Antisemitismo, corsi e ricorsi di una tragedia dall’ottusità burocratica allo sterminio sistematico, di EZIO MAURO

In un saggio di Taguieff i miti negativi che nutrirono le persecuzioni degli ebrei. Un’indagine da leggere in parallelo con il ritorno di pratiche xenofobe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SICURAMENTE ignorante, dunque apparentemente “innocente” secondo i canoni rovesciati della nuova antipolitica, sta ritornando in Europa una pratica che dovremmo conoscere bene: i governi che prescrivono la “lista” degli stranieri, la loro individuazione, la classificazione, la divisione delle persone in categorie distinte, con le scuole che procedono all’identificazione di specifiche caratteristiche antropologiche per chi viene da altri Paesi. Quasi come se le democrazie spaventate si muovessero inconsciamente alla ricerca dell’ultima forma del peccato originale, il peccato d’origine. Tutto questo disegnando con le persone una scala implicita di vicinanza o di lontananza dall’uomo bianco indigeno che i populisti xenofobi o anche i conservatori a caccia di voti considerano ormai l’unico soggetto meritevole di tutela.

Non sappiamo quel che stiamo facendo, non ne leggiamo il significato profondo e universale che pure dovrebbe risalire dalla nostra storia recente, preferiamo trasformare le pulsioni estreme in burocratiche misure amministrative e poi rapidamente in “gaffe” quando scoppia l’incidente, e il governo di Sua Maestà britannica deve chiedere scusa.

Siamo nuovamente tornati a ragionare di spazi, movimenti, frontiere, e dentro questa spazialità identitaria ci stiamo smarrendo credendo di proteggerci, mentre abbiamo paura di tutto ciò che si muove tra i vecchi confini. Osserviamo il rimpicciolimento dei nostri orizzonti, le chiusure progressive a cui scegliamo di assoggettarci: prima il terrore della mondializzazione, con qualche motivo. Poi il ripudio dell’Europa, con troppa fretta. Quindi la chiusura nell’identità nazionale nascosta tra i muri. Infine, in quello spazio recintato e protetto, l’ultima distinzione e la definitiva separazione: l’elenco dello straniero, marchiato burocraticamente nel cuore dell’Europa democratica del 2016. Ma era stata proprio la burocrazia statale ad agire per prima e per gradi, due mesi dopo la presa del potere di Adolf Hitler. Dunque, se siamo fortunatamente vaccinati dai fascismi, dovremmo almeno vigilare sull’ottusità strumentale degli apparati amministrativi di governo, sui loro meccanismi che una politica spaventata e inconsapevole sta nuovamente mettendo in moto. Dovremmo ricordare che in soli dodici anni, tra il 1933 e il 1945, il governo del Reich firmò duemila decreti anti- ebrei per cancellare passo dopo passo i loro diritti, realizzando nel 1933 quella che fu chiamata la loro “morte civica”, nel 1935 la “morte politica” e nel 1938 la “morte economica”. Anche allora era pura tecnica amministrativa?

Stiamo parlando di anni in cui la logica hitleriana è ancora quella della persecuzione e della discriminazione come armi di pressione per costringere gli ebrei tedeschi ad emigrare in massa, e infatti all’avvento del regime vivevano in Germania 500 mila ebrei, mentre nel 1939 la metà di loro aveva cercato scampo all’estero. Lo strumento è la compressione crescente dei diritti degli ebrei, la progressiva e sistematica riduzione del loro spazio di cittadinanza, la vita quotidiana mutilata pezzo per pezzo sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi degli altri, cittadini a pieno diritto. Prima il boicottaggio delle attività commerciali nel 1933, poi gli ostacoli di una “banale” azione amministrativa contro i medici e gli avvocati, quindi l’esclusione dagli uffici pubblici, infine da tutti i settori vitali del Paese per arrivare nel ’35 alle leggi di Norimberga che vietano i matrimoni misti e codificano la categoria da colpire: chi ha almeno due nonni ebrei.

È utile, oggi che ci sentiamo al riparo della storia, indagare la banalità della selezione, ripercorrere l’ottusità tecnica della differenziazione, fisica, civile o culturale, fino alla risoluzione dell’Unesco che due giorni fa ha negato il legame tra il “miglio sacro” dei luoghi santi di Gerusalemme e gli ebrei. Lo fa Pierre-André Taguieff nel suo saggio sull’antisemitismo (Cortina editore), che è una storia dettagliata della giudeofobia e delle sue metamorfosi dall’antichità fino al contemporaneo, ma è anche un’indagine sul pregiudizio e sui miti negativi che lo sostengono e lo giustificano, ottundendo via via il senso di una responsabilità comune, la coscienza democratica, il sentimento di umanità.

Il termine “antisemitismo” (che si basa sull’equivoco di una visione razziale della storia fondata sulla lotta tra semiti e ariani, mentre gli ebrei non sono semiti in senso etnico, e non tutti i semiti sono ebrei) viene coniato nel 1860 dall’ebreo austriaco Moritz Steinschneider per denunciare un pregiudizio antiebraico ma presto viene impugnato da movimenti antiebraici per definire se stessi, tanto che nel 1888 si raccolgono 265 mila firme per la “Petizione degli antisemiti” contro l’emancipazione degli ebrei e nel 1882 la definizione approda sul dizionario tedesco Brokhaus: “Odio verso gli ebrei, avversione per l’ebraismo, lotta contro i caratteri, i modi e le intenzioni del semitismo”.

Prende così il via la fase post- religiosa della giudeofobia, che cataloga le caratteristiche razziali, fisiche, mentali dell’ebreo considerandole fisse e immutabili, per innestare su questo profilo codificato e denunciato pubblicamente una visione fantasmatica capace di alimentare odio e ostilità verso ogni individuo che appartenga al gruppo, proprio e soltanto per l’appartenenza. La giudeofobia è prima pagana, ricorda Taguieff classificandola storicamente, poi teologico- religiosa cristiana, poi antireligiosa illuministica, poi anticapitalistica e socialista, poi ancora razziale e nazionalistica per approdare alla forma contemporanea dell’antisionismo radicale che salda i due stereotipi eterni quando mescola la denuncia di nazionalismo all’accusa di mondialismo: deorientalizzando e desemitizzando il popolo ebraico per occidentalizzarlo radicalmente nella guerra annunciata da Bin Laden nel 1998 contro “la crociata mondiale”.

La sua persistenza nella storia attraverso una continua metamorfosi dell’odio è dovuta alla forte carica mitica, al fondamento teologico, alla capacità di adattamento a culture diverse. L’accusa più ricorrente agli ebrei è di costituire uno Stato nello Stato, una sorta di nazione separata all’interno della nazione d’accoglienza, con la conseguenza per cui l’antisemitismo sarebbe una forma di difesa indigena. A questo corto-circuito di comodo ha già risposto Sartre, spiegando che non è l’ebreo a provocare l’antisemitismo, ma al contrario è l’antisemitismo che crea l’ebreo come soggetto immaginario e mitologico, costruito su misura per giustificare l’odio fobico dei suoi avversari. I quali in questo processo di costruzione del nemico eterno, universale, lo sopravvalutano dilatandolo nel numero dunque nella presenza, nelle facoltà, quindi nella potenza, nell’ubiquità leggendaria, fino ai luoghi del dominio. È la formula di Alfred Rosenberg, l’ideologo nazista: “L’ebreo si erge come il nostro avversario metafisico”.

Queste accuse sono anche forme di razionalizzazione teologica, politica, scientifica dell’antisemitismo, appoggiandolo ai grandi miti antiebraici che ideologizzano e culturizzano la giudeofobia, dall’odio verso il genere umano all’assassinio rituale, al deicidio con l’assassinio di Cristo, alla maledizione con l’erranza, alla perfidia della speculazione finanziaria, alla cospirazione, al razzismo per l’elezione divina del popolo prediletto. È da qui che sono nate le tre politiche con cui si è manifestata la violenza contro gli ebrei: la conversione, da quando nel IV secolo Costantino trasforma il cristianesimo in religione di Stato, la persecuzione ogni volta che la conversione fallisce, con il Talmud processato e portato in piazza nel 1242 su 24 carretti per essere bruciato pubblicamente. L’ultima politica è l’annientamento.

Bisognerebbe riflettere sulla concatenazione dei passaggi. La giudeofobia ha quattro dimensioni, e la prima è fatta di atteggiamenti e opinioni (credenze ostili, stereotipi negativi, pregiudizi) che producono esclusione simbolica; la seconda da comportamenti individuali o collettivi che producono esclusione sociale; la terza da decisioni istituzionali che producono esclusione discriminatoria, la quarta da discorsi ideologici e dottrinari, che teorizzano la violenza finale. Dunque esiste una scala nell’antisemitismo che è specifica ma rimanda un’eco per tutti i razzismi e le xenofobie: stigmatizzazione, conversione forzata, discriminazione, segregazione, espulsione, aggressione, sterminio. La soluzione finale non arriva quindi per caso o all’improvviso. Prima c’è la riduzione dell’”altro” a corpo estraneo, corpo ostile non assimilabile, che va escluso dalla vita politica, economica, culturale per spingerlo a emigrare, poi c’è l’espulsione per chi resta, dal 1941 c’è lo sterminio “come logica conseguenza di un lungo processo di emarginazione degli ebrei, trattati come estranei al genere umano, patologizzati, demonizzati come una potenza satanica”.

È un’evoluzione per stadi, che Hilberg riassume in questi tre passaggi via via più prescrittivi: “Se rimanete ebrei, non avete il diritto di vivere tra noi”. “Non avete il diritto di vivere tra noi”. “Non avete il diritto di vivere”. Lo strumento tecnico di queste politiche è fin dall’inizio la lista, perché su di essa si basa l’intenzione di “purificare” la popolazione legittima, distinguendo gli “altri”. Ben prima della soluzione finale, l’emarginazione, la discriminazione, la delegittimazione e infine la segregazione hanno bisogno di una tecnica di supporto, con strumenti pratici e amministrativi per individuare, identificare, localizzare, registrare, classificare, censire, marchiare, comunque separare. È l’ossessione del “passeggero clandestino”, dell’infiltrato, dell’estraneo nel corpo nazionale supposto puro, dunque da distinguere e difendere. Tutto questo nasce nello spazio occidentale, nel quadro delle procedure democratiche, nel dominio del diritto, nel cuore dell’Europa cristiana e dell’umanesimo progressista, ultima religione secolare dei moderni. La cornice di civiltà non ci preserva. L’orrore, ci ricorda Bauman, non è figlio dell’irrazionale ma è l’esito di un processo che è al contrario espressione della modernità e della sua razionalità e usa la competenza tecnologica, impiega gli strumenti del progresso, misura l’efficacia dei metodi, valuta il rapporto tra mezzi e fini, ricorre all’applicazione universale della norma. Fino alla conclusione: La violenza burocratizzata, in tutte le sue forme, “è l’espressione stessa della civiltà occidentale contemporanea, non una ribellione contro di essa”.

la repubblica 20 ottobre 2016

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