La solitudine dell’indigeno italiano di EZIO MAURO
“QUI non c’è niente. Niente per noi, che ci siamo nati: figurarsi per gli altri”. Potrebbe finire sui manuali di storia dei nostri anni complicati questa frase di una cittadina italiana, probabilmente moglie e madre, abitante della frazione di Gorino sul delta del Po, che ha partecipato al blocco stradale del suo paese per impedire l’arrivo di dodici donne immigrate coi loro figli nell’ostello requisito dal prefetto.
Le straniere sono state dirottate in tre altri centri del Ferrarese, Gorino continuerà a non ospitare nemmeno un immigrato, la protesta ha vinto. Smontate le barricate e il gazebo notturno i bambini possono tornare a scuola, i pescatori riprenderanno il mare. Tutto come prima? Non proprio. Quella frase dimostra che dall’egoismo del niente può nascere una vera e propria guerra per il nulla in cui viviamo. Che ci angoscia, ma che non vogliamo dividere con nessuno.
Sono parole sincere, fotografie brutali delle mille periferie italiane quelle pronunciate al posto di blocco di Gorino. L’ospedale più vicino è a 60 chilometri, il medico viene in paese un’ora al giorno e se ne va, gli uomini sono fuori in barca dal mattino presto fino al tardo pomeriggio perché vivono di pesca, quell’ostello prima requisito poi restituito funziona anche da bar, è l’unico centro di ritrovo del paese, ha qualche camera per i pochi turisti che in stagione vogliono fermarsi per un giro sul delta. È una vita minima, s’immagina di sacrificio, attorno alla casa, la famiglia e la pesca. Dovrebbe farci riflettere il fatto che l’unica volta in cui il paese si sente comunità, agisce insieme, trova un’espressione collettiva, è davanti alla notizia che arriveranno dodici richiedenti asilo. Gorino non ha stranieri, tutti sono del posto. Ma ugualmente reagisce ribellandosi al sindaco di Goro, al prefetto, al colonnello dei carabinieri che promettono di far fermare le migranti una sola notte in paese. “Cosa vengono a fare qui? Abbiamo già i nostri guai, non ne vogliamo altri”.
Non ci voleva molto a prevedere quel che sta succedendo. La superficie sottile della civiltà italiana – la solidarietà cristiana, la fraternità socialista, il buon senso compassionevole liberale – si sta sciogliendo nei punti più deboli della nostra geografia sociale, i piccoli centri della lunga periferia italiana, i paesi di montagna e di campagna, le isole ghettizzate all’interno delle grandi città. Persone in buona parte anziane, estranee al circuito del consumo multiculturale, frastornate dalla globalizzazione, con gli immigrati si trovano nei giardini spelacchiati sotto casa un mondo che non hanno mai visitato e mai conosciuto, senza che le comunità siano state preparate a gestire il fenomeno, inquadrandolo nelle sue dimensioni, nelle prospettive, nel rapporto tra i costi e i benefici. Si sentono esposti, si scoprono vulnerabili, diventano gelosi del poco che hanno, egoisti di tutto: o appunto di niente, perché l’egoismo sociale funziona anche come forma identitaria di riconoscimento sociale e di auto-rassicurazione.
Va così in scena una vera e propria lotta di classe in formato inedito, che mette di fronte la modernità esausta e logorata della democrazia occidentale con la primordialità dei mondi disperati che prendono il mare per cercare sopravvivenza, e nient’altro. Gli ultimi si trovano davanti i penultimi, che non vogliono concedere agli stranieri un millimetro di spazio sulla terra che considerano loro. Se non fossero scesi fino appunto al penultimo gradino della scala sociale (quello di un ex ceto medio che viveva del proprio lavoro, e che con la crisi si sente precipitare nella mancanza di impiego e di futuro) non si sentirebbero sfidati direttamente dai richiedenti asilo che bussano alla nostra porta: non si sentirebbero “concorrenti”, invidiosi di quell’elemosina sociale che l’Europa elargisce con un’accoglienza riluttante, mandando i carabinieri a requisire sei stanze di un ostello vuoto in una stagione turisticamente morta. È l’ultima espressione del welfare state: nato come forma di solidarietà, come strumento di emancipazione e di integrazione – dunque di cittadinanza – , diventa simbolo di divisione e di identità, come un privilegio da consumare soltanto noi, al riparo dagli occhi stranieri e alieni.
Per capire bisogna avere il coraggio e la pazienza di guardare dentro l’impoverimento morale prodotto in ognuno di noi dalla crisi, che agisce sul sentimento di sé e degli altri. È un percorso scavato dalla paura e dall’insicurezza, due giganteschi motori politici di cui raccoglieremo i risultati avvelenati tra qualche anno. La crisi più lunga del dopoguerra, la mancanza di lavoro, l’erosione dei risparmi, la disoccupazione giovanile, il terrorismo jihadista nei nostri Paesi sono fenomeni che tutti insieme trasmettono la sensazione di un mondo fuori controllo, senza più governance, con la mondializzazione che diventa una minaccia, la politica e le istituzioni fuori gioco. L’insicurezza sociale determinava ancora domande politiche, l’attesa di una soluzione di governo. Quando l’insicurezza da sociale diventa fisica, cerca invece soluzioni pre-politiche o post-statuali, che rispondano a paure più che a bisogni, a una necessità di protezione più che di emancipazione, come se in gioco ci fosse non più la sicurezza del cittadino, ma l’incolumità dell’individuo.
Questa miscela fatta di spaesamento e solitudine, panico del presente e angoscia del futuro, si scarica facilmente e immediatamente sull’immigrato. Soprattutto nelle piccole comunità, e nel caso di anziani soli davanti allo spettacolo della paura moltiplicato dalle televisioni, c’è il timore di perdere il filo di esperienze biografiche condivise, che è quel che forma identità e comunità. C’è il timore, cioè, di finire “globalizzati” a casa propria, spostati senza muoversi, mentre il mondo fa un giro completo intorno a noi che non sappiamo più padroneggiarlo, con le nostre mappe diventate inutili. “Noi non siamo razzisti”, ripetevano davanti ad ogni microfono gli abitanti di Gorino sulle barricate. Ed erano sinceri. Ma siamo arrivati al punto che la coscienza di sé diventa esclusiva, la paura spiega l’egoismo, il destino degli altri non ci interpella: purché non qui da noi, finiscano dove vogliono, finiscano come possono, finiscano comunque. È la presa d’atto di una sotto-classe umana che non ha diritti e non può pretenderne, perché non assimilabile e dunque superflua, quindi inutile. Quanto alla sua pretesa di sopravvivere, alla sua ricerca disperata di libertà a costo della vita, è un problema che non ci riguarda: non noi, non ora, soprattutto non qui.
In questo modo mutiliamo la nostra umanità e rinunciamo ad ogni politica nei confronti dei migranti. La sostituiamo con il bando. Ci basta bandirli per non vederli, respingerli per allontanarli, non farli avvicinare per proteggerci. Non capiamo che solo una Europa che abbia un ministro degli Interni dell’Unione e una politica estera unitaria può affrontare il fenomeno. Dovremmo pretenderla, imporla, costruirla, invece di mettere in campo misure burocratiche e fisiche di selezione, le liste delle lingue e dei dialetti, la richiesta di esaminare i denti dei ragazzi richiedenti asilo per capire se sono bambini, minori o adulti, i rilevatori di battito cardiaco e di CO 2 al porto di Calais quando arrivano i camion, per scoprire se ci sono esseri umani nascosti.
Se la politica non contrasta il passo alla paura, rispondendo ai sindaci toscani che denunciano una sperequazione nelle quote di accoglienza, ascoltando il sindaco di Milano che chiede di uscire dall’emergenza perché ormai il fenomeno ha bisogno di misure strutturali, faremo crescere mille casi Gorino, tentativi disperati e inutili di privatizzazione della sicurezza nella dispersione di ogni sentimento di fiducia nello Stato, nel suo senso di giustizia, nella sua capacità di garantire insieme protezione e democrazia. Proprio nel momento in cui credono di poter far da soli, non lasciamo soli i cittadini di Gorino: lo sono già, in compagnia soltanto delle loro paure. Ma sul delta del Po, ieri è nata l’ultima nostra raffigurazione contemporanea, spogliata del cosmopolitismo, dell’identità europea, del multiculturalismo, del sentimento di cittadinanza del mondo. È l’indigeno italiano, ciò che certamente noi siamo ma che non ci eravamo mai accontentati di essere.
LA REPUBBLICA, 26 ottobre 2016