante delle radici romane di Cagliari combatté tanto per salvaguardare il colle di Tuvixeddu che fu romano dopo che punico o fenicio-punico, e così l’anfiteatro ferito con chiodi d’acciaio dagli stessi insipienti destri dell’amministrazione (e loro consulenti tecnici), davanti alla inadeguata reazione di chi quel bene, quei beni, avrebbe dovuto tutelare dalle soprintendenze…
Resta di Antonio Romagnino una ricchissima produzione letteraria e memorialistica, di critico letterario ma anche di autore, e di poeta: di poeta nella sua lingua materna e paterna, quella sardo-campidanese cioè. E sostenitore dei valori certi della lingua sarda, non fece però mai di questo, che pur costituisce valore in sé, uno strumento… a collaterale per sfiancare o svuotare l’identità nostra di italiani, di sardi italiani, che riconoscono nella unità politica e territoriale, nella unità dell’ordinamento che rispetta e protegge però le vitali complessità delle origini e delle storie, un bene conquistato. Nulla mai fece che potesse derubricare ad una sacrosanta causa regionalista un altro valore, l’apicale valore in cui si configura la democrazia che fu conquista ardita dei molti che per la causa sacrificarono tutto. Compresi, nella diversità dei momenti storici, Efisio Tola fucilato trentenne a Chambery, e Goffredo Mameli, abbattuto ventiduenne a Roma… e così quanti altri, fino a Lussu, fino a Cesare Pintus il repubblicano GL, fino a Silvio Mastio, giovane anche lui caduto per la causa della libertà popolare, quella libertà che Mazzini e Garibaldi consideravano un bene indivisibile fra le patrie del mondo.
Certamente pur con tutti i condizionamenti del suo tempo, il giovane Antonio Romagnino che stendeva e discuteva poi la sua tesi di laurea (titolo: “Lineamenti storici del giornalismo politico sardo dal 1848 al 1870”), nell’anno accademico 1938-39 – quello che incrociò la barbarie applicativa delle leggi razziali –, ad una idea non retorica ma storica dell’Italia unita e della Sardegna italiana si volse molto studiando. E cogliendo e valorizzando, fra il molto altro, quanto nella battaglia pubblicistica che pur era stata battaglia politica nell’Isola contro i governi moderati di Torino (e magari poi di Firenze) prese corpo nel 1860, allorché parve che il Cavour negoziasse il passaggio della Sardegna alla Francia. Perché allora la stampa che costituiva insieme sede di ricezione ed eco diffusiva della varia opinione sociale – o almeno di quella parte meglio e più sensibile ai segni dei tempi – si schierò tutta, compattamente, per l’intangibilità territoriale: «l’innegabile passione patriottica che alimenta gli scritti dei nostri giornalisti è veramente tipica di quest’età. Negli anni in cui più feroce arse la polemica per la cessione della Sardegna alla Francia, non c’è giornale dell’Isola che non mostri il suo attaccamento alla patria comune, l’Italia. Queste solenni affermazioni di italianità acquistano un valore superiore a quello che comunemente loro si concede se son messe in relazione alle veramente tristi condizioni dell’isola, che aveva le sue buone ragioni per attaccare l’operato del governo. I malumori verso il Piemonte nati non appena la Sardegna viene unita agli stati del continente tacciono dinanzi alla nuova spinosa questione e la corda che tra il 1861 e 1862 batte all’unisono è la più energica affermazione d’unione alla patria italiana. La tragica e mistica rinuncia delle genti sarde di tutti i loro bisogni e interessi in cambio di una Sardegna non francese ma italiana è fatto di una bellezza di cui i popoli puri sono solo capaci».
Celebrare il professore studiandolo
Inizia oggi, dunque, un anno che molti di noi, avendone modo, potranno dedicare ad uno studio mirato alla vicenda di vita, intellettuale e civica, di Antonio Romagnino. Focalizzando l’originalità delle sue impronte si riscopriranno le particolarità degli ambienti in cui la sua esistenza ha preso ed ha dato: il quartiere e la sua scuola dell’obbligo sul bastioncino, il suo liceo e la sua facoltà universitaria, il GUF, i littoriali ed i giornali universitari di Cagliari, le sedi di debutto del docente (fra Iglesias – classi del Minerario – e il capoluogo), l’arruolamento da volontario (fra Civitavecchia, Torino e Siena) ed il corso bolognese allievi ufficiali, la guerra e la prigionia da collaborazionista (educatore e propagandista della democrazia fra i suoi connazionali anch’essi rinchiusi nei campi di lavoro), i luoghi della pratica politica nel postfascismo, il Dettori nell’antico e nel nuovo caseggiato, il giornalismo letterario e l’associazionismo ecologista ed umanistico degli anni ’60, ’70, ’80, ’90… un quarantennio quasi, fino agli approdi direi come in un suggestivo, fascinoso quadrangolo: il superiore magistero civico che neanche Alziator, che pure fu un genio, poté esercitare o per indole o per avarizia delle tribune premoderne offertegli, fino a quando anche lui ci lasciò, quarant’anni fa.
Già da subito dobbiamo far chiarezza: celebrare Antonio Romagnino non dovrà risolversi in un riempimento con estrosi rimbalzi di retorica ripetitiva, in uno sfruttamento superficiale e d’apparenza di quanto il suo nome e la sua fatica di intellettuale ci hanno consegnato negli anni della nostra formazione e poi dei cimenti nostri, quali che essi siano stati, nella vita pubblica; celebrare la memoria del professore dovrà invece risolversi in un ripasso critico del suo lascito, della sua riflessione che è stata infinitamente più larga, per i campi che ha attraversato o presidiato, di quanto l’aneddotica, neppure mai banale in verità, ha di necessità frazionato e ridotto in unità disarticolate.
Non so se sarà mai possibile un regesto dei suoi lavori, che furono per metà scritti – almeno cinquemila gli articoli di giornale – e per metà parlati, valgano per il massimo i già ricordati lunghi anni presidenziali di Italia Nostra o degli Amici del libro (o magari anche dei docenti federalisti europei). Dovrà indagarsi, dovrà comprendersi di cosa si sostanziasse l’energia etica che animava le sue pagine quasi diaristiche, quelle dei “frammenti”, leggere e profondissime sempre, e immancabilmente guidasse, se posso usare questa espressione, l’understanding autore-lettore, la reciproca ricerca fra l’autore ed il suo lettore. Certo per la virtuosa arte affabulatoria del proponente, ma certo anche per la condivisa consapevolezza di dover nobilitare l’attimo, l’unità minima, la frazione, e poter così insieme dar corpo, non soltanto veste, al sistema integrato.
Antonio Romagnino ha risposto alla generosità che la vita gli ha riservato, donando alla mia generazione, e a quella precedente ed a quella successiva, il gusto dei nessi laici fra l’impegno culturale e quello realizzativo. A lui, da democratici nel senso pieno della parola, dobbiamo un tributo di studio nuovo.
Come per avviare questa stagione che ci riporterà a lui, onorando da parte nostra le confidenze che ci riservò un tempo, rilancio qui di seguito il capitolo finale della sua tesi di laurea. Altri capitoli, o ampi stralci di essi, ho offerto scrivendone all’indomani della scomparsa e dopo ancora, per le testate sia di Fondazione Sardinia che di Edere Repubblicane. Forse occorrerà un giorno pensare di pubblicare noi – ovviamente d’intesa con la famiglia – quanto, di suo, ancora non è stato raccolto e magari antologizzato. Adesso qui importava partire.
“La stampa sarda e gli altri problemi dell’Isola. Conclusioni”
La lunga polemica sorta dalle voci incessanti sparsesi nella Sardegna intorno all’eventuale cessione dell’isola alla Francia, è senza dubbio la più importante tra quelle intorno a cui si appassionò la nostra stampa tra il 1860 e il 1862; ma le critiche al governo piemontese, originate da quelle voci, e che furono unanimi da parte della nostra stampa d’ogni colore, hanno una più ben lontana causa, che si può far risalire, senza tema di errare, al tempo immediatamente successivo all’unione della Sardegna agli Stati del Continente. Se insomma la polemica franco-italiana intorno alla Sardegna acuisce ed alimenta il malumore degli isolani, questi erano già da tempo mal disposti verso il governo piemontese. Quel fenomeno caratteristico del nostro Risorgimento, per cui da una buona parte degli italiani lo sforzo per l’unificazione è visto non da un punto di vista ideale, ma come atti successivi dell’espansione piemontese, è assai diffuso in Sardegna, e in maniera più sorprendente e notevole che in altra parte d’Italia, per il fatto che furono i sardi spontaneamente a chiedere nel 1847 l’unione al Piemonte. E i motivi erano veramente forti e tutt’altro che di lieve portata; la trascuratezza in cui era lasciata l’Isola e le misure che per la Sardegna esclusivamente venivamo usate, dovevano logicamente trovare un’eco dolorosa nella stampa. Il giornalismo nostro di quest’epoca è quindi, mancando ogni qualunque comprensione da parte del Governo dei bisogni dell’Isola, decisamente orientato verso le minoranze parlamentari, le sole che potessero far sentire la voce delle necessità sarde.
Non deve far meraviglia quindi che nel 1854 la Gazzetta Popolare, sempre prima nella campagne antigovernative, appoggiasse la candidatura a deputato nel Collegio di Cagliari di Angelo Brofferio, il più accanito avversario di Camillo di Cavour. L’elezione del democratico deputato e l’appoggio concessogli da tutta la nostra stampa democratica era il segno palese della impopolarità non solo del Cavour ma del Governo Piemontese in genere e non vale certo a farci credere che non fosse generale il senso di insofferenza per il suo operato l’atteggiamento di un altro giornale sardo, lo Statuto di Cagliari, che con l’accusa «voi non siete costituzionali» si sforzava di difendere Cavour e il suo programma. Si tratta di un esempio sporadico.
Con la Gazzetta Popolare che negli anni in cui le fu direttore il Brusco Onnis pubblicò articoli violentissimi contro la politica del Governo, vi è tutta una schiera di piccoli giornali, che seppure talvolta riecheggiano voci ed idee di partiti diversi o anche opposti, pure sono d’accordo nella critica acerba di quel sistema di governo. Così la Cornamusa supplemento letterario della Gazzetta Popolare, così il Capricorno, così pure La Favilla. Notevole anzi di questo giornale l’articolo apparso nel numero del 19 Gennaio 1856 in cui tra l’altro vi si diceva: «Noi non siamo con la sinistra, non con la destra, non col centro, noi intendiamo formare nella Camera un partito separato dai partiti esistenti, noi vogliamo formare il Partito Sardo».
Questo primo vago accenno alla creazione di un partito sardo ha la sua importanza che deve essere giustamente rilevata. Il giornale è interprete del desiderio comune che la Sardegna con tutti i suoi problemi di più urgente soluzione abbia il suo riconoscimento da parte delle autorità governative. S’imponeva quindi come necessaria, dato che mancava l’iniziativa del potere, la più coraggiosa attività da parte dei rappresentanti sardi alla Camera. Che questo Partito dovesse perseguire esclusivamente uno scopo benefico per le sorti dell’isola può apparire chiaro anche da un altro articolo apparso nella Gazzetta Popolare del 13-14 aprile del 1860, dal titolo “La Sardegna dopo l’assestamento italiano” in cui, dopo un vasto quadro delle tristi condizioni in cui versava la Sardegna, chiaramente vi si afferma la necessità di una viva e concorde azione parlamentare di tutti i sardi per procurare certi vantaggi necessari e per porre l’isola allo stesso piano delle altre regioni d’Italia. Non un’opera quindi dissidente era quella che la rappresentanza sarda doveva svolgere al Parlamento, ma pur sulla base di interessi regionali e municipali, un’opera che sarebbe valsa a creare una nuova fonte di benessere per il paese tutto.
Quando insomma da tutte le parti si chiedeva che venisse risolta la questione degli ademprivi, che venisse modificata la legge elettorale politica, che fosse definita la questione delle Università e infine che fosse trovata la soluzione per il problema delle ferrovie, non si cercavano né si venivano a creare degli appigli per muovere sempre nuove critiche all’opera del potere centrale, ma si aveva la diffusa coscienza che tali bisogni non erano di carattere contingente e locale, ma avevano un valore che superava l’ambito regionale e portava sul piano nazionale una vera e propria “questione sarda”.
Scrive Giovanni Battista Tuveri
Come abbiamo visto per altri aspetti del giornalismo di questo periodo, così anche per questo scottante problema, non mancò di levarsi la libera voce di G.B. Tuveri, che nel numero del 20 Gennaio 1867 della Rivista Italiana La Cronaca in un articolo dal titolo “Initium sapientiae” e col sotto titolo “Ma chi oserà attaccare i campanelli al gatto?”, così scriveva: «Tutti sono d’accordo nel riconoscere lo stato intollerabile della Sardegna; ma chi oserà indagare la vera causa dei mali e proporre il vero rimedio? Chi oserà attaccare i campanelli al gatto? Io! io che ugualmente disprezzo, e l’odio di cui mi onora il governo e i favori con cui rimunererebbe la mia servilità; io che mi serbai sempre ritto in mezzo ai tanti liberaloni che vedete tutto dì curvarsi, per razzolare nel fango i rilievi gettati dinanzi a loro dalla fazione in essa dominante. La Sardegna è misera, è affamata. Ma perché? La miseria e l’agiatezza dei popoli dipendono dal governo che essi hanno: vedete la sorte delle repubbliche divenute principali Genova, Pisa, l’Olanda, Venezia, Amalfi; vedete la differenza tra la Svizzera e le finitime Val d’Aosta, Savoia, Valtellina, Trentino. La Sardegna vive vita stentata, per lo stesso motivo, per cui milioni d’italiani sono costretti annualmente ad emigrare per le regioni più remote della terra, o sono ridotti a sfamarsi con patate, castagne, polenta, e con frutti che la natura destina alle bestie. La Sardegna è povera perché soggiace ad un governo senza cuore e senza cervello, e che per sovrappiù ha la mania di credersi cuore e cervello della nazione. Un’isola qualunque non può prosperare ove non si governi da sé, e non abbia tutta l’indipendenza che può conciliarsi con le prerogative del potere centrale il più limitato – ma come far, perché quei milioni rimangano nell’isola? Tollererebbe il governo in Sardegna un’agitazione all’O’Connell quale l’Inghilterra tollerava in Irlanda? O vorreste consigliarci la rivoluzione? Io non so, se il governo tolleri, che certe cose si facciano nello stesso modo, con cui gradisce che vengano fatte le fusioni e le annessioni, perché l’affare cambia aspetto. Le rivoluzioni, poi, richiedono, per ben riuscire, tal favore di circostanze, che un posa piano quale io sono, difficilmente si induce a consigliarle. Un’insurrezione non farebbe che dare al governo l’occasione di ripetere le calunnie e le stragi onde fu soprafatta l’insurrezione di Palermo. Dunque, non v’è rimedio? Dio aiuta chi s’aiuta. Il molto che mi resta a dire sull’argomento di quest’articolo, io il dirò, quando che sia, in apposito libro, che mi riservo di pubblicare, dove mi sia lecito di scrivere quel che sento, ed abbia speranza di suscitare una nuova questione: la questione sarda».
Sebbene il Tuveri non attuasse tale proposito pure può ben dirsi che una buona parte della sua attività giornalistica fu rivolta a delineare tutti quei problemi che, come abbiamo visto, costituivano il fondamento della spinosa questione.
Il Tuveri nell’articolo riportato e in tutta la serie numerosa degli articoli da lui pubblicati in diversi giornali dell’isola, è l’interprete fedele dello stato d’animo dei sardi, che vedevano sussistere, senza il benché minimo tentativo di soluzione, i problemi, ai quali abbiamo accennato, vere piaghe dell’isola. L’unica volta che il govenro ebbe a interessarsi delle condizioni della Sardegna col promuovere un’inchiesta, l’impresa sortì il più infelice degli esiti. Sembrò per un momento che fosse sopraggiunta la fine di tanti mali, ma ben presto la più amara delle disillusioni occupò gli animi che si erano aperti alle speranze più rosee. La Commissione destinata all’inchiesta composta dagli on.li Depretis, Ferracciu, Macchi, Mantegazza, Sella e Tenani, venne in Sardegna nel 1869 salutata da tutta la stampa sarda. Così nel numero del 20 Febbraio 1869 il Corriere di Sardegna scriveva: «Quello che l’Isola non aveva potuto ottenere dalla riconoscenza dell’esulante e qui ospitata dinastia, ciò che non le era stato concesso dal nuovo ordine di cose, maturatosi nel 1848, oggi la nazione italiana riconosce la giustizia di non doverlesi più rifiutare; non è una cortesia che si fa ai sardi da questo o da quel ministro; è tutta la famiglia italiana che visita al suo letto di dolore l’inferma sorella e si dispone a prodigarle le sue cure».
L’infelice esito di quell’inchiesta è comunemente noto. Non fu certo colpa dei sardi, che al semplice annunzio della sua approvazione avevano preparato una serie di scritti per facilitare l’opera della Commissione col presentarle una visione dei problemi più urgenti. Così notevole fra gli altri: il “memoriale della rappresentanza municipale di Ozieri alla Commissione parlamentare d’inchiesta” (Pavia-Fusi-1862). La relazione della Commissione non venne mai pubblicata e al suo posto usciva due anni più tardi nel 1871 un’operetta lodevole, dell’uomo che più a cuore s’era preso la cosa: la relazione “Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna” del deputato Quintino Sella. Il libretto di P. Mantegazza “Profili e paesaggi della Sardegna”( Milano – ed. G. Brigola 1869) fa parte del genere di letteratura amena ed è indice deplorevole della poca serietà con cui certi membri della commissione avevano giudicato il grave impegno.
Doveva necessariamente così scarsa rispondenza alla fiducia dei sardi sull’opera del governo avere una lunga ripercussione sulla stampa dell’isola. Fra le molte, notevoli le acerbe critiche mosse da Gavino Fara al Mantegazza nei numeri del 9, del 16 e del 23 gennaio 1870 della Cronaca di Cagliari.
Il 1870 che con la presa di Roma segnava la felice conclusione della prima parte del risorgimento italiano, non segnava ugualmente il rinascere, come era nelle aspirazioni isolane, delle sorti della Sardegna. La rinascita dell’isola era ancora lontana e altri tentativi dissoluzione dei suoi problemi dovevano finire per naufragare come l’inchiesta assai più tardi nel 1894 (D. Decreto del 12 Dicembre) promossa dal Crispi sulle condizioni economiche e sulla sicurezza pubblica dell’isola, alla quale toccava la stessa sorte dell’inchiesta promossa dal Ministro Zanardelli sul Mezzogiorno. L’isola doveva trovare il giusto riconoscimento del suo alto valore soltanto ad opera di un governo che non vede un’Italia unione di regioni diverse ed eterogenee ma nazione a cui concorrono le energie di tutte le parti del paese.
Nonostante tutto, con Roma non con Parigi
Ho rimandato a questa parte delle conclusioni un giudizio sul giornalismo sardo del 1848, riservandomi di mitigare le critiche non sempre benigne mosse ai giornali d’allora da autorevoli uomini, quali il Siotto e l’Angius…
Il giudizio sul giornalismo di quel periodo ne comporta uno più vasto e ancora più necessario per una complessiva valutazione di tutte le ragioni dirette o indirette che hanno procurato il rigoglioso fiorire del giornalismo politico sardo dal 1848 al 1870.
Intanto i giornali che hanno nome Nazionale, il Popolo, L’indipendenza Italiana e La Sardegna, sorti immediatamente dopo le libertà concesse alla stampa risentono necessariamente della novità del regime. E’ naturale che l’opinione pubblica per tanto tempo resa muta o asservita al governo, faccia un trasmodato uso di certe libertà. Ma pur non mancando le voci discordi, si può dire che 1848 segni un notevole fiorire del nostro giornalismo, tutto preso dalla santità della lotta che nel nome della libertà veniva combattuta contro l’Austria. Le accuse mosse quindi a quei giornali hannno tutta l’aria di essere state originate da interessi personali piuttosto che da un’esatta valutazione dei fatti.
La Sardegna che nel numero 12 del 1° luglio 1848 afferma: «La forma del governo costituzionale è la sola che possa presto e meno incompiutamente unificare l’Italia» parla un linguaggio tutt’altro che di sovvertitori.
Certi avvenimenti, come il disastro di Novara, che portarono al crollo di speranze e di illusioni, naturalmente inveleniscono le polemiche ed aspriscono necessariamente i dibattiti fuorviando i giudizi. Al giornalismo nostro del ’48 spetta il suo giusto e degno posto accanto al giornalismo continentale, e pur nello smodato uso della libertà, non è troppo riconoscergli un alto senso di patriottismo, degno dell’ora in cui vive.
Questo giudizio che ha portato a sfiorare un argomento che è fondamentale per tutto il giornalismo nostro: l’innegabile passione patriottica che alimenta gli scritti dei nostri giornalisti è veramente tipica di quest’età. Negli anni in cui più feroce arse la polemica per la cessione della Sardegna alla Francia, non c’è giornale dell’Isola che non mostri il suo attaccamento alla patria comune, l’Italia. Queste solenni affermazioni di italianità acquistano un valore superiore a quello che comunemente loro si concedono se sono messe in relazione alle veramente tristi condizioni dell’isola, che aveva le sue buone ragioni per attaccare l’opera del governo. I malumori verso il Piemonte nati non appena la Sardegna viene unita agli stati del continente tacciono dinanzi alla nuova spinosa questione e la corda che tra il 1861 e 1862 batte all’unisono, è la più energica affermazione d’unione alla patria italiana. La tragica e mistica rinuncia delle genti sarde di tutti i loro bisogni e interessi in cambio di una Sardegna non francese ma italiana è fatta di una bellezza di cui i popoli puri sono solo capaci.