Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus, di GIANFRANCO MURTAS, (Nona parte)

 

Derigna, Clelia ed Idina vivevano per qualche giorno – fra S’Attarau e Caddaxius – l’avventura straordinaria del lavoro che sembrava un gioco. Non solo: un gioco che meritava il replay nei sogni della notte. Era un godimento supplementare. Nel film onirico esse si rivedevano attive e anzi ipercinetiche nella grande squadra dei vendemmiatori instancabili. Replicavano però anche le ansie della solitudine che si materializzavano quando, dopo le rituali raccomandazioni di stare buone e in silenzio, per rincasare dovevano attendere il ritorno dal paese del carro a buoi ormai vuoto.

S’Attarau e Caddaxius erano però avvenimenti rari. Diverso era il rapporto con Baratzu e Sant’Antiogu, dove più frequentemente si recavano per la raccolta delle mandorle o per altre cento piccole incombenze, compreso il trasloco delle pietre verso la strada. C’era, nelle bambine, un fortissimo, radicato ed acritico senso dell’obbedienza, in cui, forse, più che in altri aspetti del vivere e del pensare si esprimeva il nesso col passato immutabile, col “sempre è stato così”.

L’orgoglio di Sant’Antiogu non si limitava comunque soltanto al ruscello o al gran deposito dell’acqua: esso era piuttosto nelle quattro monumentali piante di noci. Per non dire poi della generosità mozzafiato del suo orto, che offriva in ogni stagione e in gran quantità tutto quel che poteva desiderarsi: peperoni e melanzane, zucchine e pomodori, lattuga e ravanelli, patate e quant’altro.

Nell’ideale disputa per il primato Baratzu rispondeva allora con l’utilità delle altre sue dotazioni, magari con il vantaggio della casa, costruita su una lieve altura, che ospitava spesso il “patriarca” Pietro Aru, soprattutto dopo la morte della moglie di questi. O magari con la capienza, sempre piena, della conigliera e col porcile allestito per il ferale ingrasso dei maiali. O ancora con le decine di alveari che producevano la cera, acquistata poi, per i suoi commerci da ziu Cicciu Pintus. (Una volta un improvviso incendio aveva incenerito tutto e migliaia di api non erano riuscite a completare la loro miracolosa produzione, lasciando ziu Cicciu a mani vuote).

A  Baratzu trovavano ricovero anche le poche pecore che Giovanni Aru aveva acquistato nei mesi lungo cui si era protratta la malattia di sua moglie. Allora si era licenziato dalla miniera e, con l’aiuto prezioso del padre, aveva diviso il suo tempo fra l’assistenza all’inferma e il lavoro in campagna. Aveva seminato grano, legumi e altro ancora, e impiantato vigneti e piante da frutto.

Erano luoghi – Baratzu e Sant’Antiogu – in cui anche Severa Aru andava, di tanto in tanto, quando la salute glielo consentiva o addirittura consigliava. Erano giornate di distensione, di fatica sì, anche, ma era una fatica “sana”, perché la mente poteva evadere dagli stretti confini del quotidiano e della routine domestica.

La campagna, riportando al ciclo di natura, induceva a pensieri essenziali, al tempo che passa cadenzato dalle stagioni, ritmico, sempre uguale fino alla consumazione ultima del mondo esistente, all’inesausta danza fra la vita e la morte, all’eterno rimbalzo di generazioni e trapassi. I silenzi attraversati soltanto dalle sobrie voci del vento, di un torrentello, degli uccelli fra volo e pausa offrono – si sa – come un’anticipazione di quel grande sonno che tutti ci attende.

Ed ora se n’è andata anche lei, la moglie di Giovanni Aru. Anche lei nella “patria dei giusti” che prelude alla resurrezione nel grande giorno del giudizio, quando finalmente l’occhio dell’uomo vedrà, così com’è, il volto di Domineddio e comprenderà tutti i suoi perché…

 

Nel camposanto di San Paolo

In molti, una folla, l’hanno accompagnata, dalla sua casa, al cimitero di San Paolo aperto nel 1864 – poco più di cinquant’anni – nella parte alta di Arbus, in sostituzione dell’area sacra di San Lussorio e dell’interno di San Sebastiano. Qui riposano i suoi  più cari. Sembra un incontro obbligato, previsto, forse preparato: qui sono le sue piccole “rapite” nell’innocenza – Iolanda e Savina -, qui i suoi quattro maschietti – cominciando da Mario – che non hanno goduto neppure per un attimo il bene della vita e sono invece volati, così come fanno i cherubini, nel Paradiso dei  più puri, qui la sua Angelica e i suoi nonni e gli altri congiunti che ha amato…

E’ entrata nel camposanto rinchiusa in una bara di legno scuro portata a spalle e deposta nella nuda terra. E’ stata salutata dalle orazioni insistenti del popolo, dei suoi compaesani, e poi benedetta ancora una volta dal sacerdote che nelle proprie mani ha il potere di sciogliere o non sciogliere i peccati: «Deus, ut non tradas eam in manus inimici…».

La morte di Severa Aru apre, nella casa di via Mazzini, infiniti problemi pratici che si sommano alla lacerazione degli affetti, al lutto che sconvolge, ognuno con una speciale inclemenza, i vari componenti della famiglia.

 

L’anno del lutto pieno

Il primo e più immediato è forse quello personale di Giovanni Aru: egli deve riprendere il lavoro alla miniera. Ma il problema maggiore per importanza è senz’altro quello della futura educazione delle bambine. Per intanto esse – tutte vestite, secondo l’usanza, di nero – sono accudite, con la generosità e la solerzia sempre abbondantemente dimostrate, da nonna Atzeni che, aiutata anche dalla affezionatissima Santina Onnis e dall’altra vicina zia Seranna Dessì (che con i suoi gestisce uno dei mulini del paese, attivo soprattutto d’inverno, quando l’acqua è più abbondante) affianca il genero con discrezione pari alla disponibilità. Ed è da parte degli stessi congiunti della Buonanima che viene, insistente, al vedovo, l’esortazione a ripigliare moglie, proprio per assicurare una guida materna alle figlie.

Lui ricorda, di sua moglie agonizzante, l’invito, anzi la raccomandazione, a risposarsi: «A tre mesi…». E, infatti, ai tre mesi, si dispone psicologicamente a fare nuovamente famiglia.

Più che seguire un impulso d’amore, da principio guarda, forse, al contratto, se così può dirsi. Comunque pare prosa e non poesia. Se risposare si deve, Giovanni Aru, che non manca mai di portare anche lui, come segno del suo lutto, la fascia nera al braccio, valuta con onestà e selettivo discernimento l’opportunità che gli pare offrano diverse compaesane. Chiede alla figlia di zia Veronica, chiede alla sua “antica fiamma” Carmelina (ormai vedova anche lei), chiede ad una vicina di casa, con cui è pure in confidenza, ancora nubile. Dopo averci pensato su, questa però non se la sente di prendersi la responsabilità di condurre quattro bambine (o ragazzine) e risponde negativamente alla proposta di matrimonio.

Alla fine è Salvatore Floris a prodursi come “cupìdo” facendo incontrare il cugino con una matura signora, vedova già da sette anni. D’origine gonnese, essa ha casa a pochi passi dalla parrocchiale, nella via Montegranatico, giusto alle spalle della piazza in cui s’affacciano, insieme con la chiesa, il municipio (e la scuola annessa) e l’antico magazzino del grano, e proprio all’inizio della salita che porta al quartiere di Conca’e mallu e al futuro Belvedere.

Lei si chiama Barbara Sardu Demuru ed è quasi cinquantenne, dichiarandosi della classe 1875. Vive con la figlia Antioca Luigia, ormai sedicenne, nata dal breve matrimonio con Francesco Antonio Concas, un minatore nativo di Arbus, occupato ad Ingurtosu. Ha un bel fisico asciutto, è alta e magra, porta i capelli neri intrecciati sulla nuca; non sembra propensa al sorriso ma ha l’occhio mobile ed attento che coglie tutto quanto le passa attorno e dà vivacità al volto; cammina svelta e agile sotto il carico di un numero cospicuo di gonne sempre scure che la fanno sembrare un’imperatrice.

Il suo carattere è forte, addirittura spigoloso all’apparenza, autoritario come un personaggio di Shakespeare. E’ analfabeta, ma anche lei sa fare di conto perfettamente, ed anzi ha uno spiccato fiuto per i piccoli affari del commercio.   Allampanata com’è, tutta ossa e nervi, Barbara Sardu emana, non di meno, un suo fascino. E’ un fascino sovrano, ma che, appare evidente, assorbe e rielabora quel tanto di infantile che le rimane dentro rivelandone le difficoltà della vita che l’hanno costretta a crescere troppo in fretta, per fare più che per essere.

Terzogenita di una famiglia di agricoltori, aveva lasciato, poco  più che ventenne, il suo paese – lei sola fra le sorelle – per cercare la miglior fortuna del lavoro nel circondario. Era stata accolta da certi benestanti che abitavano a un passo dalla parrocchiale e dalle altre istituzioni del luogo. Prestante ed instancabile, aveva progetti di futuro. S’era legata a un giovane minatore, che avrebbe sposato presto. Egli stava costruendosi casa in quella medesima zona; s’erano guardati e piaciuti; gli incontri, frequenti per quell’andare e venire al cantiere, avevano accompagnato il fidanzamento. Antioca Luigia aveva coronato, nel 1908, quell’amore. Poi era venuto Sebastiano – lo stesso nome del nonno paterno -, ma il piccolo era vissuto soltanto pochi mesi. Invedovata nel 1917, a Barbara Sardu era toccato di prendersi carico pieno della famiglia: piccola compagine sì, ma bisognosa di tutto, in un tempo che, seppure parco e quasi di sussistenza per la gran parte della popolazione, era sfrontatamente avaro con i  più poveri che non godevano di quasi nessuna protezione sociale da parte del governo.

Erano stati, quelli fino al 1924, anni di pesanti difficoltà. Non erano passati che pochi giorni dalla morte di suo marito che la suocera le aveva fatto giungere una impellente richiesta di soccorso. Non avrebbe più dovuto pensare a mantenere soltanto sé e la figlia, ma dal suo lavoro ricavare risorse utili anche all’anziana zia Antioca Piras Tomasi. Le sue prime cure avrebbero dovuto comunque essere per sua figlia.

Antioca Luigia era ancora una bambina allora e sua madre costituiva, comunque ed inevitabilmente, l’unico punto di riferimento certo in quell’età. Non c’era comunque tempo né modo per slanci sentimentali, per la dorata coltura degli affetti. Madre e figlia avevano da subito fatto cooperativa, s’erano associate nelle occupazioni esterne, dopo che in quelle domestiche. Avevano offerto le loro braccia alla campagna, aiutando i contadini del paese nella mietitura del grano o nelle altre mille necessità del ciclo agrario. Poi si sarebbero allargate al piccolo commercio dello zafferano e dell’olio, acquistato rispettivamente a San Gavino ed a Gonnosfanadiga, e rivenduto in paese e magari a Ingurtosu.

Ogni qualche settimana e per lungo tempo avrebbero macinato chilometri, anzi decine di chilometri a piedi, alla fine però s’erano legittimamente autopromosse imprenditrici, socie ideali di una virtuosa cooperativa di mediazione. Da Arbus a Gonnos e ritorno, con le damigiane piene sul capo, da Arbus a San Gavino e viceversa, cariche dell’altro grave fardello (il croco germoglia a Santu Ingiu come in nessun’altra parte dell’Italia), e quindi verso e da le frazioni minerarie… insomma erano distanze, e la strada non tranquilla ed ancor meno comoda. Ma il lavoro era ed è sempre una benedizione del Cielo: dona dignità alla persona e indipendenza alla sua economia. Per non dire poi che l’arte del negozio era comunque meglio di una qualsiasi altra attività in miniera, cui Barbara Sardu aveva pensato da principio, quasi a voler colmare il vuoto lasciato nell’organico da suo marito. Le era stato sconsigliato, con forza e insistenza, e lei aveva fortunatamente dato retta… La scena adesso è cambiata.

L’incontro con Giovanni Aru, che gode di una modesta agiatezza (com’è documentata anche dall’estratto partitario dei terreni e fabbricati) è suscettibile di porre la sua vita (e quella di Antioca Luigia) su un piano di maggior tranquillità nel presente e nel futuro. E lei, così, afferma se stessa, senza reticenze o strumentale risparmio di tratti caratteriali.

La sua è una malìa spontanea, non costruita. E’ magica forse per lo sguardo che impatta sui vicini, forse per l’alterigia delle movenze, forse per il ritmo freddo della sua parola. Ovunque vada conquista la centralità della rappresentazione, cattura l’interesse di tutti: lei non concede pressoché nulla alla dialettica, allo scambio. Si esprime per sentenze definitive, sa che nessuno potrà toglierle il ruolo che s’è dato e negarle il primato che le compete.

 

 

(continua)

 

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