Un racconto lungo di Gianfranco Murtas. Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus (Decima parte e ultima parte)


Allo scadere dell’anno di lutto si concludono i preparativi e finalmente il 3 gennaio 1925- lo stesso giorno rimasto nella grande storia per il discorso di sfida di Mussolini alla Camera dei deputati, col quale il duce rivendicava «la responsabilità politica, morale e storica» del delitto Matteotti – le nozze vengono celebrate, di primissima mattina, da don Giovanni Lampis, ormai alla vigilia del suo congedo dalla parrocchia che guida da quand’era giovanissimo.

 

L’ora di Barbara Sardu

Il rito pare quasi clandestino, non c’è festa alcuna, com’è peraltro usanza quando si tratta di secondo matrimonio. Firmati i registri degli atti in chiesa e in municipio, alle 9 gli sposi salgono sul postale diretti a Cagliari. Quello è il loro viaggio di nozze. Breve, appena una settimana, forse qualcosa di meno. Quando tornano portano con sé, come souvernir dal capoluogo, tre carciofi: un’autentica primizia, dato che prima di marzo questi, per regola di natura, non maturano mai.

Se l’intesa coniugale si mostra solida, non così si annuncia da subito quella fra matrigna e figliastre. Chiusa ad ogni prospettiva che travalichi gli stretti confini del rapporto moglie-marito, Barbara Sardu ha idee tutte sue circa quel che dovrà essere la sua nuova famiglia. Di qui è quel certo reciproco guardarsi con diffidenza fra lei e le figlie di Severa Aru. Idina si rivela la meno disponibile di tutte a trattare con la nuova arrivata che le appare né più né meno che un’abusiva. Il proprio carattere insofferente ed autonomo (quando era occupata in qualche faccenda domestica che richiedeva totale assorbimento di pensiero, sua madre soleva legarla alle gambe del tavolo per evitare che migrasse, fuggiasca mignon, per strade e piazze!) le impedisce ogni diplomazia. Anche Derigna manifesta una certa istintiva avversione alla matrigna, che si fa più marcata quando questa la costringe ad assisterla nella modesta attività commerciale che ha impiantato nella sua abitazione di via Montegranatico, dove Giovanni Aru e le sue figlie si trasferiscono da subito. Per qualche anno la casa di Conca’e fraizus sarà affittata a una coppia – Mondicu e Margherita Deriu – con la quale i rapporti, già ottimi (i rispettivi matrimoni sono stati celebrati lo stesso giorno!), si fanno  più stretti da quando proprio a Giovanni Aru è dato in battesimo il primogenito. La ricca – per qualità e numero di capi – biancheria domestica degli Aru, le abbondanti provviste, gli animali da cortile ed i maiali, tutto viene trasportato nella casa di Barbara Sardu.

Abile buteghera, come s’è detto, dal piccolo commercio oleario o dello zafferano ricava entrate bastevoli a sostenere l’obiettivo cui, come madre, è più interessata: il buon matrimonio di sua figlia. E infatti, nel marzo 1930, Antioca Luigia sposerà, appena ventiduenne, un “padroncino” – Giovanni Pusceddu – e già a fine anno inizierà, anche in quella famiglia, il bel gioco della vita che genera vita.   Allora Giovanni Aru potrà (o dovrà) tornare nella casa che ha lasciato esattamente un lustro avanti. Avrà risistemato il tutto, avrà provveduto a un’imbiancatura degli interni e poi, nelle più discrete ore della notte, avrà nuovamente traslocato la mobilia cui è particolarmente affezionato.

La novità sarà però nell’assetto della famiglia: con lui e sua moglie ci sarà ormai soltanto la minore delle sue figlie: Gesuina, appena decenne, le altre sono già state, e da tempo, disperse.

 

Un muro intanto virtuale

L’invisibile ma non per questo irreale cortina dell’indifferenza monta già, per più tardi materializzarsi emblematicamente, fra Giovanni Aru e sua suocera Angela Atzeni. I motivi di tale distacco risiedono soprattutto nella stanchezza che in lui ha provocato la vicinanza, sempre meno gradita, di babbo Altea.

Temperamenti opposti, certamente, ma non è soltanto questione di temperamenti. Giovanni Aru è un uomo tutto d’un pezzo, si concede anche lui alla volubilità ma certo è una persona della cui parola ci si può fidare sempre e comunque. Col patrigno della compianta sua prima moglie – che per la vita trascorsa o per debito formativo è così diverso da lui – egli non si è mai inteso. Per rispetto a Severa più ancora che per la sua età, l’ha accettato, l’ha perfino onorato, ma da quando Severa se n’è andata si è sentito più libero di dire e di fare secondo intima convinzione. Recriminando, ma senza inutili vittimismi.

Era rimasto isolato, a suo tempo, quando vanamente spronava Battista, ancora piccolo, ad impegnarsi nello studio (egli comunque aveva poi trovato la sua strada arruolandosi, come detto, nell’Arma così come già suo cugino Ciccio Atzeni). Era stato “utilizzato” – e lo sentiva per l’orgoglio ferito che gli bruciava dentro – allorché sua suocera ne sollecitava l’intervento per tirare su quel vecchio che rapsodicamente sprofondava nei suoi malesseri e nei sonni disturbati. Era stato anche privato – e lo rimarcava più ancora per le figlie che per sé – dei beni non di infimo valore, che erano entrati nell’asse ereditario del padre della sua Severa. Erano capi animali, e forse non soltanto quelli, che, provvisoriamente distratti dalla materiale assegnazione alla figlia del de cuius, sarebbero dovuti rientrare, come valore, nel patrimonio di questa.

Per sua buona memoria, e per la buona memoria dei contemporanei e dei posteri, aveva approntato uno schema, sì elementare nell’incolonnato delle addizioni e delle sottrazioni, ma comunque chiaro e preciso sui movimenti delle poste ed i saldi che ne derivavano. In particolare, aveva quantificato in 961 lire quanto, tra legittima, “porzione” e quota ideale dell’ormai scomparsa primogenita Angelica, sarebbe spettato a sua suocera invedovata, e in 1.504 quanto doveva invece toccare a sua moglie Severa. Ma il “consumo” – la valutazione complessiva cioè delle capre, delle vacche, del cavallo e dall’asino – era ammontato a 1.515 lire ed era, quello, un capitale la cui gestione era stata affidata, nel bene e nel male, ad Angela Atzeni, non a Severa. La vecchia aveva quindi uno “scoperto” di 554 lire che era un debito effettivo verso sua figlia. Lui, Giovanni Battista Aru, l’aveva messo per iscritto, rievocando la storia di quell’amministrazione: «le capre si vendettero nella vedovanza; le vacche nel 1896 si vendettero per pagare debito di Altea Luigi secondo marito (…); rimanendo a conti fatti in tale modo e che Atzeni Angela se si fosse rifatta che avrebbe pagato quel tanto che mancava nel suo consumo».

I conti non quadravano, questo era certo. Né ignorava gli altri “abusi” del parentado, compresi quei rifornimenti non autorizzati da nessuno, presso la tanca – su cungiau – o l’oliveto ereditati da Severa Aru. Ma Giovanni Aru non  era uomo da far guerre in famiglia, da trascinare magari davanti al pretore un congiunto od un affine che avesse mal gestito quanto fiduciariamente gli era stato conferito. No, niente. Chiudeva ogni discorso sull’argomento, ma chiudeva anche, proprio materialmente, la porta. Cioè alzava i muri.

 

L’adolescenza, il telaio ed i piatti

Non sono passati che pochi mesi da che è entrata in famiglia quando Barbara Sardu avvia la “politica”, pensata fin dall’inizio, della “dispersione” delle figliastre. E’ nella sua impostazione mentale, forse c’è qui anche il riflesso amaro di sue esperienze giovanili. Ha avuto anche lei, in famiglia, il suo carico di sofferenze, i suoi lutti, i suoi disagi di lavoratrice fuori casa e anche fuori paese. Viene da gente umile e buona, non può neppure frequentare le sue due sorelle, diversissime fra di loro e che la vita renderà quasi l’una l’opposto dell’altra: Luisa, offesa ad un occhio, povera e modesta, è la bontà fatta persona, e Maria che, al contrario, sta bene e sviluppa un’attitudine – che è di molti gonnesi ed a lei appare d’esempio, – alla piccola imprenditoria olearia da crescere sul tronco di una piccola proprietà.

Se n’è accennato: a casa – è lei ad aver preteso di stare, all’inizio, in via Montegranatico – Barbara Sardu non desidera concorrenti, per lei la coppia deve assorbire quasi per intera la più larga dimensione della famiglia. Così, dopo averle tolte dalla scuola, si dà da fare per collocare le ragazzine presso famiglie di buona conoscenza, in paese, che abbiano la possibilità di tenerle “alla pari” o riferiscano la necessità di un aiuto, almeno ad ore, per il disbrigo delle faccende domestiche. Se inevitabile, che tornino sì a dormire, ma intanto che di giorno stiano lontano e si guadagnino la vita.

La prima che deve prendere il largo è Derigna. Per lei si trova facilmente la soluzione: viene sistemata dai padrini di cresima. Gli Zoboli, entrambi ultrasessantenni, sono benestanti: lui, un emiliano di Modena che per anni ha brillato come maresciallo dei carabinieri ad Arbus e dopo essersi congedato dall’Arma ha svolto le funzioni di segretario comunale, ha sposato la signorina Maria Luigia Caddeo, proveniente da un’agiata famiglia di proprietari del paese, e con lei ha messo al mondo tre femmine diligenti e ormai ben inoltrate negli studi.

Derigna è un’adolescente di bell’aspetto, che ricorda molto la madre; ha un forte senso pratico, vuole imparare e vuole fare. Porta nella casa degli Zoboli – dove rimarrà una decina d’anni, fino al matrimonio nel 1931 – un’aria di discrezione e un attivismo da tutti apprezzato. Viene messa al telaio – su trebaxiu – dove ha la possibilità di affinare la tecnica appresa dalla nonna. Ha filo di tutti i colori ma soprattutto una disciplina artigiana che la segnala per costanza e qualità della resa. Tesse coperte, tappeti ed arazzi da muro dalle tradizionali figurazioni sarde che gli Zoboli, di indole generosa, distribuiscono in dono ad amici e parenti.

Con feroce atto d’imperio Clelia è invece spedita dal signor Frongia, il farmacista di Arbus. Ha soltanto tredici anni, la ragazzina, ma la sua matrigna ha stabilito che sono sufficienti per lavar piatti in casa d’altri. I piatti sono molti, sempre, perché lo speziale paesano e sua moglie e la sua prole si sono presi la buona abitudine, per non stare soli, di invitare a cena ogni sera compari e comari, amici ed amiche. Lei passa la sua giornata con la lissia, macinando acqua e cenere, cenere e acqua… La sera, poi, se ne torna, stanca morta, a casa della nonna, che nella sua vita di adolescente rimane un saldo punto di riferimento affettivo. Il tempo soltanto della preghiera e della «bona notti» ed è già dentro il letto, senza neppure il pensiero di come poter investire la modesta paga, giacché essa è, ovviamente, confiscata, per le asserite necessità familiari, dalla matrigna.

La ragazzina trotterella ora da questo ora da quello; dopo il farmacista viene, infatti, il falegname (la cui moglie ha appena partorito), e poi viene il prete e quindi il maestro. Barbara Sardu decide, a lei non resta che obbedire. Né valgono le riserve, le proteste, la resistenza di iaiu Pietro Aru, il quale vorrebbe proteggere la nipote che ha, nel frattempo, da vedersela anche con la malaria (le febbri si protrarranno, con alterna intensità, per ben sei anni!).

Sia pure con maggior respiro perché più piccola – ha undici anni nel 1925 – anche Idina dapprima è a casa della madre di don Vacca, ed a sera torna dai suoi, col proposito però, o il desiderio, di una rapida e definitiva emancipazione. Che forse inizia a diventare cosa più concreta quando va a Montevecchio, dalla suocera del maestro, poi ancora nella canonica di quel prete d’inizio carriera, ora trasferito da monsignor Emanuelli alla parrocchia di Collinas.

Il menage familiare è vivace, riflette il temperamento, insieme imperiale e bizzoso, di Barbara Sardu. Anche quando, con suo marito, avrà lasciato la casa di via Montegranatico per sistemarsi in quella di via Mazzini, sentirà come il richiamo di quell’abitazione in cui quasi trent’anni avanti ha fatto famiglia per la prima volta e generato due figli.

E’ indocile, si sa, Barbara Sardu e forse per questo ha innamorato il cuore di Giovanni Aru. E quando di tanto in tanto, secondo la fisiologia di ogni matrimonio, matura qualche contrasto con suo marito, lei – sovrana attrice d’un palcoscenico ideale – s’erge a vittima suprema, impostando fragorosi lamenti che subito inducono Giovanni Aru, assai poco amante della teatralità, a dargliela vinta per intero.

Rapsodicamente, poi, ella abbandona il tetto coniugale per riparare nella casa che l’ha vista giovane. Quello è ancora il suo dominio personale assoluto. Non segreto però: esso è pubblicamente rivendicato come tale. Allora raccoglie i pochi effetti che ha trasferito nella casa nuova – biancheria soprattutto – e, dopo aver mostrato a tutti quelli che incontra, con fare compiaciuto, il suo atto di autonomia e ribellione, si rintana nella propria riserva. Dove, armato di santa pazienza, Giovanni Aru va puntualmente a riprendersela.

Non è facile per nessuno trattare con lei. Anche le relazioni con i primi suoceri di suo marito, soprattutto con Angela Atzeni, sono freddi, al limite della incomunicabilità.

Un muro (sia pure con un varco) ed una staccionata di canne sono costruiti per dividere, dai vicini, rispettivamente sa prazzitta d’ingresso, sulla strada, e s’otixeddu retrostante la casa. Un’era, quella della famiglia comunitaria, è ormai passata. Per sempre.

 

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