Quella passione ragionata per la bella politica: ricordando Luigino Marcello fra sardismo e repubblicanesimo lamalfiano, di Gianfranco Murtas
L’abbiamo perso, Luigino Marcello, amico rispettato e amato, per la signorile semplicità del suo tratto, da molti di noi del movimento democratico isolano articolato nelle sue molte anime, e per eccellenza però svettante nell’area d’incontro della tradizione sardista con la scuola mazziniana e cattaneana, quella dei valori universali che nutrono la politica con la P maiuscola e volgono sempre all’interesse generale. Lui barbaricino avrebbe detto, e a ragione, scuola asproniana. Asproniana e tuveriana. Regionalista e autonomista in un consapevole e fiero radicamento nel sentimento nazionale italiano, nel meglio delle esperienze di contrasto alla dittatura prima e di costruzione della Repubblica in una prospettiva europea poi.
L’abbiamo perso poco più d’un mese fa, dopo la malattia che lo aveva appartato negli spazi riservati e amorevoli della sua famiglia, della moglie Valeria e delle cinque figlie Isabella, Simonetta, Laura, Barbara e Daniela, a Cagliari. Nel suo stesso palazzo, nella via Petrarca, aveva vissuto per lunghi anni anche Giuseppe Susini, un altro grande della storia civile ed economica della Sardegna del Novecento, il critico letterario amico di Quasimodo, il redattore unico della coccortiana Rivoluzione Liberale, il direttore de L’Unione Sarda nel 1946 e fondatore de L’Informatore del lunedì nel 1949, il bancario della Comit e poi del Banco di Napoli fattosi banchiere alla direzione generale del CIS ancora quasi agli esordi, sessant’anni fa.
E collega bancario è stato Luigino Marcello nella vita professionale, una carriera – fra Nuoro, Olbia e altre filiali – discreta e corretta nella sua conduzione, ed orgogliosa negli approdi finali, fino al rango riconosciutogli di condirettore della grande sede di Cagliari del Banco di Sardegna. Per me, al tempo addetto al servizio contenzioso (e poi controllo) del Banco di Napoli e per un lungo tratto anche collaboratore stretto di un direttore umanista come Bachisio Zizi, un’occasione in più, fra il professionale e l’amicale, di incontro, banca pubblica con banca pubblica (almeno d’origine). E dentro, in quel rapsodico nostro incontro extrapartito, c’era tutto: la banca e il magico Nuorese, l’arte e la letteratura sarda e Cagliari nostra. Sullo sfondo il partito, il nostro Partito Repubblicano Italiano di rimandi risorgimentali ed azionisti.
Negli incroci stricto sensu del partito ovviamente c’era molta memoria sardista, c’era molto Ugo La Malfa e molto Giovanni Battista Melis, molta passione e anche molta frustrazione, o forse dolore rattenuto per una potenzialità cui s’era negato, dalle debolezze degli uomini, di diventare una gran cosa nella politica non solo regionale. Ché quelli erano stati gli anni in cui il piano di Rinascita s’incontrava con le prime sperimentazioni della politica di programmazione a livello nazionale, tutte integralmente indirizzate ad ottenere la piena occupazione e l’assorbimento dei divari di sviluppo territoriali e settoriali dell’Italia, in uno con il sostegno ai meccanismi di modernizzazione tecnologica dei diversi comparti economici e l’integrazione positiva nel sistema comunitario europeo.
Luigino Marcello riempiva spazi di relazione con un ragionare sereno e di buon senso, con la sua pacatezza, la capacità di ascolto attento, un eloquio misurato, la voce bassa. Scrivendo quasi tre anni fa, nel sito di Edere Repubblicane, dei miei ricordi di militanza, soprattutto giovanile, repubblicana, lo avevo rappresentato con una rapida sintesi così come l’avevo compreso: il direttore di banca cortese, quasi flemmatico nel tratto ma vulcano di conoscenze e sapiente regolatore nelle relazioni.
Un barbaricino amante del pensar fino
Sardista da giovanissimo aveva avuto sempre uno sguardo largo sugli avvenimenti della politica e della cultura, del costume sociale dell’Italia. Era abbonato a Il Mondo di Pannunzio. Lui classe 1929, era soltanto ventenne, studente universitario, nel 1949, quando uscirono i primi numeri della testata liberal-radicale, che sarebbe diventata alla metà degli anni ’50 la tribuna più autorevole del neoradicalismo italiano. Allora, dico del 1949-50, uscirono su quella rivista che avrebbe presto ospitato numerose volte contributi di intellettuali sardi – ora di Michelangelo Pira ora di Giuseppe Fiori, di Maria Giacobbe o di Salvatore Cambosu – i primi articoli, anticipazione di corposi saggi, che Giovanni Spadolini dedicò, apripista, alle opposizioni allo stato liberal-monarchico dopo l’unità. Fra esse, non soltanto testimoniale, quella repubblicana del filone federalista (cattaneano per il più) e quella repubblicana del filone mazziniano comunalista. E lì, già da lì, il giovanissimo simpatizzante sardista guardò ad una sua militanza certo nel regionalismo, ma costruendola in un regionalismo aperto all’incontro con le altre culture ed esperienze civiche della penisola e della Sicilia.
Olzaese, Luigino Marcello, sentiva – come forse capita a ciascuno di noi, ma ciascuno a suo modo – la patria delle sue radici come anche la patria delle sue fronde, quelle che giocano a cielo aperto, rischiando, per trovare sintesi sempre nuove con il mondo che tutt’attorno si appalesa nella sua varietà e complessità.
Olzai, meno di mille abitanti e diciassette nuraghi censiti nella carta archeologica d’inizio Novecento, un boscoso territorio, mosso fra valli ed alture, che tocca e supera perfino i mille metri sul livello del mare, una gran storia sempre e tanto più nei secoli dei giudicati, si trova nella Barbagia di Ollolai, e fisicamente è il cuore della Sardegna. Proprio il cuore della Sardegna. E’ la patria – di ascendenze ed elettiva – di Costantino Spada, il grande pittore allievo dei migliori di Giuseppe Biasi e Stanis Dessì, è la patria di Francesco Dore, medico (con lunghi anni di esercizio professionale ad Orune), cattolico di orientamento politico radicale negli anni che accompagnano e superano la grande guerra (dal 1913 al 1921), insomma fra il Patto Gentiloni e la ristrutturazione del sistema politico italiano con la grande affermazione elettorale di popolari e socialisti, e l’esordio anche del Partito Sardo d’Azione, dopo il biennio di pratica parlamentare nello sfortunato tentativo di saldare l’Associazione Combattenti al gruppo, o al partito, cosiddetto di Rinnovamento.
Mi viene facile, pur senza conclusioni definitive, associare l’intelligenza e la cultura politica di Luigino Marcello, sardista mazziniano/asproniano, alle complessità ed alle dinamiche della vicenda pubblica, ora partitica ora istituzionale e parlamentare, che vedeva la Sardegna già del primo Novecento, non soltanto del secondo dopoguerra – quella cui direttamente egli partecipò –, integrata pienamente, e pur con una sua specificità e non senza patimenti, nella nazione italiana.
Salvatore Cubeddu, che ben lo ha conosciuto ricevendo in giusta e generosa donazione, da lui la serie completa de Il Solco, dal marzo 1945 in poi, per gli archivi e l’emeroteca di Fondazione Sardinia, richiama, di Luigino Marcello, diverse tappe di militanza sardista nel secondo dei due volumi di Sardisti. Viaggio nel Partito Sardo d’Azione tra cronaca e storia: documenti, testimonianze, dati e commenti, Sassari, EDES, 1995.
Io poi, quasi a ricollegarmi a quella stagione partecipativa raccontata da Cubeddu, ne ho scritto a mia volta in più circostanze, tanto più riferendo dalla scissione che allontanò dal PSd’A e portò in progressione alle rive del Partito Repubblicano Italiano, nel 1967-1968, e formalmente e definitivamente nel 1971, una larga parte della militanza e dirigenza, e dell’elettorato dei Quattro Mori.
E fui anch’io, con il mio Repertorio del Movimento democratico sardo dell’Otto-Novecento (repubblicani, azionisti, sardisti), beneficiario della sua liberalità, ora sono forse già quasi trent’anni. Recuperandole dalla sua casa di Santa Lucia mi consegnò, per il buon uso delle ricerche, le collezioni di un decennio de La Voce Repubblicana. La donazione copriva interamente gli anni ’60, proprio quelli della maggiore, più intensa e anche più tribolata, collaborazione fra repubblicani e sardisti, quando Giovanni Battista Melis guidava il PSd’A e sedeva a Montecitorio nel gruppo dei repubblicani – cinque deputati in tutto, di fianco ai due senatori, in tre però distaccati al governo, fra titolarità ministeriali e sottosegretariati –, ed altri esponenti sardisti erano inseriti nelle commissioni tematiche di studio a Roma.
Con quelle annate del giornale – un bellissimo giornale per essere giornale di un partito di estrema minoranza e povero (è uscito di recente un libro che ne rievoca la storia, dal 1921 alla ripresa postbellica con Alberto Ronchey direttore, fino ai tempi più recenti della direzione Folli: cfr. Giancarlo Tartaglia, La Voce Repubblicana. Un giornale per la libertà e la democrazia, Roma, 2012) – dico, con quelle annate de La Voce anche quelle del pannunziano Il Mondo, fra anni ’40 e anni ’60. Prova provata di letture formative (non soltanto informative) e fedeltà ideali importanti, ed insieme, nella cessione, dimostrazione di una generosità permanente, quasi come un passaggio del testimone, espressione anche del suo senso storico circa le sequenze generazionali presidiate dai valori di coscienza.
Dunque ecco il Luigino Marcello uomo colto interessato alle complessità del vivere storico, ecco il professionista e dirigente esperto e presente per lunghi quarant’anni sulla frontiera bancaria e creditizia, ma il Luigino Marcello che mi piacerebbe richiamare qui è essenzialmente il militante della democrazia sardista e repubblicana, il sardista lamalfiano, l’esponente repubblicano tante volte candidato alle elezioni e con una parte anche nell’Amministrazione civica nuorese.
Il protagonista sulla scena politica isolana
Certo occorrerà andare per sintesi, per richiami veloci, ma spero di riuscire a cadenzare le tappe principali della sua presenza sulla scena del servizio politico, in ossequio agli ideali e nell’impegno operativo per il miglior benessere della cittadinanza in una logica pienamente inclusiva.
Risulta iscritto alla sezione olzaese e in quanto tale è delegato partecipante al decimo congresso regionale del Partito Sardo d’Azione che, nel trentesimo della sua fondazione, opportunamente si celebra ad Oristano nel marzo 1951. Direttore regionale è Piero Soggiu, Giovanni Battista Melis è, per la prima volta, deputato a Montecitorio (legislatura 1948-1953); in Consiglio regionale i sardisti eletti due anni prima sono sette, tre dei quali nel Nuorese, ed in giunta ancora per qualche mese siedono gli assessori Casu (all’Agricoltura), Stangoni (ai Trasporti) e lo stesso Soggiu (all’Industria e commercio), mentre Anselmo Contu presiede l’Assemblea. Sono momenti complicati: l’impianto istituzionale è ancora in rodaggio e la DC non garantisce a Roma il rispetto degli spazi autonomistici della Regione, mentre l’interlocuzione dei democristiani sardi appare fievole. E meno ancora pare solerte e vogliosa e capace, la Democrazia Cristiana della sede centrale come di quella periferica, di dare attuazione pratica, «sollecita e integrale», agli oneri di «solidarietà nazionale» come sono sanciti dagli articoli 7, 8 e 13 dello Statuto speciale.
Salvo errore, l’esordio elettorale di Luigino – primo di una nutrita serie – avviene nel maggio 1956, alle provinciali. Candidato nel collegio di Macomer raccoglie 421 suffragi. Un buon risultato per un esordiente di 27 anni: 54 i voti di Macomer città, 220 quelli di Bortigali, 60 quelli di Silanus, meno generosi quelli di Sindia e degli altri piccoli comuni del collegio.
L’attività lavorativa porta fuori zona l’impiegato bancario e renderà per una decina d’anni più problematica una sua riproposta elettorale. Così fino alle regionali del giugno 1965. E intanto nel marzo dello stesso anno egli si segnala per un intervento all’assemblea degli amministratori sardisti della provincia di Nuoro, riuniti nel capoluogo sotto la presidenza di Sebastiano Maccioni ed alla presenza anche di Giovanni Battista Melis, rientrato in Parlamento nel 1963 con i repubblicani nella lista Edera.
Partecipa attivamente, con Marcello Tuveri e Nino Ruju – entrambi destinati, con lui, al passaggio al PRI negli anni avvenire – alla stesura di una bozza del nuovo statuto interno. E’ tempo ancora una volta, per il PSd’A, di riorganizzazione e, da parte di esponenti soprattutto del Nuorese, di tentativi miranti ad un riassetto d’equilibrio, nella gestione e nella rappresentanza esterna del partito che da più parti si ritiene ingessata nel “cerchio magico” dei Melis. Non solo: è tempo anche di riflessioni e di scontri ideali e ideologici, che marcheranno i campi tanto più all’indomani delle elezioni, quando si svolgeranno finalmente gli attesi congressi provinciali e quando, appunto, comincerà ad affermarsi, partendo dal Sassarese, una divaricante linea nazionalitaria e separatista.
A giugno la conta elettorale registrerà un certo indebolimento dei consensi al PSd’A, seppure sia confermato il numero dei consiglieri eletti (cinque come nel 1961, due a Nuoro: Puligheddu e Contu). Luigino Marcello è in lista. La stampa rileva le sue quotazioni, in particolare nella Barbagia di Ollolai. E in effetti i voti arrivano – sono ben 2.968 – e lo piazzano nella quarta posizione della lista provinciale, e secondo dei non eletti, dopo Maccioni.
Al congresso provinciale del gennaio 1966, memori tutti della gran marcia compiuta da Ollolai al capo di sotto ed a quello di sopra da Michele Columbu, è fra i più in vista, esponente della lista vincitrice, che pur presenta qualche ambiguità per la compresenza di uomini che hanno dichiarato orientamenti anche molto differenziati fra di loro. Il nucleo forte è comunque attorno a Giuseppe Puligheddu (ormai asceso alla testa dell’assessorato all’Agricoltura, che terrà dal giugno 1965 al febbraio 1967, dapprima con Efisio Corrias quindi con Paolo Dettori alla guida dell’esecutivo).
Dal novembre 1967 fino, può dirsi, al congresso di confluenza dei sardisti autonomisti (cioè degli scissionisti) nel PRI, Luigino marca una presenza ancora e sempre di primo piano, così negli organismi dirigenti come nel faticoso cimento elettorale.
Nella lacerazione fra i sardisti di qua e quelli di là
Partecipa, il 27 novembre 1967, alla riunione del consiglio regionale del partito che è, in sostanza, l’assemblea dei direttivi delle tre federazioni provinciali di Cagliari, Sassari e Nuoro, e naturalmente condivide il pathos che è in tutti, quale che sia l’orientamento di ciascuno, circa il futuro del PSd’A che sembra messo in dubbio da diffidenze reciproche, scontri fra opzioni ideali e pragmatiche valutazioni di potere, propensioni al “far da sé” come Regione-Stato ed interesse a proseguire l’intesa politico-elettorale con i repubblicani. Nel mezzo delle tensioni c’è Giovanni Battista Melis – l’amato, comunque amato (anche da chi vorrebbe sfiduciarlo), Titino – chiamato a scegliere ma incapace, o forse impossibilitato a scegliere, avvertendo come sua missione suprema la salvaguardia della unità del partito, ancorché a rischio di contraddizioni politiche sia di programma che addirittura strategiche. Peraltro è da considerare che già la federazione provinciale di Sassari è ormai appannaggio della corrente di Simon Mossa, e sono minoranza molti di quelli con i quali la maggioranza nuorese è in maggior sintonia: fra essi l’ex direttore provinciale e attuale consigliere regionale Nino Ruju, e con lui uomini come Nino Mele, come i giovani Salvator Angelo Razzu e Giovanni Merella, ecc. (tutti destinati anch’essi a migrare nel PRI, giusto sulla piattaforma del sardismo lamalfiano).
Se confermare o meno, ma su un piano di perfetta chiarezza politica, l’alleanza con i repubblicani: è questo su cui dovrebbe decidere il consiglio regionale del PSd’A.
Le pagine che Cubeddu dedica alla successione degli episodi, che sono anche fratture di relazioni umane fra amici di lunga data e di reciproca e consolidata stima, sono molte e rendono bene l’atmosfera di quei giorni e quelle settimane. Si discute, ma infine bisogna votare, bisogna scegliere. Perché anche non scegliere significa, di fatto, scegliere. E può sembrare paradossale, ma è invece comprensibilissimo, che sia proprio la corrente che finirà per staccarsi dal PSd’A alleandosi alle politiche del 1968 con il PRI e in esso confluendo nel 1971, ad andare cauta nella risposta da offrire ai repubblicani: perché prima occorre chiarire in casa quel che si ritiene sia o debba essere il sardismo, a cosa questo punti ed attraverso quali metodologie politiche.
Luigino Marcello è schierato, alla conta, con Mastino, Puligheddu, Maccioni, Ruju, Mele, Corona, Tuveri, Bellisai, Sanna – di fatto anche Uras – contro gli altri, che sono la maggioranza dei presenti: 22 contro i dieci, o undici contando anche Uras. Molto verte, nel dichiarato e nel sottinteso, sul lealismo repubblicano e sull’opzione contestativa dello Stato, linee divaricanti che profilano due partiti di natura diversa. La minoranza abbandona i lavori.
Il PSd’A si riduce ad essere, dolorosamente, un partito di separati in casa. Le riunioni si succedono fra novembre e dicembre di quel 1967, e sono riunioni di gruppi e correnti, di maggioranza contro minoranza e viceversa, né le plenarie sono ormai più tali. Nuoro sembra l’epicentro di tutto. Luigino Marcello è con Sebastiano Maccioni il leader esecutivo, o il portavoce, delle decisioni degli autonomisti – «corrente autonomista del Partito Sardo d’Azione» – come si definiscono coloro che chiamano gli altri “separatisti”
Egli viene scelto, unitamente a Tuveri e Mele per la minoranza, a far parte della commissione statutaria, ma è decisione, anche questa, di un partito alla cui dirigenza gli autonomisti negano ormai ogni legittimazione deliberativa. Nel mezzo delle sorde reciproche ostilità, i congressi regionali, entrambi a febbraio: quello repubblicano a Nuoro (al Museo del costume), quello sardista a Cagliari (alla Fiera campionaria).
Il nuovo statuto votato dall’assise del PSd’A definisce il partito come un’associazione di quanti puntino alla «Autonomia statuale della Sardegna, ben precisata costituzionalmente nell’ambito dello Stato italiano concepito come Repubblica Federale» (così all’art. 1) e convengano come fine sul «risorgimento della Comunità Etnica Sarda», comunità minoritaria fra altre comunità minoritarie interne agli Stati dell’Europa e del Mediterraneo. Comunità minoritarie compresse nelle loro aspirazioni emancipazioniste.
Evidentemente, anche nel lessico, si connota, il PSd’A del 1968, come tutt’altra cosa da un partito politico, quello Repubblicano, con il quale pur si vorrebbe confermare l’accordo per l’elezione parlamentare di un sardista: un partito, occorrerebbe aggiungere, che guarda alla autonomia regionale della Sardegna, nel più largo quadro del regionalismo prossimo ad inverarsi come tardo adempimento costituzionale, pensandola nell’incontro fra la programmazione (socio-economica) territoriale isolana e quella nazionale: in chiave dunque concertativa e non contestativa.
Nessuna conferma d’alleanza dunque sembra possibile ai repubblicani, che pure fra loro vivono anch’essi una dialettica vivace (destinata ad accentuarsi successivamente, proprio relativamente ai termini della confluenza che sarà alle viste nel 1971). Alle elezioni per il rinnovo parlamentare del maggio, dunque, repubblicani e sardisti presentano liste distinte e avversarie. E quella repubblicana è comprensiva, per la metà, di esponenti sardo-autonomisti, fra cui è, ancora una volta generoso combattente della prima linea, Luigino Marcello.
Così si combatte fino all’ultimo voto la tenzone, anche sfiancante, tanto più in centri come Oliena o la stessa Nuoro in cui la presenza sardista è storicamente radicata. E mentre, va ricordato, il gruppo consiliare sardista, integrato da Salvatore Ghirra, uscito in quello stesso anno dal Partito Comunista Italiano e dal suo gruppo, si è diviso con tre consiglieri per parte. I sardo-autonomisti sono Puligheddu, Ruju e, appunto, Ghirra.
Il più votato della lista repubblicana (o repubblicano-autonomista) è Maccioni, il secondo – di poco distaccato – è Marcello che precede uomini come Corona, come Marletta, come Racugno, come Puddu, come Saba ecc. Sono 2.696 preferenze, un tributo di stima evidentissimo ad un uomo che certo non potrà essere sospettato di remunerative clientele personali.
Conseguenza immediata della partecipazione ad una lista concorrente è stata intanto, però, la espulsione dei militanti (tali sono considerati anche quando non abbiano ancora rinnovato la tessera, come dirà il pater patriae Pietro Mastino). Luigino Marcello, già appartenente alla sezione nuorese, da questa viene formalmente espulso unitamente ai colleghi Maccioni e Marletta.
Ormai comunque la sua storia politica ha preso una piega che non consentirà ripensamenti. Anzi, ogni giorno di più in lui e nei suoi sodali pare essere entrata una verve nuova, una passione rinnovata alla politica che guarda alla Sardegna, ai suoi problemi e alle sue potenzialità – è tempo di recrudescenza banditesca, è tempo di investimenti industriali nella petrolchimica e nel turismo costiero – ma nel pieno della responsabilità nazionale italiana.
La corrente scissionista, dopo la espulsione dei suoi leader, dopo che a Nuoro anche a Cagliari ed a Sassari, si costituisce in movimento organizzato: è il Movimento Sardista Autonomista per una democrazia di base, con tanto di simbolo – la sagoma dell’Isola – e di sede centrale – nella via Malta a Cagliari – e di organi dirigenti: primo coordinatore sarà Nino Ruju, a lui succederà Salvatore Ghirra.
Ed intanto nel 1969, alle regionali, si ripete l’operazione dell’anno precedente: gli autonomisti si presentano in una lista concordata con i repubblicani, con i due simboli sovrapposti. Capilista tre loro esponenti: a Cagliari Corona (che sarà il solo eletto, a causa della legge elettorale che non consente il recupero dei resti), Ruju a Sassari, Puligheddu a Nuoro. In quest’ultimo collegio è candidato anche Marcello che con 1.972 si piazza al secondo posto dopo il capolista. La conferma, un’altra volta ancora, dell’apprezzamento nella militanza, nell’elettorato proprio e nell’opinione.
Nel 1970 eccolo nuovamente in gara. Alle amministrative stavolta, per il rinnovo del Consiglio comunale di Nuoro. Viene eletto, terzo, dopo Salvador Athos Marletta e Giovanni Maria Canu. Il PRI (integrato dai sardo-autonomisti) pesa per il 7 per cento nel capoluogo barbaricino ed ha la forza di contrattare con la DC e il PSI un patto di maggioranza per il governo del Comune. Così Marcello – che ha concorso anche al Consiglio provinciale, candidandosi nel collegio di Bitti – diventa assessore con delega alle Finanze municipali di Nuoro. Sono mesi impegnativi, defatiganti, forse sul piano politico più che su quello strettamente amministrativo. Perché il problema della coabitazione o, al contrario, della concorrenza ed alternatività con i sardisti del troncone storico permane. E con echi gravi nel Nuorese soprattutto, ad Oliena – la patria dei Puligheddu e dei Mario Melis – più che altrove. La preferenza data qui dai democristiani forzanovisti (e dal PSI) al PSd’A rispetto che al PRI-MSA indispone i repubblicani (integrati) inducendoli ad una negoziazione perfino oltranzista, mettendo sul piatto della trattativa perfino le dimissioni dell’assessore nuorese, oltreché la revoca dell’appoggio alla giunta provinciale.
Finalmente nel PRI, in distensione
Intanto, nello stesso 1971, al congresso del 21 marzo, presente l’on. La Malfa, i sardo-autonomisti confluiscono nel PRI. Luigino Marcello entra nella direzione regionale equamente suddivisa fra le due componenti.
Alle politiche del 1972, mentre dunque il nuovo Partito Repubblicano s’avvia, con la segreteria Corona dopo la partenza per Roma (con ufficio in Confindustria) del segretario regionale Giovanni Satta a sua volta subentrato a Bruno Josto Anedda, ad un suo percorso maturo, un’altra volta ancora richiesto di dare il proprio contributo, ecco Luigino Marcello impegnato nella faticosa ricerca di voti.
Ormai residente, così sarà per qualche anno, per ragioni tutte professionali, ad Olbia, egli fa assai dignitosamente la sua parte, raccogliendo 2.838 preferenze (di cui 2.142 in provincia di Nuoro, 483 nel Sassarese e 213 nel Cagliaritano). Il piazzamento è, per l’ennesima volta, eccellente: terzo (su diciotto candidati) dopo Salvatore Ghirra e Sebastiano Maccioni, nella piccola formazione del 2 o 3 per cento.
E’ questo l’ultimo cimento elettorale: per il resto, crescendo sempre più l’impegno professionale in banca, Luigino non può dare al partito più che la partecipazione agli organi dirigenti regionali, così almeno ancora per qualche anno, poi soltanto la militanza di base, del quidam, nella sezione di Cagliari. E la signorilità dell’esempio.
E’ confermato nella direzione regionale dopo il congresso regionale del luglio 1973, poi dopo quello del novembre 1976.
La militanza di base, quella dei quidam, si è protratta, pressoché come la mia e quella di molti altri, fino al compimento amaro del declino della cosiddetta prima Repubblica, fin quasi, può dirsi, al governo Ciampi che è stato un tempo supplementare ed estremo di rigoglio o prestigio repubblicano, quando però eravamo già nelle macerie: con Antonio Maccanico, già ministro e già segretario generale di Montecitorio e poi del Quirinale con il presidente Pertini, al sottosegretariato della presidenza del Consiglio, e con Paolo Savona ministro dell’Industria ed Alberto Ronchey – l’indimenticato Ronchey – titolare ai Beni culturali, tanti anni dopo il fondatore (e suo speciale collega in quanto direttore di quotidiani) Giovanni Spadolini.
In tutti quegli anni ’80 che videro il PRI sardo dilaniato da (dolorosi, talvolta inverecondi) contrasti, ora sulla preminenza fattasi, col tempo, artificiosa di Armando Corona, il quale nei suoi primi anni di granmaestranza massonica aveva smesso di frequentare il Consiglio regionale senza però dimettersene, ora sugli sviamenti che il potere sembrava aver prodotto in alcuni della dirigenza ed i loro acritici amici contro cui nulla poté la segreteria Ghirra, giusto proprio quando il Partito Sardo d’Azione, con un leader prestigioso come Mario Melis pareva aver recuperato, almeno all’ingrosso, coscienza di sé, consapevolezza istituzionale e senso dello Stato, Luigino Marcello – e io, modestamente, con lui – non prese parte, non spese le sue energie nel tifo per questo o per quello. Prendeva atto, come anche io, di quanto gli uomini sanno essere, in certe circostanze, i peggiori nemici di se stessi. E travolgere per insipienza o capriccio i risultati della fatica collettiva di molti e molti anni.
Fu assiduo invece alle manifestazioni della associazione Cesare Pintus, cui aderì, e di cui io stesso ero stato, nelle seconde e terze file, fra i fondatori ed anche attore, ora con conversazioni ora con la presentazione di libri, dei molti che ho prodotto, dopo lunghe ricerche e con carte inedite, in quegli anni. Le une – le conversazioni, magari su GL, con Simonetta Giacobbe – e le altre – le presentazioni editoriali – sempre, o per il più, riferite alla storia ideale che ci aveva accomunato per tanti anni, la democrazia sardista e repubblicana, l’ispirazione antifascista del sardoAzionismo, il modello prezioso dei testimoni della nostra storia, da Lussu a Pintus, da Michele e Stefano Saba a Gonario Pinna, da Pietro Mastino a Mario Berlinguer, da Bastianina Martini Musu a Stefano Siglienti, da Francesco Fancello alle sorelle Bussalay, a Ines Berlinguer, a quanti altri ancora, a Fantoni, a Mastio martire trentenne, e, guardando la più grande famiglia, naturalmente ad Ugo La Malfa, a Ferruccio Parri, e poi a Bruno Visentini, a Giovanni Spadolini. Ancora, stretti negli affetti: ai Melis, a tutti i Melis, nonostante tutto, ai Melis amati: a Titino ed a Mario, a Pietro e Pasquale, ad Elena ed Ottavia, a Francesca e suor Michelina, ad Anselmo Contu, a Luigi Oggiano il santo.
Un pensiero e un gesto di ammirazione l’abbiamo indirizzato, forse fra gli ultimi sul piano temporale, anche a Michele Columbu, per la sua storia e il suo genio, e anche per la sua partecipazione da celebrante principale, assoluto anzi, nel teatro di Sant’Eulalia, auspice Fondazione Sardinia, della memoria complessa e cara, e speciale, di Giovanni Battista Melis, fra privato e pubblico, fra testimonianza democratica e protagonismo sulla scena politica, fra Nuoro e Cagliari e Roma, lungo trent’anni pieni.
Gli ultimi anni
Quando la politica si è squagliata, noi che non avevamo le energie per costruire altro, se non la forza morale di resistere all’intruppamento allettante – così ancor più negli anni sciagurati del berlusconismo e dei riciclati di Forza Italia o di Alleanza Nazionale alleati dei leghisti patroni della Padania, ma anche delle inadeguatezze complessive della sinistra in perenne riformulazione e dell’Ulivo o dell’Unione – non abbiamo potuto altro che riferirci, nel dibattito di coscienza o nella chiamata alla responsabilità della cittadinanza, ai nostri santi civili, a chi ha combattuto nel proprio tempo la giusta battaglia: per la libertà della patria, per la democrazia inclusiva e partecipativa, dunque per la giustizia sociale e il decoro delle istituzioni.
In una delle sezioni fotografiche che corredano il bel volume di Salvatore Cubeddu (alla pagina 406) compare una istantanea di Luigino Marcello impegnato, lui ancora giovane ma già formato nella professione e nella politica, in un canto a tenores di accoglienza e incoraggiamento. Con molti altri, del paese o dei paesi della Barbagia. Lo rivedo così, Luigino, tanto socievole quanto signore, coinvolto nelle iniziative della cultura popolare, sempre nel segno della autenticità.
La testimonianza di Annico Pau, già sindaco di Nuoro
Ricevo in limine, e raccolgo con gratitudine, una bella, ancor breve, testimonianza di Annico Pau, nuorese illustre e di grande scuola. Eccola:
«Incontrai Luigino nel 1962, in occasione della mia prima iniziazione alla politica, nella storica sede del P.S. d’Az. nuorese di Via Efisio Tola.
«Infatti il mio primo contatto con la politica capitò casualmente per seguire una serie di conferenze tenute da due miti: gli avvocati Pietro Mastino e Luigi Oggiano, il primo per parlare di poesia e il secondo per illustrare la figura di Attilio Deffenu.
«Ricordo in particolare l’eloquio ispirato, da grande affabulatore, del maturo senatore Mastino nel trattare con grande naturalezza e conoscenza l’opera poetica di un grande sardo: Sebastiano Satta.
«Più avanti negli anni ebbi modo di approfondire la conoscenza con Luigino Marcello, più precisamente dopo la scissione del P.S. d’Az. e la formazione del Partito Sardo Autonomistico, che, provvisoriamente, condivideva gli stessi locali con la sezione del PRI, in cui già militavo da qualche anno.
«Autonomista e meridionalista convinto, si intratteneva in lunghe discussioni con quello sparuto gruppetto repubblicano formato oltre che dal sottoscritto, da Giannetto Massaiu, Mimiu Nieddu, Gianni Mereu e pochi altri militanti; quasi un rapporto tra maestro e allievi.
«Sempre pacato, uomo al di sopra delle parti ma sempre fermo nei principi di laico e democratico.
«Da lui ho imparato molto e, nonostante da anni non ci fossimo più sentiti, la mia stima è rimasta sempre viva.
«Cittadini come Luigino, che hanno vivo e forte il senso etico della militanza politica, “non cheren mai perdios”.
«Addio carissimo Luigino, hai lasciato in noi, che abbiamo avuto il privilegio di conoscerti, un vuoto incolmabile».