Fra scuola ed archeologia, sardismo e massoneria, la vocazione prismatica di Ovidio Addis. Ricordo nel 50° della morte, di Gianfranco Murtas
Chi ne ha scritto di più e meglio è stata, nei tempi recenti, Marina Valdès che, quando ancora operava alla Soprintendenza Archivistica per la Sardegna con la responsabilità diretta degli archivi privati, prima cioè del suo passaggio ad Oristano per dirigere il locale Archivio di Stato, con altri valenti colleghi aveva curato, e direi guidato e fors’anche propiziato, nel 1997, la collocazione dell’immenso e prezioso corpus documentario e bibliografico nel demanio culturale dello Stato. Il patrimonio morale direi, ancor prima e ancor più che materiale, di Ovidio Addis, del quale ricordiamo, in questa fine d’ottobre 2016, il 50° della morte.
Ovidio Addis fu molte cose, e tutte costituivano espressione autentica della sua personalità prismatica, in tutte vi fu qualità morale e culturale, vi fu spessore d’umanità. Perché nelle carte di studio vedeva riflessa una vicenda di vita, l’esperienza personale di qualcuno o di molti, che il tempo trascorso – fossero anche secoli o millenni – non poteva ridurre ad un accidente casuale della storia, privandola dei suoi dati appunto di umanità, di sofferenza o di appagamento, di tensione costruttiva o di sconsolato riconoscimento d’una sconfitta. Fosse questo rivelato, come in una riproposta filmica, dalle pietre delle basiliche paleocristiane di Cornus o dalle pergamene giudicali del medioevo, dai borchioni duomali d’Oristano o dalle leggende popolari teuladine o seneghesi.
Fu molte cose, Ovidio Addis, non soltanto come studioso e scrittore, come organizzatore di cultura, di mostre bibliografiche e di dibattiti sulla storia sarda, ma anche come uomo del suo tempo che viveva l’attualità caricandosi i problemi sociali dell’agenda continua. Così, oltreché ovviamente nella quotidianità della scuola intesa come luogo formativo del cittadino consapevole e responsabile grazie alla istruzione ed in cui il suo mestiere vocazionale poteva entrare con efficacia montessoriana, anche come militante politico e come amministratore. Presente, di più, nelle dinamiche associative, di lato al suo Centro Studi seneghese, di lato poi a quello più maturo Arborense, sorto – secondo la sua lettura – anche per «raddrizzare» qualche stortura, «di quelle di cui la storiologia arborense è piena»: Artiere liberomuratore della loggia Libertà e Lavoro, rilancio negli anni ‘50 di una formazione dai trascorsi complessi e certamente dignitosi.
Eccola qui la prismatica personalità di Ovidio Addis che abbiamo perduto quand’era ancora relativamente giovane, a 58 anni soltanto, ricco insieme di risultati e di premesse nuove, per nuovi percorsi. Chi lo onora oggi? La memoria privata dei seneghesi senz’altro, e anche la gratitudine di centinaia, quanti sono stati i suoi allievi nel lungo corso del suo insegnamento nelle primarie pubbliche, e di quegli altri che, avendo lasciato gli studi, a lui erano ricorsi per una preparazione utile a fargli sostenere gli esami di licenza media. Ne onora il nome la toponomastica del suo paese elettivo, e così la casa in cui visse e fu sede della sua straordinaria biblioteca, oggi centro culturale del Comune. La Massoneria oristanese lo celebra con il titolo distintivo di una delle sue quattro logge. Due convegni, uno del 2002 ed uno del 2008, rispettivamente promossi dallo stesso Grande Oriente d’Italia e dall’Amministrazione comunale, hanno rilanciato, fra chi non lo ha conosciuto, la fama delle sue benemerenze civili e culturali.
Siamo ora ad un nuovo appuntamento di calendario, al 50° dalla sua morte, che fu momento doloroso per chi lo amò e chi lo ebbe, nelle varie circostanze e nei vari ambienti, guida e maestro di vita.
Si spera di poter pubblicare, entro la fine dell’anno, un libro contenente tutti i suoi scritti apparsi in volume oppure sulla stampa di serie od occasionale. Per adesso valga questo, pur sommario, profilo biografico a restituire Ovidio Addis al sentimento comunitario dei sardi, al cuore e alla coscienza di quanti, in particolare, minoranza santa, hanno creduto ai valori dell’autonomia isolana, nella visione che ne ebbero, ciascuno con un dono peculiare, i grandi della democrazia patriottica italiana e sarda – da Mazzini e Cattaneo ad Asproni e Tuveri, fino a Lussu, Bellieni, Saba e Melis.
Teuladino di lunga residenza seneghese, sindaco per alcuni anni (dal 1964) del vivace comune del Montiferru, dottore in lettere ed insegnante elementare, apostolo dell’istruzione popolare nel territorio, guida generosa di molti giovani al cimento con la tesi di laurea. Ancora: storico ed archeologo con speciale vocazione al Medioevo, quello alto – nel cui contesto è da collocare la Cornus protocristiana da lui scavata e descritta – e quello basso giudicale, in cui sarebbe anche da inquadrare lo studio, che fece epoca, sui borchioni del duomo di Oristano, importanti perché meglio potevano datarne i nessi con la genealogia della famiglia Serra-Bas (e magari Lacon-Serra, già Lacon-Gunale), la famiglia avita di Eleonora cioè. Di Ovidio Addis ha scritto appunto Marina Valdès sul numero 4, quello di settembre-dicembre 2015, di Massonicamente (“Laboratorio di storia del Grande Oriente d’Italia”). L’articolo –“Un massone sardo tra impegno culturale e passione politica: Ovidio Addis” – dettaglia in cinque dense pagine il profilo umano e quello di studioso e di militante civile di uno dei protagonisti, pur nella riservatezza e discrezione sua propria, del dibattito pubblico isolano, giusto fra cultura e politica, della metà del Novecento.
Un altro recente scritto biografico, a firma di Alberto Medda Costella, giovane e validissimo studioso oristanese, è uscito sul numero XXIX del 2014 degli Annali della Fondazione Ugo La Malfa, e specificamente nel dossier “Il centro è la periferia. Il PRI in Sardegna nel secondo dopoguerra”, a cura di Francesco Atzeni. Medda Costella vi ha partecipato con la doppia scheda “Figure di esponenti di Oristano: Agostino Senes ed Ovidio Addis”.
Ovidio Addis è stato un primattore degli studi e insieme della storia sociale, quella vissuta e sofferta, della Sardegna degli anni , soprattutto, ’50 e ’60. Gli anni, va ricordato, che segnano nel bene e nel male la trasformazione dell’Isola da una società a prevalente economia agro-pastorale ad una società a più significative e crescenti componenti insieme industriali (purtroppo per verticalizzazioni poi mancate) e terziarie, così nel turismo costiero come nell’amministrazione.
A distinguerlo è stata, oltre alla sua cultura personale, la passione civile che lo ha portato in parallelo all’insegnamento pubblico ed a quello popolare, tutto da lui costruito, a Seneghe, ed alle fatiche gaudiose dell’archeologia nella città che aveva visto, in antico, le gesta di Amsicora sardo-pellita alleato dei cartaginesi in funzione antiromana, due e passa secoli prima di Cristo. Ancora: la passione civile che, affinandone la sensibilità circa le relazioni fra l’antico e il presente, lo aveva fatto missionario della raccolta qua e là, in ogni sito della Sardegna, di tutti i materiali documentari ed a stampa a rischio di dispersione e perfino di perdita irreparabile, quelli stessi conferiti infine, con esemplare liberalità, dalla famiglia all’Archivio di Stato di Cagliari.
Di più: la passione civile di questo teuladino che aveva sposato le sue orgogliose radici e le native proprietà pianore e tutto costiere di Capo Malfatano alla definitiva residenza nelle magiche alture seneghesi così ricche di rimandi ai protosardi, ma anche teatro palpitante di tanta storia politica novecentesca – quella combattuta e certo discutibile dei fasciomori –, s’era altresì espressa, in perfetta compatibilità binaria, nella doppia militanza sardista e massonica, la prima nella sezione locale e nel distretto oristanese del Partito Sardo d’Azione, la seconda fra le Colonne della loggia Libertà e Lavoro n. 451 della circoscrizione isolana.
Appunti per una biografia
La famiglia di Ovidio Addis era benestante, forse ricca. Famiglia proprietaria nel sud estremo della Sardegna sul fianco occidentale tutto campagna (e animali) e mare, con le tentazioni, e la pratica consumata come virtuosa, della caccia. Teatro di avventure, questo naturale, anche per i piccoli, con le fascinazioni della torre d’avvistamento nel promontorio in faccia all’Africa maghrebina e la varietà silvana dell’interno: avventure fisiche e avventure già precocemente intellettuali, per le letture salgariane che suggeriva. E con le avventure una certa indipendenza di carattere che si scolpisce anno dopo anno già al tempo della scuola, al convitto Manzoni di Cagliari da adolescente dopo le classi elementari frequentate in paese. E’ nato, Ovidio teuladino, nel 1908 e ventenne – siamo ormai in tempo di regime fascista già assestato – disimpegna la leva militare al centro aeronautico di Benevento e presso gli uffici del Commissariato nella capitale.
Dal 1930 al ’34, a Roma, studia presso l’istituto magistrale, perché sembra aver messo a fuoco la sua vocazione: l’insegnamento. E vive questa intuizione circa il suo futuro anche professionale associandola alle suggestioni che il regime politico trasmette al suo vitalismo che è insieme fisico e di intelletto.
Rientrato in Sardegna, nella Teulada familiare, la Teulada dei 5-6.000 residenti, si inserisce rapidamente nei ruoli insegnanti della scuola rurale organizzata dall’Opera Nazionale Balilla a Malfatano. E’ un primo impegno, una sperimentazione di quel che può fare, e anche delle soddisfazioni che l’esercizio pedagogico gli restituisce. E’ la vigilia di quel concorso magistrale che, vinto bellamente, deciderà della sua vita da adulto, e l’esuberanza che è della sua natura lo porta a svolgere attività in perfetta linea con l’atletismo (non ancora guerrafondaio) della dittatura.
Frugando nelle carte personali di Ovidio Addis, ivi incluso un diario confidenziale, così Marina Valdès dipinge questi mesi di “svolta” a partire dalla primavera 1934: «Terminata la scuola [rurale], è di nuovo in azione, prima al comando del nucleo dei ciclisti del Fascio Giovanile di combattimento, poi al comando di un manipolo in un programma di marce forzate e arrampicate sui monti da Teulada a Sarroch. L’estate successiva, da aspirante capo manipolo, condurrà una centuria di giovani fascisti nel periplo della Sardegna con una “bilancella” di 18 metri a vela latina e motore, con lo scopo di “contribuire alla formazione di una coscienza marinara nei giovani di Teulada”».
La cattedra assegnatagli nella primarie pubbliche è a Seneghe, a 150 chilometri a nord di Teulada. Tutto è Sardegna, ma Seneghe e il Montiferru hanno caratteristiche e storia diverse da quelle teuladine. E non solo il quadro ambientale e la storia remota, ma anche il presente vivacizzato dalle attività imprenditoriali e dal dibattito interno al fascismo o al sardo-fascismo, singolarmente dopo la fine del binomio Pili-Putzolu per la estromissione dal gotha isolano della dittatura di Paolo Pili e la signoria ormai incontrastata dell’avv. Antonio Putzolu, combattente medagliato nella Brigata Sassari, tra i fondatori della prestigiosa rivista Mediterranea, deputato e prossimo sottosegretario alla Giustizia.
Le difficoltà iniziali, forse inevitabili, sono superate in breve; s’impone «la responsabilità di una missione, il dovere del lavoro». Insiste un anno pieno, il primo, poi stacca per un mandato a rapido termine in Africa Orientale – l’Africa etiope-somala del fascismo imperiale – e, di ritorno in patria, si ferma a Roma. Segue i corsi di pedagogia svolti presso la facoltà di Magistero, da Giuseppe Lombardo Radice che assume a maestro orientatore della sua missione di insegnante alle scuole elementari: non un insegnante ingessato nel ruolo istituzionale, ma un insegnante che fa entrare nel proprio mondo ideale e materiale i giovanissimi discepoli. E’ il 1937: la sua biblioteca è da subito casa condivisa con i suoi alunni ed è strumento che coinvolge anche sentimentalmente la nuovissima leva di seneghesi chiamata a fare la sua parte, un giorno, nel progresso del paese e del circondario.
Nel 1940 – è ormai 32enne – sposa Lina Pili, seneghese doc, da cui avrà quattro figli, tutti muniti di molti nomi, non soltanto, è evidente, per celebrare qualche avo… Sono Antonio Paolo Libero, Silvana Maria Idea, Carla Maria Rita e, mascotte della compagnia, Gabriele Raimondo Sardus.
L’imperialismo culturale come virtù
Dello stesso 1940 è un suo opuscolo che meriterebbe di essere letto criticamente, perché concentrato e come concentrato di tutta una sensibilità e di una cultura che nel ventennio si sono strutturate, tanto più nelle giovani generazioni cresciute dalle scuole (e dalle parallele organizzazioni sociali, culturali e/o paramilitari) del regime, così sul piano dei valori pubblici come su quello delle opzioni finalistiche dell’esistenza individuale. “Cultura e politica espansionistica” è il titolo dell’operetta di Ovidio Addis che reca come sottotitolo o sommario di stretta impronta scolastica: “Il problema – La storia – L’organizzazione e la diffusione della civiltà italiana nel mondo”.
Il taglio indubbiamente imperialistico non è, né lo potrebbe essere, guerrafondaio in senso né proprio né lato, ma è piegato a considerazioni che riportano all’Italia come faro di civiltà nel mondo quale i millenni, da Roma, e magari da prima di Roma, in qua, l’hanno modellata ed affermata. E sotto altri aspetti potrebbe quasi rimandare ad una certa ispirazione presente nel giobertiano Primato morale e civile degli italiani, per l’associazione dei valori religiosi sedimentati a quelli della politica costruttrice del nuovo.
La pubblicazione, articolata in quattro parti oltre ad un’appendice e a un sobrio conclusivo riferimento bibliografico, si presenta come uno schema rapido, quasi soltanto accennato, e però anche come guida operativa, della articolazione possibile, varia e larga, di un espansionismo ritenuto pertinente alla missione della patria sul grande scenario dei continenti. Valga, ad entrare maggiormente nel merito del «piano di lavoro» o almeno per dare una idea d’esso, il dettaglio del capo I («Generalità del problema») della parte prima (appunto «Il problema»):
«1) Nozioni sulle scienze espansionistiche. 2) Fondamento dell’espansione italiana: storico, nazionale, civile, sociale, economico. 3) Caratteri: Universalità, giuridicità, eticità, continuità. 4) Principi spirituali: Missione, Primato, Impero, Progresso, Pace. 5) Processi compositivi e risolutivi del problema: Organizzazione, attuazione, diffusione culturale. 6) Fattori: Cultura, arte, scienza, diritto, economia, lavoro e tecnica, educazione. 7) Classificazione delle categorie degli elementi: a) Italiani all’estero. b) Irredenti. c) Italiani delle zone di confine. d) Italiani residenti nelle colonie. e) Stranieri. f) Stranieri ospiti e stranieri residenti in Italia. g) Popolazioni allogene e alloglotte. h) Popoli di civiltà inferiore delle colonie di diretto dominio. i) Popoli di civiltà inferiore delle colonie straniere. Forze conservatrici d’Italianità: Chiesa, Dinastia, Fascismo. Forze motrici: Prolificità, genio della stirpe, coscienza nazionale ed umana, tradizione, razza. 10) Strumenti propulsori: Uomini, Istituzioni (organi centrali e periferici in Patria), Mezzi. 11) Centri dominatori: Consolati, Istituti culturali, Fasci all’Estero. 12) Centri diffusori: Scuole statali, Società nazionale “Dante Alighieri”. 13) Organi ausiliari: Scuola privata, istituzioni culturali varie, ricreative, parascolastiche, Missioni cattoliche. 14) Mezzi diversi: Lingua, libro, stampa, radio, esposizioni, mostre, celebrazioni, capitale, banche, istituti sanitari, Camere di commercio, turismo, Marina mercantile ecc. Accordi culturali. 15) Condizioni necessarie: Disciplina culturale, morale, politica, economica, educazione fisica; forza militare e prestigio; accorgimenti pratici ed estetici; esperienza; volontà, energia, tenacia, coraggio; senso dell’onestà e dell’onore. 16) Possibilità: Culturali, politiche, economiche, demografiche; rivendicazioni. 17) Ostacoli: a) Necessari: Sovversivismo, ebraismo, massoneria, plutocrazia ecc.; d’ordine ideologico, politico ed economico; tutte le forme di concorrenza, b) Preconcetti: d’ordine culturale, morale, religioso, politico, economico. c) Voluti: Miseria politica, economica, d’ordine diplomatico, diseducazione e impreparazione degli uomini; debolezza militare. Unilateralità culturale, dispersioni, sovrapposizioni, dispersioni, distinzioni e interferenze; asservimento alla cultura straniera. 18) Metodo di studio, d’impostazione e soluzione del problema nei suoi limiti, compiti e fini. 19) Individuazione del problema fondamentale, dei principali e secondari. 20) Definizioni. 21) Conclusione».
E’ ben chiaro, da tale sequenza di voci, il rigoroso nesso dottrinario con le leggi del regime di dittatura e, in tale contesto, la piena convergenza con la resistente, consolidata ambientazione pattizia clerico-fascista che, nonostante la normativa antiebraica del 1938, non è contraddetta sostanzialmente da alcuna presa di distanza né della Santa Sede (ormai sotto la guida “antibolscevica” di Pio XII) né dall’episcopato italiano. Così, ad esempio, i riferimenti agli «ostacoli necessari» individuati nella sequenza classica di «Sovversivismo, ebraismo, massoneria, plutocrazia ecc.» ben si presentano come una tavola dei supposti “controvalori”, dei “mali del mondo” contro cui combattere o da cui attendersi contrasti od opposizioni, tavola condivisa ad un tempo dai rivoluzionari del fascismo pagano e dai clericali del cattolicesimo devozionale ancora alla vigilia della seconda guerra mondiale.
E’ credibile che Addis abbia impostato, o già avviato, un lavoro ricognitivo ed esplicativo, sul tema complesso dell’imperialismo “culturale”, o “pedagogico-culturale” dell’Italia sulla scena del mondo.
Nella prefazione-introduzione all’opera – opera che, nei termini appunto ricognitivi ed esplicativi, deve essere rimasta comunque nei progetti o alle bozze molto approssimative del suo svolgimento – egli lamenta che «L’espansionismo culturale risorto oggi dal doloroso fenomeno emigratorio con scopi e indirizzi diversi» non abbia una sua «silloge completa»; mancano – avverte – «opere organiche e complete sulla funzione della cultura italiana all’Estero», sicché occorrerebbe aggiornare in ampie descrizioni la realtà dell’Italia attuale, in evoluzione di quel che è stata, nei secoli o nei millenni, come «popolo di pionieri»: «principi, mercanti, navigatori e poeti, scienziati, monaci, operai si sono ininterrottamente susseguiti nei secoli opponendosi al “furor” dei popoli giovani per portare in tutte le terre la civiltà romana e cristiana, tenendo così sempre desta quella realtà spirituale sopravvissuta anche alla realtà territoriale scomparsa».
Obiettivo dichiarato dell’autore è di presentare «l’Italianità all’Estero» in funzione «pedagogica e politica». Ciò, egli sostiene, «per l’esigenza scientifica imposta dal problema stesso». E aggiunge subito dopo: «La ricerca del materiale e l’organizzazione di esso richiede un metodo di lavoro e di valutazione bibliografica per dare al tutto quella struttura sistematica che mi portò a pensare ad una funzione espansionistica della pedagogia, cioè ad una collaborazione fra politica e pedagogia operante sullo stesso piano ideale. La pedagogia, infatti, come organizzatrice della cultura che è azione, è essa stessa, oltre che sentimento passione pensiero, anche azione e come tale volontà espansiva, coefficiente oggi di benessere e di potenza negli stati moderni».
Lo sguardo è quindi alla realtà nazionale così sul territorio patrio come sul territorio coloniale – del quale ha fatto personale e recente esperienza – o su quello di qualsiasi altro Stato che comprenda in esso comunità italiane. Occorre creare un sistema, un circuito di coerenza valoriale fra… l’Italia italiana e l’Italia straniera: «Le scuole italiane all’Estero sono oggi in continuo aumento e miglioramento e la rinnovazione di esse dipende dalla preparazione degli insegnanti, dalla coscienza pedagogica ed espansionistica degli educatori e di tutti coloro che si recano oltre confine per portare la nostra cultura». E poi: «Ma non dai soli educatori si richiede questa coscienza ed una adeguata preparazione culturale e morale, ma anche dai viaggiatori, dai marinai, dagli aeronauti, dagli operai, dagli uomini di pensiero e di azione perché con la mente e col braccio si contribuisce ad elevare sempre di più il prestigio italiano senza di cui è impossibile qualunque penetrazione». Una missione e un lavoro in divenire, dunque.
Ma come si pone, l’Addis 32enne dottore in lettere e maestro elementare d’un piccolo paese della Sardegna davanti a un tale impegno? Scrive: «per la gioia della ricerca, per l’esigenza intima di studiare il fenomeno doloroso, umile e fecondo dell’esilio volontario ho tentato d’affrontare lo studio di un grande movimento spirituale in cui vita, pensiero si fondono e si agitano fra i contrasti delle manifestazioni storiche e politiche e mi sono sforzato di supplire all’esperienza, alla maturità necessaria per la trattazione di un così vasto e delicato problema, con giovanile entusiasmo, onestà d’intenti e paziente ricerca».
Sostiene di essersi voluto muovere dalla messa a fuoco dei «presupposti dottrinari pedagogici e politici, esaminando i caratteri della nostra cultura per trarne i capisaldi fondamentali storici e costitutivi». Poi il resto. «La conoscenza della vita italiana all’Estero, della scuola, delle istituzioni culturali, sociali laiche e religiose può meglio decidere sulla coscienza degli stranieri e dei connazionali d’oltre alpe e d’oltre mare».
Tavole statistiche, diagrammi, cartine e illustrazioni pensate in appendice unitamente ai dati bibliografici sistematici ed alle comparazioni legislative circa «l’espansione culturale italiana» con quella «delle altre Nazioni imperialistiche», dovrebbero completare, appunto, ricognizione del passato e del presente ed esplicazione delle potenzialità da tradurre, in progresso, in realtà.
«In questo primo lavoro – è la conclusione – basterà schematizzare idee, concetti e norme a fine pratico e a carattere di addestramento e di esercitazione per ulteriori studi da riprendere con maggior preparazione e corredo di notizie. Se sarò riuscito avrò portato un contributo, sia pure modesto, al grande movimento espansionistico e alla scuola. Per ora ad altri già competenti e che hanno possibilità di ricerca e di constatazione, il compito e il dovere di dedicarsi allo studio e alla divulgazione del meno conosciuto problema dell’Impero risorto. Alere flammam!».
E’ da credersi che fin dalla sua adolescenza, sia per l’ambiente frequentato in famiglia o nella scuola o ancora nella rete sociale, sia per il suo stesso naturale attivismo scopritore e innovatore, Addis abbia simpatizzato per il fascismo “realizzato”, vi si sia specchiato. Possono a tanto aver ancora più incisivamente condotto le esperienze militari al tempo della leva, fra Benevento e Roma, e più tardi (1936) nel volontariato dei reparti inviati in Africa Orientale, sia gli studi di pedagogia filtrati, nelle scuole dello Stato e nelle distinte fasi, compresa quella accademica, dal giudizio politico, sia ancora – per la responsabilità del ruolo assunto in prima persona e in età ancora giovanissima – nella pratica docente della scuola rurale della sua Teulada. Quando il ruralismo costituiva una delle colonne su cui poggiava la dittatura e valorizzato per il tanto di tradizionale e di motore demografico, nella prospettiva dell’autosufficienza produttiva, che esso integrava.
E di più, un’altra volta, per il contesto assolutamente straordinario in cui, dallo stesso 1934, gli è dato di vivere: in quella Seneghe che ha visto per alcuni anni il trionfo del binomio fasciomoro e poi, a faida risolta, il dominio incontrastato del partito di Putzolu, meglio allineato su certe politiche d’interesse economico del regime, su quello di Pili che s’era nominato da sé “duce della Sardegna” attirandosi addosso ogni genere di invidia.
Ma certo è che la stella di Antonio Putzolu, patrono dell’Ente di Cultura e di educazione della Sardegna ed anche della rivista mensile, organo ufficiale di questo, Mediterranea, avrà brillato in quei centrali anni ’30 sulla formazione culturale e civico-politica del giovane Addis insegnante seneghese. Lo stesso indirizzo ideale seguito dal periodico condiretto da Putzolu con Dionigi Scano e Sebastiano Deledda, apparentandolo a consimili testate del continente (L’Oltremare, La Rassegna italiana del Mediterraneo, L’Azione coloniale, Il Mediterraneo, ma anche l’Archivio storico di Corsica, l’Archivio storico per la Dalmazia, l’Archivio storico di Malta, ecc.), che guarda alla Sardegna come avamposto necessario allo sviluppo della politica estera espansiva del fascismo, pare trovare un riflesso nelle elaborazioni di sommario del citato opuscolo del 1940.
Gli affanni della seconda guerra mondiale e i ripensamenti
Certo gli anni della guerra con le sue due fasi, quella “regolare” (fascista) e quella “sciolta” e qua e là combattuta con gli alleati anglo-americani, deve avere provocato una riflessione e revisione profonda, in Ovidio Addis, così come in molti altri della sua generazione e della sua stessa esperienza “patriottica”, militare e civile, circa la grammatica organizzatrice della convivenza. Insomma, la questione della libertà e della democrazia deve essere entrata nel quadro dei suoi riferimenti ideali ed in essi anche il sardismo della sua futura militanza politica a quei riferimenti deve essersi fatto coerente. Proprio come fu, e di più anzi, nei primi anni ’20, quelli del passaggio dall’Associazione Nazionale Combattenti (della prima guerra mondiale) al partito organizzato, e formalmente esordiente al congresso di Oristano dell’aprile 1921. Prima, dunque, dell’annessione (negoziata) da parte del PNF, con tutto quello che avrebbe significato, in particolare nell’Oristanese e nel Montiferru dei boss.
Merita riflessione, e possibilmente documenti di prova, la presa di coscienza di tutti i limiti e anzi degli impedimenti che un regime di dittatura può portare allo sviluppo della vita morale dei singoli e di un popolo intero. Sono proprio gli anni del secondo conflitto mondiale ad abbattere le certezze di una gioventù che lì s’è completata ed esaurita con i suoi miti di cartapesta e con i fantasmi di alleati-padroni quali si sono presentati, anche in Sardegna, i tedeschi in divisa nazista.
Questi ultimi, sentendosi traditi dall’armistizio dell’8 settembre, puntano al ritiro in Corsica proteggendo tale loro ritirata con azioni di guerra che fanno vittime civili e prefigurano danni materiali importanti alle comunità del centro Sardegna, in specie dell’Oristanese in cui sono ammassati. Dapprima essi cercano di requisire automezzi a Baressa, nel cuore della Marmilla, e nei disordini che ne nascono un ragazzo viene abbattuto da un’arma da fuoco. Quindi – si tratta dei i fanti della 7° compagnia del 2° battaglione e sono aggruppati a poche centinaia di metri dalla basilica del Rimedio – si volgono a minare e far saltare il ponte Mannu che collega Oristano ai paesi del circondario ed oltre. A tanto s’oppongono altri fanti, quelli italiani del 403° battaglione inquadrato nel 132° reggimento comandati dal colonnello Sardus Fontana, che da giovane si è distinto fra i combattenti della “Sassari”…
Sardus – un iglesiente figlio di una personalità fra le maggiori d’inizio Novecento nel bacino minerario del sud isolano a lungo sindaco in quel capoluogo di circondario – entra impetuosamente, nel 1943, nella vita di Ovidio Addis (che quel nome darà al più piccolo dei suoi figli). Comandante del 403° battaglione costiero, è lui a compiere, con i suoi uomini (rinforzati dai cavalleggeri di Sardegna e il gruppo tattico motorizzato) ed un nucleo di ufficiali di collegamento, la rischiosissima missione. E’ lui stesso a fornire più tardi anche testimonianza scritta e pubblica dell’impresa (che, invero, sarà smentito o ridimensionato da altri partecipanti, che attribuiranno il minamento alla truppa italo-tedesca, prima dell’armistizio e in chiave antialleati, di cui si paventa imminente lo sbarco, ed a Fontana la ricerca artificiosa di gloria militare). Lo scontro, iniziato dal lancio di bombe anticarro da parte dei tedeschi, risulta violento, con molti feriti da entrambe le parti. Il ponte Mannu sul Tirso è infine salvo. Fra gli ufficiali di collegamento che tanta parte hanno avuto nel successo sul campo è, appunto, Ovidio Addis 35enne.
Chi racconta l’episodio nel dettaglio, di fatto fornendone personale testimonianza, è lo stesso comandante Fontana. Questi, sotto lo pseudonimo di Miles, firma un articolo titolato “Difesa di Ponte Mannu” uscito sul numero 3-4 di Sardegna, una rivista di studi regionali stampata per soli quattro numeri, nel 1945, nella capitale.
L’uomo di scuola e di ricerca
Il dopoguerra, e da lì per due decenni ancora, fino alla morte prematura, la scuola e la sua “biblioteca popolare” – gli scaffali aperti alla libera fruizione dei paesani, e tanto più dei ragazzi – saranno la vocazione pienamente vissuta di Ovidio Addis. E verso essa muoverà in convergenza, non in distrazione, la militanza nel Partito Sardo d’Azione e, quando verrà, il servizio amministrativo, fino all’ufficio di sindaco da lui ricoperto.
Sarà una paternità morale quella che Addis offrirà alla sua comunità per tanto tempo. Due generazioni, quasi, di seneghesi gli saranno debitori dell’accoglienza, del consiglio, dell’insegnamento, del lancio nel mestiere – quale che esso sia – inteso come servizio al bene comune ed espressione esso stesso della dignità della cittadinanza.
La mattina, ogni mattina, lui è in aula, alle elementari di Seneghe, per insegnare ai bambini sotto i dieci anni. Il pomeriggio, la sera, sempre, è pronto per il di più, per intercettare quei ragazzi che non hanno potuto frequentare ad Oristano le scuole medie, assenti in paese, e prepararli all’esame di licenza. In questo coinvolgendo, come in una cooperativa originale e virtuosa, trasversale, anche qualche notabile del posto, magari il parroco di Maria Immacolata, il segretario comunale e altri. Se le scuole medie ancora non sono allestite a Seneghe, la volontà dei… volontari supplisce alle carenze e i risultati sono ottimi.
La biblioteca di Ovidio Addis è un polmone di cultura sociale nel paese e nella zona, ma è anche altro. E’ una realtà materiale che si implementa giorno dopo giorno, perché la missione che il suo titolare si è data – una missione fra le altre nel servizio alla Sardegna del presente e dell’avvenire – è anche quella, ne ho accennato, di raccogliere dai rischi di dispersione e perdita i documenti che in varie contingenze gli è occorso di fermare, tanto spesso da vecchi preti, rettori e parroci di campagna, inconsapevoli dei valori storici custoditi. In anni, si aggiunga pure questo, che anche nelle sedi istituzionali della Chiesa – episcopi, uffici di curia, ecc. – la sensibilità per la vigilanza di tali valori era ben lungi da quella maturata successivamente. E per fortuna il raccoglitore di tante preziosità è stato, nel tempo, Ovidio Addis, senza la cui mediazione oggi l’Archivio di Stato di Cagliari non possiederebbe oltre mille documenti cartacei dal XV al XX secolo, ben 56 pergamene datata fin dal XIII secolo, e registri, volumi e sigilli, brevi e bolle papali, atti riguardanti l’attività dei Tribunali della inquisizione, le contabilità feudali o dello stamento ecclesiastico, materiali storici afferenti i campi religioso e civile, dunque, in vario mix.
Ma non meno rilevante è la massa bibliografica, descritta da Marina Valdès, nei suoi 7.300 pezzi, trasversale nelle discipline: letteratura italiana e latina, pedagogia, archeologia, storiografia antica e moderna. «In questo patrimonio – scrive ancora la Valdès – sono comprese anche 25 “cinquecentine”, 42 edizioni secentesche e un prezioso manoscritto trecentesco, contenente le biografie di San Tomaso d’Aquino e di San Pietro martire dell’Ordine dei frati predicatori, le cui miniature, di altissimo livello artistico, lo rendono attribuibile alla scuola di Bologna». Non per nulla la biblioteca di Seneghe diviene una vera e propria «succursale» dell’Istituto di storia medievale della facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari diretto dal professor Alberto Boscolo. Questi, prossimo rettore dell’Ateneo, è da lungo tempo amico personale e anche politico di Addis, il quale «accoglie gli studenti universitari, li aiuta nelle tesi, procura loro i libri e i documenti necessari». Ne forma, per quanto gli compete ed introducendoli alla storia soprattutto dei giudicati, due o tre decine, e fra essi è un futuro nuovo caposcuola, nientemeno che Francesco Cesare Casula.
Divulgatore, non soltanto archeologo e storiografo
Accanto a questa funzione di supporto funzionale all’Istituto medievista (e modernista) ed in rapporti correnti con personalità come Bacchisio R. Motzo e Francesco Loddo Canepa, il Nostro si distingue, come ormai oristanese adottivo o elettivo, nelle complesse procedure volte a dar vita al Centro Studi Arborensi ed a promuovere iniziative convegnistiche o espositive sulla storia del giudicato arborense. Sotto questo profilo è importante la sua azione pubblicistica, di divulgatore, oltreché di ricercatore e studioso, libero sì ma non irregolare, del passato remoto della Sardegna. E, tanto più nei primi anni ’60, collabora con La Nuova Sardegna, nella cui accogliente terza pagina presenta numerosi originali esiti delle sue ricerche demologiche oltreché storiche e storiche dell’arte, oltreché archeologiche. Per queste ultime ottiene anche una prestigiosa tribuna accademica in alcuni numeri dell’Archivio Storico Sardo, pubblicazione della Deputazione di Storia patria. Non mancano comunque collaborazioni anche ad altre testate, e fra i quotidiani pare importante segnalare una intera terza pagina offertagli da L’Unione Sarda nel settembre 1958 in cui è, per larghissimi stralci, riprodotta la sua relazione d’apertura ai lavori della Mostra bibliografica arborense promossa dal Centro Studi seneghese. A tanto accompagna anche una certa attività di conferenziere in diverse zone dell’Isola.
Di più. La militanza sardista lo rende non solo conosciuto ma ricercato nella cerchia delle sezioni di partito che più amano, nelle migliori circostanze, accompagnare la propria attività con iniziative di un qualche impegno culturale centrato sempre, ovviamente, sulla Sardegna fra passato e presente.
Il buon successo alle regionali del 1957 – le prime che lo vedono in gara, con il PSd’A che a Seneghe raddoppiano i voti superano abbondantemente il 20 per cento dei consensi – ne accreditano ancor più l’ascendente, allargando attorno a lui, sardista che conosce la storia, l’area di simpatia.
Lo studio giudicale, la mostra bibliografica arborense
Del 1957 è il primo saggio, scientificamente rilevante, donato da Addis alla comunità accademica, che gli offre gli spazi del fascicolo doppio 1-2 del suo Archivio Storico Sardo in uscita quell’anno. Presentato con il titolo di “Un sarcofago giudicale arborense”, esso si diffonde in una quindicina di pagine ed è introdotto con un appunto di biografia personale, perché l’autore ricorda di aver rilevato, nel 1950, il manufatto («un marmoreo sarcofago di gradevole fattura romanica ma di gusto pagano nella sua cristiana composizione») che si trovava nella sacrestia della chiesa «rattoppata» della Maddalena presso Tramatza: «sulla parete sotto la finestra, inzafardato di calce era incastrato, ad uso di lavabo per la rituale lavanda». Esso venne successivamente ripulito per la sollecitudine di due sacerdoti diocesani e «liberato dalle angustie della muratura fu trasferito per la Mostra di Arte Sacra del 1952. Oggi è però ancora in attesa di essere sistemato in luogo più degno, – aggiunge con dolce ironia che spera nella cappella gotica del duomo – dacché fu collocato sotto un mandarino del giardino arcivescovile».
Delle dimensioni di poco più di mezzo metro all’esterno ed anche nel vuoto interno come lunghezza, della metà come larghezza e tra i 35 e i 22 centimetri rispettivamente in profondità, il sarcofago, recante figure taluna purtroppo deturpata, sarebbe databile – dati gli stemmi scolpiti ai due lati – a cavallo fra XII e XIII secolo (sfondando però anche il XIV), a partire dalla «prima ufficiale apparizione in Sardegna delle armi palate dei Bas per le prerogative giudicali derivate a quella famiglia dal compromesso di condominio fra Pietro I De Serra e Ugone I de Basso».
Pur danneggiato, il sarcofago mantiene per buona parte integra la sua fattura, linee e bassorilievi, il che induce Addis a ritenerlo «un’antica urna riesumata di arte locale bizantineggiante» ed affidata, circa la decorazione, «a scalpellini o scultori minori che svelano influenza pisana».
L’individuazione ipotetica, nel putto scolpito sulla parete anteriore del parallelepipedo, della piccola Giovanna, figlia di Chiano (o Giovanni De Serra visconte di Bas) e di Giacomina «sua legittima moglie» – «un fanciullo [fanciulla] in tunica e il viso sorridente, le mani raccolte in atto di preghiera e le gambe leggermente piegate sulle ginocchia salienti» –, lo porta quindi ad indirizzare il suo studio sulle genealogie della casa regnante nel giudicato d’Arborea, naturalmente con tutte le complessità non soltanto familiari ma anche politiche, di alleanze interne ed esterne.
Il testo è avvincente anche da questo punto di vista. Così come la conclusione che sembra sposare storia (per i fatti e i documenti) e romanzo (per la trama che ne deriva e anche l’afflato descrittivo): «Il documento fondamentale e orientativo, più che sulle analogie estetiche e tecniche, più che sulle osservazioni araldiche, è il diploma di Ludovico il Bavaro di cui ho fatto fonte e su cui ho costruito. Queste, secondo me, le ipotesi più attendibili derivate da una disamina senza pretese di conclusioni definitive.
«L’intento è di richiamare l’attenzione degli studiosi su di un reperto di raro interesse e di indurre i conservatori di esso a rendersene più solleciti gelosi custodi. A me basta averlo in qualche modo illustrato affidandomi alla ragione e al sentimento per far rivivere una bimba orfana prima di nascere, uccisa forse dalla malaria, in grembo alla madre affranta dai lutti e costernata dalla passione politica della sua regalità insidiata. A lei, debole esule donna trascinata nell’orbita di forze enormi in contrasto, Pisa, patria sua umiliata e declive, commise di fermarne il declino in terra sarda, ultima speranza d’indipendenza e potenza mediterranea, baluardo ultimo inesorabilmente conteso da Genova e Barcellona.
«E tutto questo mondo in lotta non si è arrestato sulla modesta arca; su quel sasso è inciso il lamento secolare di una piccola dimenticata regina di pochi giorni che chiede ancora di essere accolta sotto gli archi che l’avo suo Mariano II elevò per i fasti della Fede e per la dignità degli arcivescovi arborensi.
«La voce di quella morta ha diritto ad essere ascoltata. Il diritto dei morti non ha tempo e non prescrive neppure dopo sei secoli, fosse anche e soltanto perché da quell’urna appena chiusa lentamente si sollevò lo sguardo di una madre che chiedeva ai posteri la dolcezza del ricordo per la sua bimba morta. Lector: amore: dei: tu memor esto mei».
Ai congressi di storia della Corona d’Aragona ed Internazionale di Studi Sardi
Dall’8 al 14 dicembre 1957 Ovidio Addis prende parte ai lavori del VI congresso di Storia della Corona d’Aragona associato al VII Internazionale di Studi Sardi, che si aprono a Cagliari (nell’aula magna dell’Università, quindi in quella della Provincia) e concludono ad Alghero, dopo esser passati – in sedute libere – anche alla diga Santa Chiara sul Tirso ed alle miniere di Monteponi. Una tornata di lavori si tiene anche alla sede dell’Istituto di Studi Sardi, presso l’Istituto di Anatomia in via Porcell.
Egli porta un contributo (che, salvo errore, è tuttora inedito) su “Donnicalie in Sardegna nel periodo giudicale e la loro decadenza nel primo periodo aragonese in rapporto allo spopolamento conseguente alla occupazione”. Un tema, questo, ai suoi primi affacci nelle esplorazioni archivistiche degli specialisti moderni, ancorché sulla scia del Tola e poi del Solmi, ed anche suggestivo, perché riporta alle microrealtà sociali ed economiche della Sardegna basso medievale: “donnicalie” o “domos” come centri agricoli autosufficienti con la loro popolazione umana ed animale, quindi come veri e propri microfeudi (con parziale autonomia di giurisdizione) concessi dal regno a stranieri alleati per le loro convenienze mercantili.
Della partecipazione di Addis è traccia in una nota al fascicolo 3-4 del volume XXV di Archivio Storico Sardo che riporta una breve cronaca dell’evento, curata da Francesco Loddo Canepa, con l’elenco anche di tutti i congressisti, intervenuti di persona o soltanto con l’invio delle comunicazioni.
A darne conto è anche Alberto Boscolo che, per conto suo, pubblicherà la propria relazione su “La Sardegna nell’economia del Mediterraneo occidentale dal periodo della supremazia pisana-genovese al primo periodo della dominazione aragonese” (Cagliari, Tip. P. Valdès, 1958). Scrive in nota: «Sulle donnicalie nel periodo giudicale terrà, nel corso del presente Congresso, una comunicazione il dott. Ovidio Addis». E nella apparente modestia o marginalità della segnalazione, pare anche di vedere l’impronta di una collaborazione che unisce da tempo, per comuni idealità ed interessi di studio, entrambi.
La mostra bibliografica promossa dal Centro Studi di Seneghe
Del 1958 è la mostra bibliografica arborense allestita dal Centro Studi di Seneghe, che dura tre giorni cominciando dal venerdì 12 settembre, nel quadro dei tradizionali festeggiamenti della Santa Croce (comprensivi di fiera-mercato del bestiame e di manifestazioni folcloristiche, oltreché religiose).
Si parte con una conferenza dello stesso Addis, nei locali della biblioteca comunale di piazza Eleonora ad Oristano, sul tema “La storiografia arborense, i suoi problemi, le sue fonti”. La relazione descrive l’attività ormai di sette anni posta in essere dal Centro seneghese che può contare sull’incoraggiamento attivo di Bacchisio R. Motzo, preside della facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari per lunghi anni, e dai professori Loddo Canepa e, soprattutto, come detto, Boscolo. Preziosa ed assidua è stata la collaborazione assicurata, oltreché dall’Istituto di storia dell’Università di Cagliari, dal Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana e dall’Istituto per l’Alto Medio Evo di Spoleto. Scambi importanti si sono attivati con studiosi di diversi atenei, da Bologna a Roma e Torino, e con Istituti di alta specializzazione come il Pontificio Istituto di Studi Orientali. Numerosi, impegnati nelle fatiche del Centro, anche i giovani neolaureati, nonché i liberi studiosi interessati alle materie di statuto.
Come detto, ampi stralci della conferenza sono riportati, a tutta pagina, da L’Unione Sarda del 12 settembre 1958. Titolo: “Usciamo dalla solitudine la leggenda è finita”. Valga, anche qui, un richiamo all’incipit ed alla conclusione in cui è molto della “filosofia di ricerca” di Addis che guarda all’ambiente fisico e non soltanto ai documenti, nel tentativo di operare fra essi una reciproca integrazione ricavandone, quindi, una più matura sintesi. Non solo questo però: perché egli è consapevole dei rischi permanenti di dispersione o dissolvimento delle “prove” della storia degli uomini per l’inerzia irresponsabile delle pubbliche amministrazioni non meno che per la volgarità predona dei singoli, e gli pare urgente quindi una protezione da individuarsi come la più efficace…
«Una lunga soggezione ha abituato i Sardi a considerarsi apatici e senza storia. La povertà storica che ci mortifica è però solo apparente, perché impensata è la ricchezza, direi in potenza, della documentazione archeologica. Una continuità di vita demografica dalla nuragica alla moderna, è caratteristica costante dei villaggi scomparsi e dei superstiti. Sono secoli di civiltà commiste in enorme congerie di ruderi e di frammenti dove è difficile sceverare e dove solo un occhio esercitato può leggere nel terreno quanto non può sulle carte. E’ necessario cercare, ricercare, premere sul passato per sradicare le memorie: esse sono lì e noi per noncuranza rischiamo di rinunciarvi per sempre se non lo faremo subito.
«La generale ripresa agricola agevolata dal trattore sconvolge il terreno sino al livello archeologico e per ogni anno agrario, l’archeologia paga all’agricoltura un enorme contributo. Lo stesso materiale di archivio, il materiale librario e molti oggetti d’arte sono in dissolvimento ad opera delle termiti, dell’incuria, degli asportatori, dei collezionisti. I pezzi di valore emigrano continuamente dall’Isola e, se una mano amica e svelta non interverrà, nulla più tornerà in Sardegna…».
Così la conclusione, con un tono invece positivo ed ottimista, ma soprattutto (e ancora) responsabilizzante, senza eccezioni: «Il mondo non comincia oggi ma da oggi, da tutti i giorni si può riprendere la Storia su vie nuove, spinti dall’impulso del passato e col presentimento dei valori futuri. Usciamo dalla solitudine: la leggenda è finita».
Antologia delle leggende paesane, uno sguardo alla letteratura storica
Fra primavera ed estate 1961 Addis pubblica su La Nuova Sardegna cinque lunghi articoli che recuperano, in una narrazione gustosissima, alcune belle leggende taluna dell’area seneghese, altre di quella teuladina (e mariese). Eccone i titoli che, con i rispettivi sommari, bene illustrano l’originalità delle vicende tratte dalla memoria collettiva di territori limitati ed offerte al più largo pubblico dei lettori del quotidiano: “Come nel 1794 sette insorti sanveresi furono trucidati dai popolari di Seneghe: dramma e storia nella toponomastica sarda. Un famiglio episcopale, mentre i ribelli minacciavano il costernato Presule, era riuscito a dare l’allarme, facendo credere ad un assalto di banditi” (2 aprile), “Lo chiamarono Nuraghe Gangiu a segnare una tomba senza perdono: leggenda e toponomastica. Da quelle boscaglie i cannonieri del re traevano gli affusti per le loro bocche da fuoco” (11 aprile), “Quando il re spagnolo lo volle questo fu il nuovo costume teuladino. Non dimenticò il sombrero e l’alto colletto candido e decorato, bordò di rosso i pantaloni neri accorciandoli a campana; cinta, corsetto, camicia: accordi di colore, di proporzioni, di buon gusto” (11 maggio), ”Se la fune si fosse spezzata il reo sarebbe stato graziato dal barone: leggende teuladine. Mail barone aveva prescritto il canapo a triplice ritorta e nessun condannato la scampò mai. Il magnifico ricamo di Teulada nacque dalle mani di un’adultera condannata alla prigione a vita” (4 giugno), “Egli ha per sé le vie dei monti, i suoi pascoli, i suoi ulivastri, la tuerra. Teulada e la sua vicenda. L’esattore di derrate. Nel 1610, per 3000 lire sarde. La battaglia della leggenda. Oppressioni e isolamento” (16 giugno).
E’ una opportunità colta con brillantezza, quella della collaborazione con la stampa e in particolare con i quotidiani. Egli possiede duttilità scrittoria capace di un’altissima resa, e la materia stessa – le leggende popolari – si presta ad un’affabulazione facilmente coinvolgente l’immaginario dei lettori.
L’autore rivela anche una conoscenza lessicale sorprendentemente ampia ed elegante, pertinente ed insieme evocatrice, di chiara valenza letteraria e potenza suggestiva, quasi filmica, in cui tutti rientrano con un ruolo giocato al meglio, popolani e banditi, principi e vescovi, baroni e monsignori di corte, giovani spose violate sul talamo ed altre rubate alla famiglia, amici di sangue trasformati in nemici giurati, devoti ai santi e predoni musulmani…, insomma una larga tipologia umana e sociale col fascino probabile dei secoli. E se le storie non sono vere – e quasi certamente non lo sono – valgono però a spiegare un toponimo campestre, un culto fedele, la foggia o il colore d’un abito di tradizione. Le sedimentazioni secolari, nella sequenza delle generazioni e dunque dei passaggi storici che trasformano forme e talvolta perfino identità, aggiungono ora colore ora particolari al racconto che non ha autori individuabili altro che nella memoria creativa del popolo.
Di tutt’altro taglio, evidentemente, e comunque anch’esso proposto con scrittura lieve ed efficace ritmo, è il lungo articolo che, ancora su La Nuova Sardegna, pare chiudere quel ciclo delle “leggende” facendosene quasi la controvoce. Il titolo – “Vicende della storiografia sarda” – bene definisce l’oggetto del contributo che rivela una conoscenza non soltanto… delle copertine, ma dello specifico originale dei diversi autori almeno degli ultimi cinque secoli, dal Fara al Tola, dall’Angius al Siotto Pintor ed al Martini, dal Baudi di Vesme ai vari Pais, Cara, Vivanet, Nissardi, ai Pillitu e agli altri coinvolti nei celebri falsi d’Arborea, e poi ancora dal Besta e Solmi e Taramelli, ecc. ai contemporanei Mondolfo, Costa, Wagner, Carta Raspi, Boscolo, Loddo Canepa, Dionigi Scano, Motzo e Maxia e Della Maria… Da tutti questi e dal loro raddoppio, aggiungendo gli storici della Chiesa come Saba e Filia o quelli del sardismo come Bellieni e Pilia, e ripassando produzioni e testate più o meno di serie, come il Bullettino Archeologico Sardo del can. Spano, e quello Bibliografico di Raffa Garzia di trent’anni dopo, o come l’Archivio Storico Sardo, fondato nel 1905, o come Il Nuraghe, legato all’omonima fondazione ed a Mediterranea, voce matura di quel che era stato il sardofascismo passato alle interpretazioni più avanzate del regime, negli anni ’30, alla serie di Studi Sardi ed alla Bibliografia Sarda del Ciasca, fino al Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo del Della Maria, verso la metà degli anni ’50…
In tutto questo, e ancora nel suo doppio, v’è molto della preparazione personale di Ovidio Addis e anche di quanto lo ha accompagnato nei cimenti di scrittura, di docenza ed anche di scavo nel campo di Cornus o di censimento ed interpretazione di emergenze diverse rimontanti all’antico romano o paleocristiano, oppure all’epopea giudicale, così sul civile come sul religioso.
Sembra significativo, accostandolo poi più intimamente alla sua esperienza di studio e “militanza” collaborativa (oltreché di nuovo vissuto arborense), quanto scrive quasi in conclusione del suo articolo: «Nel 1947 venne creato, animatore Alberto Boscolo, un Centro di relazioni universitarie con l’estero per ripristinare contatti e scambi e far conoscere l’Isola in tutti i suoi aspetti culturali e scientifici. Nel 1954 gli interessi si allargarono e fu costituito il Centro Internazionale di Studi Sardi, promotore e primo presidente l’antropologo Carlo Maxia. I due centri hanno già organizzato i congressi e studiosi di tutto il mondo rivolgono oggi lo sguardo all’Isola dimenticata perché ignorata, cogliendovi tutti quegli elementi mediterranei che i Sardi per il “complesso” delle Carte d’Arborea prima e dell’“italianità” poi, non hanno, pur intuendolo, voluto chiaramente e decisamente rilevare. Dai sette congressi internazionali e dal VII Congresso della Corona d’Aragona tenutisi a Cagliari, dal Congresso di Studi bizantini di Benevento e Salerno, dagli atti delle Settimane di Studio presso l’Istituto internazionale per l’Alto Medioevo di Spoleto, questa mediterraneità storica è chiaramente emersa: di questa mediterraneità si trovano analogie e l’interesse è sempre più vasto in quanto non si può conoscere, a fondo, la storia del Mediterraneo senza la storia sarda, né la storia sarda senza i presupposti storici dei popoli rivieraschi che ci stanno attorno».
E ancora e per chiudere: «Da dieci anni un gruppo di giovani studiosi, che concepisce la storia sarda come storia mediterranea della Sardegna e raccoglie materiali documentari o nell’Isola, nel Continente italiano e all’Estero, valuta e studia il periodo paleocristiano, bizantino e giudicale, l’alto e basso medioevo con le incidenze donnicalensi e monastiche, la storia dell’arte, della scuola, della cultura e degli studi filosofici in Sardegna e segue le tracce dei sardi nel mondo attraverso i secoli. Un cenacolo nato, cioè, come centro di ricerca e di studi, non limitati alla sola Sardegna ma estesi allo sviluppo della civiltà sarda nella storia mediterranea. E non è un programma pretenzioso perché ci sono i presupposti».
La poliedricità come arte ingegnosa
Spirito ingegnoso e versatile, non deve sorprendere se lo si ritrova protagonista su due scenari certamente eccentrici, magari anche soltanto per le modalità, rispetto al nucleo dei suoi interessi di studio. Lo ricorda benissimo la Valdès: «Nel ’61 è nel pool di esperti che sostengono i “pulsantisti” di Oristano alla trasmissione condotta da Mike Bongiorno “Campanile Sera”. L’anno dopo partecipa in prima persona a “Itinerario quiz”, condotto da Edoardo Vergara Caffarelli, riportando la Sardegna agli onori delle cronache. Sempre un suo ex alunno, Mariano Pili, dirà in un’intervista che sentire parlare della Sardegna alla televisione era stato per lui come una riacquisizione di dignità. In questo Ovidio Addis aveva raggiunto il suo obiettivo».
Ma non solo libri e cultura libresca, anche se con dimensioni variabili, ora divulgativa ora rigorosamente scientifica e paraaccademica. Anche scienza, o scienza applicata agli studi. Il riferimento è qui ad un rimedio «contro le termiti che gli stanno divorando la biblioteca». Sperimentatore chimico quindi, con la soddisfazione di un risultato raggiunto per la salvaguardia del suo patrimonio e di quello degli altri pure a rischio…
Risponde a questa stessa poliedricità, almeno da un certo punto di vista, anche la pratica di archeologo che esige di… passare e ripassare «nei tratturi», invece schivati, «perché i tratturi sono faticosi», da molti storici. Lo rileva egli stesso, con una punta di ironia – né è la prima volta, e non sarà neppure l’ultima –, scrivendone, nel luglio 1959, agli assessori regionali alla Pubblica Istruzione e al Turismo. «Ho da tempo intrapreso una serie di indagini storiche sul terreno nelle campagne e nei villaggi dell’Isola, e mi sono così convinto che tali ricerche, conducendo a sorprendenti scoperte di varia antichità, più e meglio di altre vie contribuiscono ad ovviare alla insufficienza della documentazione scritta che tuttora limita la storiografia sarda. Tutto ciò allo scopo di rintracciare elementi nuovi che ne consentano una revisione critica per intenderla finalmente, dopo deviazioni e titubanze, non più come storia locale ma come storia mediterranea».
Si tratta di una intuizione che troverà mille conferme nei risultati delle campagne di scavo. E certamente la maggiore, fra queste, è la campagna che punta alla scoperta dell’antica Cornus. Vale, ancora una volta, lasciare la sintesi di cronaca a Marina Valdès, che evoca il ruolo di quel «municipio romano», così come citato da Tito Livio, ma di esso rileva il precedente stato di campo di battaglia dei sardi agli ordini di Amsicora e Iosto, e campo anche della loro sconfitta, apriporta del sette volte centenario dominio romano nell’Isola: «Cornus era, per la storiografia, il luogo simbolico, e negativo, della sottomissione della Sardegna a Roma. Avendone identificato il sito presso l’odierna Santa Caterina di Pittinuri, riesce [Ovidio Addis] a ottenere un primo finanziamento di mezzo milione di lire dall’ESIT, Ente Sardo Industrie Turistiche, di cui è presidente il suo compagno di partito Angelo Corronca. Dopo aver frequentato a Roma il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, seguendo le lezioni del professore Pasquale Testini e del P. Antonio Ferrua, tra il ’62 e il ’64 dirige a Cornus due missioni di scavo che mettono in luce i reperti più antichi e completi del Cristianesimo sardo, la basilica paleocristiana e il suo battistero. La relazione sugli scavi che presenta al XIII Congresso di storia dell’Architettura, ha una fortissima risonanza mediatica e Ovidio Addis immagina che la scoperta di un monumento così prestigioso possa conquistare la Regione Sarda a un solido impegno di valorizzazione dei beni culturali e di attrazione del turismo colto. Alla Regione invia diverse relazioni e un unico chiarissimo messaggio: la Sardegna non è, e non può essere rappresentata come terra di banditi e pastori, da frequentare d’estate per il suo mare meraviglioso, ma un mare intero di cultura. Un messaggio, questo, che avrebbe dato frutti solo decenni dopo la sua scomparsa».
Giusto di un anno dopo è un breve ma prezioso articolo che Giuseppe Della Maria accoglie nel suo Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo, al numero 41-42 (1962). Titolo: “Prima raffigurazione del suonatore di launeddas”.
Riferisce, Addis, di una prima e originale rappresentazione di un launeddista in esercizio rinvenuta, fra le numerose altre in bassorilievo, su una formella presso la chiesa campestre di San Bacchisio in Bolotana. Rimontante al XVI secolo, essa era stata destinataria, chissà come e perché, per i suoi interni e i suoi esterni, di una quantità notevole di tali manufatti artistici «recanti figurazioni paganeggianti intercalate a motivi simbolici cristiani». Appunto fra esse quelle che celebrano San Bacco martire rappresentato secondo spunti «falloforici», in linea con una certa tradizione introducente nelle stesse chiese i culti di «carattere orgiastico».
E’ in tale contesto che va collocata la scoperta d’interesse particolare – e qui è il rilievo obiettivo della segnalazione di Ovidio Addis – relativa alla formella databile ai primi decenni del Cinquecento. In essa si combinano due novità assolute: perché alla prima raffigurazione di un suonatore di launeddas si associa quella dell’abbigliamento sardo maschile…
L’impresa degli scavi di Cornus
Nella metà degli anni ’50, come accennato, inizia una campagna di scavo in territorio di Santa Caterina di Pittinuri, frazione del comune di Cuglieri, una quindicina di chilometri a nord di Oristano. La meta è Cornus, oggetto d’interesse archeologico da secoli ormai, ma senza mai definitive acquisizioni. Le prime esplorazioni sono promosse da Leandro Cocco e Piero Demuro in territorio di Columbaris. Nel 1960, concordandolo con la Soprintendenza alle antichità di Sassari e Nuoro, è sul campo anche Ovidio Addis. Prepara con ogni dettaglio l’esplorazione, poi in due riprese – estate ed autunno (luglio-ottobre) 1962, estate (luglio-agosto) 1964 – guida lo scavo.
Naturalmente non tutto nasce all’improvviso, c’è molto da documentarsi su chi c’è passato prima. L’area è stata meta di assaggi che hanno variamente impegnato nel tempo molti bei nomi dell’archeologia isolana, fra cui, nella metà dell’Ottocento e anche dopo, lo stesso can. Giovanni Spano e Giuseppe Luigi Delitala, e con loro dopo loro, l’insegnante bosano Battista Mocci, autentico apostolo della zona, e una decina almeno di esperti e meno esperti. Ne da conto riassuntivo, con una bella rappresentazione bibliografica, Attilio Mastino nel suo Cornus nella storia degli studi, uscito per i tipi cagliaritani di Gasperini nel 1979.
Va ulteriormente detto, riferendo di Ovidio Addis, che una sua nota, uscita sul fascicolo 25 (anno 1960) del Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo, offre minuzioso conto delle risultanze della campagna di scavo che, fra il 1955 ed il 1956, è stata promossa dalla ProLoco di Cuglieri e diretta soprattutto nell’area cimiteriale dal Demuro e da Pietro Pes (“Nota preventiva di Ovidio Addis sui primi rinvenimenti e rilievi di chiesa cimiteriale paleocristiana in Cornus”).
I rinvenimenti principali afferiscono agli edifici religiosi basilicali protocristiani, sorti proprio là dove si sarebbe svolta la battaglia finale fra la resistenza dei sardi, o sardi pelliti alleati dei cartaginesi, e l’invasione dei romani al tempo della seconda guerra punica, nel 215 a.C.
Le costruzioni cultuali riguardano essenzialmente due complessi affiancati e databili fra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Il primo, con sviluppo longitudinale ed abside orientata ad est, è articolato in tre navate colonnate, con il presbiterio che pare incunearsi nella parte centrale dell’aula. In esso è il seggio episcopale, nel quale potrebbe individuarsi la primissima dignità della diocesi di Senafer, poi Bosa, confortata da una interessante (e sia pure frammentaria) letteratura. Con diverso orientamento (questo verso occidente) e diverse caratteristiche interne è il secondo complesso, che mostra il presbiterio sopraelevato e fiancheggiato, secondo l’uso, da due simmetrici pastofori, a chiusura delle navate laterali. Centrale (e sostitutiva di una precedente esterna) è la vasca battesimale profonda quasi un metro, da ritenersi inizialmente coperta da un baldacchino.
E’ lo stesso Addis a relazionare, già a conclusione della prima campagna di scavo, circa i risultati della esplorazione con una relazione al XIII congresso di storia dell’Architettura, promossa nell’aprile 1963 dalla Regione Autonoma della Sardegna.
Ne riferisce, pubblicando larghi stralci della comunicazione, La Nuova Sardegna del 7 maggio 1963, nella pagina della cronaca oristanese: “Riportato alla luce presso Cornus un complesso edilizio paleocristiano”: «Il complesso paleocristiano di Cornus è da riferirsi allo stabilimento in area cimiteriale della prima comunità cristiana cittadina, già in fase evoluta. Lo scavo intanto ci ha permesso d’individuare una continuità edilizia con datazione relativa di buona approssimazione: dalla seconda metà del sec. III a tutto il sesto secolo. Il nucleo primitivo è un sepolcreto gentilizio intorno al quale venne impostata, durante la seconda metà del III secolo, un cimitero “metato”. Un “conditor” forse, il “domnaedius” del preesistente sepolcreto gentilizio, secondo la prassi, può aver messo a disposizione dei fratelli di fede l’area contigua di sua pertinenza, perché, isolati e immuni da contaminazione pagana, trovassero cristiana sinassi e sepoltura…».
Il testo completo (con il titolo “Il complesso paleocristiano di Cornus secondo i risultati di un recente scavo”) compare negli Atti congressuali, pubblicati dal romano Centro di Studi per la storia dell’Architettura però soltanto nel 1966, a quattro anni di distanza dagli esiti di quella esplorazione. Non hanno ribalta ufficiale, pertanto, gli esiti della seconda campagna eseguita in quello stesso lasso di tempo. Soltanto in parte lo stesso Addis ha potuto introdurre un aggiornamento: «Durante le more di stampa di questa comunicazione, una nuova campagna di ricerca archelogica condotta dall’agosto all’ottobre 1964 in Cornus (Regione Columbaris) consentì di allargare lo scavo e di confermare, in parte, la datazione e l’interpretazione della precedente scoperta, spostando, anzi, la continuità edilizia sino ai secoli VIII-IX. Fu scavata la gran basilica già individuata durante la prima campagna e, affiancata ad essa, venne alla luce altra aula basilicale con piscina battisteriale, balnea, confirmatorium e catecumeneo…».
Pur con tale lacuna, merita evidenziare comunque questo nuovo affaccio di livello scientifico (ed accademico) di Ovidio Addis che mostra piena consapevolezza dell’apporto originale da lui recato agli studi di archeologia cristiana e dello stesso più complessivo cristianesimo primitivo. Dalla sua relazione sarebbe forse di particolare interesse, al di là della specifica illustrazione delle conseguite acquisizioni materiali (pietre e incisioni), riprendere qui alcune più generali considerazioni storiche che, implicitamente, inquadrano l’originalità della nuova ricerca:
«L’archeologia cristiana ha, in Sardegna, ben povera tradizione e così anche la storiografia del Cristianesimo primitivo nell’Isola. Ci muoviamo in un campo press’a poco poco vergineo, comunque, non ancora sistematicamente considerato. Molti i punti interrogativi, molte le storture; pochi gli studi, scarse le ricerche, scarsa anche la documentazione nonostante una larga possibilità di rinvenimento.
«La storia del Cristianesimo primitivo sardo, che finora è piuttosto mutila cronaca, richiede – perché di storia si possa finalmente parlare – intensa revisione archeologica che ne riunisca i pezzi staccati, consenta valutazioni più conformi al vero e giustifichi ripensamenti di più largo significato. In particolare, gli scavi di ordine paleocristiano dischiudono, certamente, un mondo misterioso e singolare che conferma la persistenza dell’ultima romanità durante tutto l’Alto e Basso Medioevo, se è vero che la caduta dell’Impero Romano non ha trascinato con sé anche l’Isola dei Sardi, rimasta – così – immune da inquinazioni barbariche.
«E’ chiaro che lo scavo di Cornus sia della massima importanza ai fini della storiografia dei periodi imperiale e altomedioevale sardo e delle antichità cristiane in genere. E se pone i necessari problemi archeologici, ne investe anche molti altri di natura storica […]. I primi battisteri ci richiamano ad una sede vescovile e questa era sempre in un grande centro […]. E accanto ai vescovi dei grandi centri c’erano i coadiutori per l’amministrazione della chiesa, per il servizio del culto e per l’insegnamento della fede: i coepiscopi e, in seguito (bizantini) i corepiscopi o vescovi rurali, i preti presidenti e quelli itineranti, detti anche periodeuti.
«Per quanto riguarda Cornus, il problema è questo: Cornus era certamente sede episcopale: per la presenza in basilica del “soglio” – e bene in evidenza nel fondo dell’intradosso absidale – e per l’esistenza del battistero. Ma da quando? Se abbiamo come “terminus ad quem”, la cattedra nella basilica del V secolo, ci manca, o almeno è ancora molto debole, il “terminus a quo”…».
Va soggiunto che della sua seconda campagna Addis non farà in tempo, per l’insorta malattia e la morte prematura, a pubblicare il diario. Il che costituisce un grave handicap anche d’ordine umano e morale, se si considera che, dando alle stampe la sua relazione al congresso di Storia dell’Architettura, integrata come detto, egli conclude anticipando i programmi futuri: «Una terza campagna di scavo si proporrà di isolare completamente le due aule basilicali».
Fra micro e macro, i riflettori della geo-storia sanlurese
Del 1964 è la sua collaborazione all’impresa di studi e scrittura messa in piedi dal padre Francesco Colli Vignarelli, superiore degli scolopi di Sanluri e direttore, negli anni fra ’50 e ’60, dell’istituto scolastico medio del centro campidanese. Vivendo la realtà locale e amando gli archivi e la storia come luoghi capaci di biografare uomini e comunità, il religioso coinvolse una trentina e anche più fra studiosi di varia specializzazione e personalità esperte di questo o quell’aspetto della vita paesana, intendendo così esitare – dopo quelle del Ledda del 1884 e del Corona del 1905 – una monografia, approfondita e completa, su Sanluri, che sarebbe uscita con il titolo di Sanluri terra’e lori . Parteciparono storici e pubblicisti di nome come Alberto Boscolo e Francesco Alziator, Lorenzo Del Piano e Giovanni Lilliu, Gabriella Olla Repetto e Paolo Montaldo, Pietro Leo e Pasquale Marica, ed altri. Ovidio Addis con essi.
Questi lavorò su un capitolo non breve – una ventina di dense pagine – dal titolo forse troppo generale, “Sanluri e i sanluresi”, che gli permise però di non confinare le sue ricostruzioni a un periodo limitato, bensì di attraversare i secoli, molto centrando sull’era giudicale ma diffondendosi anche sul Settecento sabaudo e l’Ottocento modernizzatore soprattutto per lo sviluppo della viabilità e delle ferrovie: modernizzatore, va detto, non senza contraddizioni sociali però, a considerare la carestia degli anni ’40, la rivolta della fame (repressa col fuoco) di neppure mezzo secolo dopo.
Per raccontare Sanluri “gustata” tanto più – per l’amore da Addis portato alle vicende giudicali – nei secoli XIV e XV, quand’essa si poneva come «borgo di frontiera del Giudicato di Cagliari al confine con l’Arborea» ed era fortificata per le necessità militari, l’autore lavora su una bibliografia ampia: parte dal Fara e va al Tola, al Solmi ed al Besta, riparte dallo Spano ed arriva al Boscolo, e ancora compulsa il Baudi e lo Scano (lui sanlurese!), il Della Marmora ed il Pillito, Il Pinna ed il Bellieni, il Costa, il Ledda ed il Miglior, ecc., spaziando dalla De Chorographia Sardiniae al Codex Diplomaticus Sardiniae, dal Dizionario archivistico per la Sardegna a quello Geografico-Statistico-Commerciale del Casalis-Angius, dai saggi conferiti all’Archivio Storico Sardo ad altre trenta fonti bibliografiche disponibili.
E’ certamente attraverso i documenti ecclesiastici che si può ricostruire, per gran parte, la storia delle comunità anche isolane dei secoli passati, sicché Ovidio Addis – certo anche con i limiti degli studi datati cinquant’anni fa (ma, a compensare, forte… dei suoi scarponi esplorativi) – molto si addentra nella ricerca, fra nomi e numeri, a misurare la Sanluri storica, quella giudicale specialmente amata: «Sanluri era ai confini fra Arborea e Cagliari, certamente sin dalla originaria quadripartizione giudicale e, che così fosse, si rileva anche dalla divisione diocesana, se dobbiamo accogliere il principio per cui i limiti delle diocesi esterne coincidevano con i confini di Giudicato. Le ricerche sistematiche di topografia medioevale non sono, in Sardegna, molto curate, tuttavia alla luce dei documenti e con l’ausilio della toponomastica, in genere immutata, si possono agevolmente seguire sul terreno lunghi tratti di confine o larghe zone di territorio, sempre utilmente, per constatare l’esattezza dei dati storici noti e per chiarire situazioni ignorate…».
E ancora: «Per inquadrare meglio la funzione strategica di Sanluri come luogo fortificato di frontiera è, ora, necessario seguire e individuare, sul terreno, la linea di confine meridionale, attenendoci alle citate fonti. La linea di confine del giudicato di Cagliari con l’Arborea iniziava, a ponente, dal mare sulla costa di Buggerru; seguiva la zona montana fino alle cime di San Michele (S. Miali) e scendeva al Campidano, attraversando il territorio pedemontano posto fra Villacidro e Gonnos. Penetrava, poi, nella pianura sul corso del Rio d’Aletzia e ripiegava verso la zona intermedia fra S. Gavino e Sanluri. Quindi, volgendo ancora a settentrione, includeva nell’Arborea la Marmilla, Parte Valenza e Parte Usellus e nel Cagliaritano: la Curatoria di Nuraminis, la Trexenta, Seurgus, la Barbagia di Seulo […]. In questa sede, seguiamo la frontiera, partendo da Campo Linus, a sud-ovest di San Gavino, per entrare nell’agro sanlurese: con la scorta del diploma relativo alla delimitazione dei nuovi confini, imposti da Guglielmo di Massa a Ugone d’Arborea nel 1206. Siamo ancora sul confine naturale della quadripartizione originaria e dobbiamo seguirlo fino a Masone Justu (attuale Masoni nostu), punto da cui partirà la nuova demarcazione di accorciamento di confine per diritto di guerra…».
E più in là ulteriormente, colorando di umanità anche le regole della guerra e del dopoguerra, riferendosi al famoso castello: «Se il fortilizio, come pare, non era poderoso né troppo valido e se ad ogni assalto non tardava a capitolare, dobbiamo tener presente che l’alto prestigio d’Arborea aveva sempre conquistato l’animo delle popolazioni finitime: e per il suo buon diritto e per il fascino dei suoi stendardi, da sempre diventati simbolo nazionale di libertà e di indipendenza.
«Giovanni d’Aragona, a ritorsione del lealismo di Sanluri verso l’Arborea, negava al borgo le franchigie, già concesse da Mariano IV nel 1355 e confermate da Eleonora per altri dieci anni nel 1386, mentre era disposto ad accettarle per Iglesias. E ciò, quando la Giudicessa – a grato riconoscimento della lealtà dei Sanluresi – gliele proponeva come una delle condizioni di pace nell’atto del 1388. Inoltre Re Martino, per altrettanta ritorsione, non vi risparmiò nemmeno le donne ed i bambini, quando Sanluri, che aveva seguito le sorti arborensi del Visconte di Narbona e di Brancaleone Doria, fu costretta a capitolare, nel 1409, alle forze catalane».
Sono qui le pagine più belle ed avvincenti, anche sotto il profilo prettamente letterario, di Ovidio Addis. La storia sembra raccontata dal di dentro del suo svolgimento per la passione rivelata dai suoi protagonisti, ma naturalmente sempre con l’occhio vigile e distaccato, o meglio con lo sguardo lungo di chi non può farsi imprigionare dalle sue personali simpatie…
Il sentimento dell’autore può invece legittimamente palesarsi nelle ultime righe del suo lungo scritto, dopo aver detto dell’ingiusto processo del 1883: «La “ferrovia” continuava intanto ogni giorno a passare: pochi emigrarono (1870-1914), molti andarono alle troppe guerre (1911-1945). Tuttavia, i Sanluresi […], che dalla storia e dalla zolla ebbero il buon senso della vita, la pazienza e il gusto della libertà, superarono ogni avversità. Ancora oggi, del resto, nonostante tutte le crisi, nonostante la grandine, il levante e le cavallette, i contributi diluiti e unificati, essi motteggiano ancora, ma continuano a credere nella buona terra».
Notazione finale. Nella bibliografia a corredo del capitolo non rinuncia, Addis, a richiamare anche alcuni suoi contributi particolari, implicitamente evidenziando meriti che l’avarizia dell’accademia forse non sempre gli ha riconosciuto: ricorda così il suo saggio conferito nel 1957 all’Archivio Storico Sardo (“Un sarcofago giudicale arborense”); ricorda di aver pubblicato, nel 1958, in un articolo apparso su L’Unione Sarda, la «Mappa diocesana presentata da Mons. Nicolò Maurizio Fontana arcivescovo di Oristano e allegata al fascicolo delle Relazioni diocesane arborensi del 1745, esistenti presso lo Archivio della S. Congregazione del Concilio»; ricorda ancora, citando un contributo del professor Boscolo circa le rendite ecclesiastiche cagliaritane (inclusive di quelle sanluresi) nel primo periodo aragonese, che «La copia originale sta in Biblioteca Addis, Seneghe». Giusta rivendicazione.
La polemica sui borchioni oristanesi
Parte nel 1964 e s’addensa, e finisce, due anni dopo, alla vigilia della morte, una vivace polemica, senza esclusione di colpi, che oppone il Nostro al canonico oristanese Raimondo Bonu, autore di numerose ed apprezzate monografie, taluna di taglio biografico altre sinottiche generali sui territori isolani.
Tutto inizia con un corposo saggio di Addis pubblicato dal vol. XXIX (1964) di Archivio Storico Sardo dal titolo “I borchioni bronzei del duomo di Oristano”. La loro datazione anticipa o arretra, a effetto domino, tutta una serie di accadimenti e di titolarità giudicali e vescovili, per il che l’autore ritiene di dover riordinare fissando il punto di partenza nella effettiva incisione sui dischi bronzei binati custoditi, al tempo dello studio, nell’aula capitolare della cattedrale oristanese.
Questo è il discrimine. Alle contestazioni del can. Bonu egli replica, e la querelle, come detto, si sviluppa nell’arco lungo di quasi due anni, concentrandosi, nella parte pubblica ed acuta, in due mesi di fuoco, strani e straordinari sol che si pensi alla malattia in precipitoso aggravamento, in quello stesso novero di settimane, di Addis presto ricoverato in ospedale.
E’ soprattutto la terza pagina de La Nuova Sardegna ad ospitare la tenzone. L’accostamento alle tesi del Bonu di un intellettuale di prestigio e rispettato quale è Filippo Addis, particolarmente noto nell’area sassarese/gallurese e collaboratore storico del quotidiano già frumentario, aggiunge nuovi elementi alla polemica, che sembra di collocarne o scovarne di ulteriori anche in un’altra pubblicazione: in quel Foresadu e Gosinu (tra Terrazzani e Cittadini di Sardegna) del Bonu uscito per i tipi di Fossataro editore nel 1965 e recensito ottimamente, appunto, da Filippo Addis.
Sembra opportuno elencare i vari tempi di questo scontro dialettico, sì acceso ed anche aspro con i suoi scambievoli sarcasmi, ma certamente poggiato su una solida base culturale in ambe le parti.
Già su Vita Nostra, il settimanale della diocesi di Oristano, monsignor Bonu ha trattato il tema, sostenendo – sul numero del 5 maggio 1963 – la propria tesi circa la datazione al 1228 (“Due borchie medievali del duomo di Oristano”).
Questo articolo è importante perché da la notizia, fra l’altro, di un intervento di Ovidio Addis, menzionato come «socio» degli Studi Arborensi, presso la Biblioteca comunale di Oristano, il 18 aprile 1963. Egli parlò allora «delle due borchie appartenenti a quella che fu la cattedrale romanica di “Santa Maria de Aristanis”, oggi Duomo di Oristano», sostenendo tesi contrastate dall’autore dell’articolo. Il quale ancora lo richiama, diminuendolo, in un altro passo del suo scritto: «Quasi sei anni orsono un dilettante di storia oristanese pubblicò un sedicesimo di stampa, assegnando alle borchie non il suddetto anno 1228, ma il 1278, perché […] non [gli] risultava che giudice e arcivescovo arborensi del 1228 fossero rispettivamente Mariano (di Torres) e Torgotorio (de Muru) mentre per il 1268 figuravano in Oristano il giudice Mariano II e l’arcivescovo Torgotorio Cocco».
E poi ancora, con altri fendenti almeno di fioretto se non di sciabola: «… notai all’amico del sedicesimo di stampa…», «… proposi all’amico che desse lo scritto alle stampe e mandasse poi l’opuscolo al prof. Alberto Boscolo…», «… il relatore disse che dallo Spano in poi “tutti” avevano errato…».
Gli argomenti di Ovidio Addis sono espressi, con abbondanza anche di riflessioni a latere e discendenti, sull’annale XXIX, appunto del 1964, della Deputazione di Storia Patria.
L’uscita in volume di una raccolta di scritti miscellanei del canonico, dal richiamato titolo di Foresadu e Gosinu, l’anno successivo, rilancia la tesi 1228 ma ancor più la stroncatura di quella sostenuta dallo studioso teuladino-seneghese dato il commento che Filippo Addis ha firmato, recensendo il volume, su La Nuova Sardegna del 7 maggio 1966 (“Massime universali” infra “L’intensa e degna vita di un insigne fisiologo, altri personaggi, paesi sardi, e motivi di massime”).
Breve parentesi, ma interessante per il riferimento al professor Boscolo. Questi aveva recensito, sul numero di luglio-agosto del 1956 (!) di S’ischiglia, una monografia sul giudicato d’Arborea che, a firma di Felice Cherchi Paba, era apparsa nella serie di quaderni storici dedicati al territorio di Oristano. Nel mezzo, anche la questione dei battenti duomali. Scriveva Boscolo: «In due picchiotti, che si conservano ancora nella Cattedrale, è ricordata l’opera di Torchitorio con le seguenti iscrizioni, già edite […] e riportate ora dall’A. con un nuovo studio […]. L’A. ritiene che il modellatore dei picchiotti abbia commesso un errore nella datazione ed al posto di una L abbia messo una X e che la data dell’opera sia quella del MCCLXVIII, corrispondente ad un anno di regno di Mariano II d’Arborea (1265-1297): arriva a tale conclusione dopo aver considerato che nel 1228 un Giudice Mariano non reggeva l’Arborea. La datazione è invece esatta; nel 1228 erano condomini nell’Arborea tre Giudici, Guglielmo II di Massa, alla cui famiglia è legato lo stemma dell’albero sradicato, emblema del Giudicato di Arborea, Pietro II di Bas e Mariano II di Torres. Già nel 1224 Mariano II di Torres si intitolava Giudice di Arborea; nello stesso anno prometteva al Comune di Genova, in contrapposizione a Pisa, cento libbre di genovini all’anno se avesse conquistato quella parte del Giudicato, che gli spettava di diritto e che era stata di Ugone I de Bas, suo fratello […]. Nel 1228 egli aveva già acquisito il territorio ed esercitava poteri giudicali, talvolta direttamente , talvolta servendosi di giudici di fatto, accanto agli altri condomini, e tanto nel 1228 quanto nel 1229 risultava presente nell’Arborea tanto da testimoniare in atti pubblici accanto all’arcivescovo Torchitorio […], il quale, abilissimo, otteneva dai tre condomini appoggio e protezione per la sua chiesa e per la sua archidiocesi».
Ecco così il ping pong fra le due parti in rapida successione di colpi alternati: il 3 e 4 giugno 1966, “Per i borchioni del Duomo fierissima polemica (Nota di Ovidio Addis a Raimondo Bonu e Filippo Addis)”; il 7 giugno, “A Ovidio Addis, Filippo Addis”; il 21 giugno, “Borchie, borchioni e picchiotti del Duomo di Oristano: una polemica” a firma di Raimondo Bonu; il 3 luglio, “Forse verso la conclusione la polemica dei borchioni: ma diventa quasi una sfida” siglato nuovamente da Ovidio Addis.
Per una rapida ma non superficiale rilettura della polemica di stampa si potrebbe dunque partire dal saggio del 1964. Descritta minuziosamente la fattura dei due dischi binati con «al centro in altorilievo, protomi leonine dalle cui fauci, aperte con lingua sventolante, pendono tortili anelloni in funzione di battocchio e di maniglia (l’ansa romana) o, meglio, di battente circolare a campanella, aventi valore decorativo», l’autore va al cuore del problema: «Il disco non datato, […] ricorda soltanto l’arcivescovo e sembra fuso in un primo tempo; l’altro – il datato – condotto con maggior impegno e ricercatezza, dedica l’opera a Dio, alla Vergine, al Giudice Mariano; ricorda l’autore e pare opera successiva. Tuttavia, uno si riferisce all’altro: “Nos fecit fieri e nos fecit”; Torgotorio ci “fece fare” e Piacentino ci “fece”. Rimasero in opera, probabilmente, fino ai grandi lavori di restauro e di trasformazione del 1733, quando quasi tutto dell’antica cattedrale, anche la porta, venne sostituito».
Al fine di correttamente datare le due piastre metalliche (eseguite «con più vigoroso senso plastico e su disegno più energico senza manieratura») Addis si diffonde ad inquadrare «meglio nel tempo e nelle categorie delle antichità medievali» i particolari stilistici come si rilevano già ad un immediato colpo d’occhio. La disamina è qui molto approfondita, sostenuta anche da un ampio corredo bibliografico che allarga la scena dalla Sardegna all’Italia continentale e all’Europa, fino poi a tentare di qualificare, svincolandolo da possibili omonimi – Placentino cioè – l’artigiano autore dei borchioni.
Giunge quindi, Addis, a ricordare l’interesse mostrato per questi ultimi dal can. Spano, che ne scrisse nel 1864 e non ebbe dubbio datarli al 1228 («… Placentinus nos fecit et coperturam MCCXXVIII») contestualizzandoli al tempo dei richiamati giudice Mariano e vescovo Torgotorio. Così dallo Spano in qua, tutti gli studiosi (fino al Bonu autore dello studio Serie cronologica degli arcivescovi di Oristano: da documenti editi e inediti, 1959) si sono allineati a quella lettura. Che invece ora egli contesta rileggendo 1278 e individuando nel giudice e nell’arcivescovo personalità altre…
Ecco venire allora, pungente ancorché indiretto, l’appunto anche di Filippo Addis nella terza e ultima puntata del suo “viaggio” lungo complessivamente… 19 colonne di piombo – quelle del giornale sassarese – a commento di Foresadu e Gosinu del can. Bonu. L’interesse della questione delle «borchie medievali», secondo lo scrittore di Luras, sarebbe «sì, nell’aver assodato, con rigore storico, che le due borchie, “due gioielli in bronzo”, furono fuse nel 1228, non già nel 1278, ma risiede, non meno, in alcune massime di valore universale che ne scaturiscono: 1) “La storia è fatta d’avvenimenti reali, non immaginari” (p. 96); 2) “E’ lapalissiano che un morto non possa ordinare borchie” (p. 97); 3) Scrittura bustrofedica o scrittura lineare B dell’eteocretese?
«All’ameno quesito, in cui è implicita la terza massima, si potrebbe rispondere con lugubre sufficienza: – Non metter bocca dove men ti tocca! – , ignorando, di proposito, lo spocchioso “Ne, sutor, ultra crepidam: Calzolaio, tienti alla scarpa!” che, mentre ti rimbrotta l’arzillo e scanzonato ciabattino, smilzo come la sua lesina, ti risparmia il ciabattone e il pantolofalio, pieni di grascia, di sonno e di calli…».
Così provocato ecco, da parte dell’accusato, una lunghissima replica, che il giornale divide in due parti (il 3 e 4 giugno). Tanta lunghezza per entrare nel merito di molti aspetti della vita arborense del XIII secolo, non soltanto della dinastia. Con una conclusione che è comunque di apertura dialogica: «invito il prof. Bonu a discutere la questione della sede più adatta: nel Centro Studi Arborensi, nato per raddirizzare anche altre storture, di quelle di cui la storiologia arborense è piena. E non se ne adonti come fanno i bambini».
E’ in questo contesto che il lavoro “di sponda” di Filippo Addis prosegue, ma interamente a latere della questione storica di cui si dibatte, e cioè per finezze letterarie («Io, pur non essendo né parente né affine di Pilato, non potevo che lavarmene le mani: non potevo, meglio, che starmene alla finestra, intento a scandagliare se almeno la massima manzoniana sulla ragione o sul torto, messa alla prova, rivesta carattere universale o municipale»). Da lì comunque verranno al competitor nuovi e ultimi, estremi motivi di replicare. Appunto allo scrittore suo omonimo e ancora al Bonu intervenuto anche lui, in prima persona, su La Nuova con argomenti e, anche lui, con… veleni dialettici: «Nella conclusione del suo scritto pubblicato in questo giornale, il contraddittore mi… raccomanda di non fare come i “bambini”. Quello lì non è riuscito ancora a capire che deve restare nel suo ambiente, tra suoi alunni, autentici “bambini” delle scuole elementari».
L’ultima battuta ce l’ha Ovidio Addis. E’ già cominciato luglio. Il maestro-dottore di Teulada trapiantato a Seneghe, l’archeologo campione di Cornus e lo storico medievista-giudicale, il ricercatore e organizzatore di cultura, l’uomo di impegno civile e politico, il sindaco di Seneghe ha davanti a sé ancora cento giorni, soltanto cento giorni, di vita. E’ malato gravemente, presto un estremo ricovero lo sottrarrà anche ai suoi libri, ai suoi faldoni con pergamene e documenti che raccontano storie lontane, le storie della storia. Ma pur in questa condizione di debolezza fisica, egli non vuole mancare di fornire la sua estrema testimonianza circa le risultanze delle sue letture critiche di carte e oggetti-prova delle vicende remote della sua amata Sardegna e del suo amatissimo giudicato perduto.
Prende atto che il Bonu non intende confrontarsi più con lui, e se ne dispiace. Come si dispiace della parte avuta da Filippo Addis, un letterato che stima. Le sue ultime battute, uscendo anche dal merito della contesa, li riguarda personalmente. Scrive, partendo dal canonico: «Comunque sia, dalle colonne di questo giornale l’invito respinto diventa una sfida a discutere la questione pubblicamente oppure a porte chiuse. Come preferisce. In considerazione poi della sua tendenza a cercar consensi e buon compagnia, è libero di farsi assistere o anche sostituire da prelati, dai colori più vivaci dei suoi, oppure da accademici con o senza toga, con o senza ermellino. Io sarò puntuale, solo e col solo mio sillabario.
«Ripeto, questa è una sfida, e quando egli non l’avrà accettata, tutte le volte che mi capiterà di sentire o leggere il suo nome, saprò cosa pensare.
«Dette queste cose, desidero tornare alla consueta serenità e alla abituale cordialità, magari portandomi sotto le finestre di Filippo Addis dove, a ragione, si asciuga ancora le mani al bel sole di giugno.
«Insieme alla mia stima e al mio rispetto vorrei offrirgli un estratto dalle Nuvole di Aristofane: il Discorso del giusto e il Discorso dell’ingiusto (VV. 898-955), che Aristofane più che Manzoni rivelerà quanto egli cerca sulla ragione e sul torto. Sui particolari dei caratteri universali e municipali poi ricordo che Miguel de Unamuno, il filosofo senza paura, come di lui scriveva Papini, ne trattò in Vida de don Quijote y Sancho e più tardi in Del sentimento tragico de la vida.
«Prima di finire faccio voti cordiali perché Filippo Addis in una prossima edizione de Le bestie dei miei amici riservi un racconto a ricordo di questo bisticcio: fra bipedi o fra quadrupedi. A sua scelta. Dopo aver scandagliato ben bene Aristofane, Manzoni, De Unamuno, le borchie e i borchioni».
Tracce delle sue fatiche di studio
Negli anni ’60 Ovidio Addis riesce a dare il meglio di sé nella predicazione, morale e sapiente, che spiega ai sardi molto della storia della loro terra e fa loro comprendere l’unicum costituito dall’Isola: una originalità da conoscere e difendere ma non da rinchiudere nelle secche miserabili dell’isolazionismo e dell’autoreferenzialità. La militanza nel Partito Sardo d’Azione in anni in cui il partito è alleato e quasi federato ad una formazione di cultura democratica europea quale è il Partito Repubblicano Italiano, e la militanza nella Massoneria che ha, per statuto e storia, una vocazione internazionale o planetaria, segnalano questo tratto dialogico per lui essenziale.
Si vedranno più in là questi due ambiti di partecipazione associativa di Ovidio Addis, nel segno dei valori universali in cui la sardità e, se si vuole, il sardismo riversano la propria originalità per arricchire non per soffocarne.
Ancora sotto il profilo delle sue fatiche prettamente culturali, queste più specificamente etno-musicali, sembra degna di nota la partecipazione di Addis, nella primavera del 1966, ad una trasmissione di Radio Cagliari sui canti del Montiferru. Le registrazioni erano state effettuate un decennio prima, nel 1956, da lui con Nicola Valle, musicista egli stesso e fondatore-presidente della cagliaritana associazione Amici del libro nel quadro di un censimento del ricchissimo patrimonio musicale sardo. Le piazze coinvolte erano state allora diverse, partendo da Seneghe e Cuglieri, per arrivare ad Aidomaggiore, a Santu Lussurgiu, a Bosa perfino…
Del marzo dello stesso anno è una intervista ad un giornalista di una testata settimanale di grande tiratura nazionale – il periodico Oggi – cui confida la sua fatica quotidiana per corrispondere al dovere pubblico. E’ già malato ed è prossimo a trasferirsi a Cagliari, ai piedi quasi di Monte Urpinu (nel nuovo quartiere San Giuliano-Genneruxi) per accompagnare i figli più grandi negli impegni universitari, non volendo far perdere loro il sostegno, discreto ma sostanziale e rassicurante, familiare. Nel capoluogo trasferirà anche la biblioteca e l’archivio-deposito o custodia delle preziose unità molte volte centenarie, più spesso rare, talvolta uniche nei repertori. La casa sarà una biblioteca-archivio, i suoi abitanti ne saranno i guardiani, anzi i sorveglianti, i sacerdoti. Perché quelle carte, quelle migliaia e migliaia di fogli che raccontano singolarmente la nostra storia, sono ciascuno un affaccio nel tempo che fu, ed impongono un faccia a faccia con chi ci ha preceduti e preparato il terreno. La pedagogia di Ovidio Addis in fondo a questo ha sempre voluto dar corpo: alla consapevolezza della importanza del passato per capire il presente e costruire responsabilmente il futuro. Una missione che deve compiersi con gradualità ma senza posa, percependo le complessità della storia, i nessi e le relazioni fra luoghi fisici e luoghi ideali diversi, fra le sedi del potere e quelle della ferialità popolare, fra la Chiesa e la politica o la società nelle sue articolazioni e sedimentazioni. La custodia delle prove del vissuto delle generazioni è, da questo punto di vista, un servizio che ha in sé un qualcosa di religioso, di oblativo in assoluto.
In collegamento con l’Università del capoluogo e gli storici suoi amici, anziani e giovani come Boscolo e Casula, cerca di dare il suo contributo al Centro Studi Arborensi preparando – ricorda ancora la Valdès, sulla scorta degli appunti personali e di famiglia – «un imponente ciclo di conferenze settimanali su archeologia cristiana, storia del Cristianesimo e storia della liturgia».
L’ultima stagione di vita
I malesseri di mesi esplodono nell’estate 1966, appunto alla vigilia del trasferimento nel capoluogo. Viene il ricovero alla clinica Sant’Antonio. Viene presto la morte. Ma, si ricorderà – segno anche questo dello spessore etico-civile di Ovidio Addis –, pur dalla sua camera di ricovero egli non manca, collegato telefonicamente, ad una tornata del Consiglio comunale di Seneghe convocata dal suo vice. E’ una testimonianza ed un congedo insieme.
I necrologi pubblicati su L’Unione Sarda del 22, 24 e 25 ottobre hanno il respiro affannato del dolore per la perdita. Sono privati, amici e sono pubbliche istituzioni – il Comune di Seneghe, quello di Teulada –, l’Istituto di storia medievale e moderna dell’Università, il Centro Studi Arborensi, «gli allievi che lo ebbero Maestro, Amico e Fratello» e la scuola media di Seneghe, la sezione sardista dello stesso paese, Giovanni Battista Melis, parlamentare sardista del gruppo repubblicano alla Camera, gli amici della corrente di Democrazia sardista e del PRI come Armandino Corona e Lello Puddu,Francesco Cesare Casula e Francesco Frongia, Alberto Boscolo e Tonino Uras, Peppino Puligheddu e Vincenzo Racugno, Nino Ruju e Marcello Tuveri, Tore Casu e Giovanni Maccioni, Sergio Bellisai e Giampaolo Buccellato, Nino Porcu e Salvatore Bullita, Gianni Scampuddu e Virgilio Utzeri, i quali tutti onorano il «cuore nobilissimo», l’«insigne studioso», il «sardista e democratico fervente», l’«uomo libero»…
Primo focus. Addis e il sardismo
Ha scritto Alberto Medda Costella: «Come Senes, Addis appartiene alla stagione che vede uniti sardisti e repubblicani un una militanza comune in molte battaglie politiche e durante le elezioni. Addis non fece in tempo a misurarsi con la tormenta della scissione della fine degli anni Sessanta. Morì un anno prima della separazione in casa sardista. Nel gennaio 1966 aveva però firmato la mozione di “Democrazia sardista” che al congresso provinciale di Cagliari era stata proposta, riuscendo soccombente, da quella parte di dirigenza che sarebbe stata protagonista della rottura e della successiva confluenza nel PRI».
Gli scavi negli archivi del Partito Sardo d’Azione effettuati da Salvatore Cubeddu per i suoi due volumi di Sardisti, viaggio nel Partito Sardo d’Azione tra cronaca e storia: documenti, testimonianze, dati e commenti, usciti per i tipi della Edes a cura della Fondazione Sardinia nel 1993 e 1995, hanno ben portato in emersione anche qualche carta riguardante l’Addis politico, pur se va detto che il grosso della sua partecipazione alle vicende della politica è limitato alle attività amministrative locali, in quel di Seneghe, ed alla disponibilità offerta in ripetute occasioni alla candidatura come… portatore d’acqua (cioè di voti) ai vari turni elettorali.
Si ritrova il suo nome fra i fiduciari del partito censiti, zona per zona, nel 1956, in una fase del tentativo di riorganizzazione del PSd’A destinato però a non dare risultato. Così ancora è segnalato fra i partecipanti al convegno degli amministratori locali dello stesso Partito Sardo svoltosi a Cagliari nel gennaio 1961: per Seneghe eccolo assieme a Salvatore (Boricu) Pili, a Salvatore (anche lui Boricu) ed Raimondo Catzeddu, a Salvatore (Boricheddu) Trogu, a Vatino Feurra, a Franco Mastinu.
Egli figura quindi ripetutamente, come detto, fra i candidati alle elezioni sia regionali che parlamentari. Eccolo nella lista del collegio di Cagliari per il rinnovo del Consiglio regionale del 1957, così come per quelli del 1961 e del 1965; eccolo presente anche alle politiche del 1963 nella lista repubblicana. La conta dei voti nelle urne non è mai generosa quanto il candidato meriterebbe – sfociando cioè nella sua elezione –, per quanto vada rilevato che la performance sia sempre, nel quadro complessivo della lista dei Quattro Mori, ragguardevole. Se manca il dettaglio del 1957 (quando comunque vale considerare il risultato particolare di Seneghe, che vede il PSd’A raddoppiare i consensi – 316 contro i 145 precedenti – e attestarsi intorno al 20 per cento del totale espresso dagli elettori locali), dicono molto i dati del 1961 e del 1965. Le preferenze totali che, a livello di collegio, premiano Ovidio Addis assommano rispettivamente a 2.349 e a 2.173. Si tratta, in sé presi, di ottimi risultati: la prima volta egli si classifica al 4° posto, la seconda volta al 5° sui trentanove nominativi della lista. Entrambe le volte gli eletti sardisti sono due (Pietro Melis e Piero Soggiu nel 1961, Pietro Melis e Carlo Sanna nel 1965) ed il suo piazzamento, più che onorevole, è quindi quello del 2° e 3° dei non eletti.
Meriterebbe anche rilevare che il riscontro di stima è piuttosto diffuso sul territorio, anche se è sull’Oristanese ed il Montiferru che, ovviamente, si concentra la maggioranza delle preferenze. Colpisce, in questo senso, che il successo sia marcato anche in Oristano città: 176 voti nel 1965, terzo piazzamento dopo Virgilio Utzeri e Piero Soggiu leader storico. Straordinario, nello stesso anno, l’esito delle urne seneghesi, che al Partito Sardo ed a lui danno quasi il 40 per cento dei consensi.
Anche alle politiche dell’aprile 1963, quando i sardisti si presentano in una lista Edera, associati ai repubblicani alla cui storia ideale e politica essi sono, in verità, uniti fin dalla fondazione del partito (nel 1921 fu il repubblicano oristanese Agostino Senes a candidarsi lui nella lista del PSd’A!), il risultato di Ovidio Addis in termini di preferenze è più che apprezzabile. Con maggior evidenza nel centro-meridione dell’Isola il suo piazzamento nella graduatoria di preferenze ai candidati sardisti è egregio. Sono ben 1.400 i suffragi da lui raccolti in provincia di Cagliari: ciò significa il terzo posto, dopo l’eletto Giovanni Battista Melis (che grazie ai resti continentali delle altre liste dell’Edera tornerà a Montecitorio iscrivendosi al gruppo repubblicano presieduto da Ugo La Malfa) e dopo Carlo Sanna (prossimo consigliere regionale), e prima di uomini di grande futuro come Armando Corona. Nel capoluogo i consensi attorno al suo nome sono 130, che lo confermano nelle alte posizioni, e ad Oristano 153, collocandolo secondo dopo il capolista.
E’ alle amministrative del 1964 che le urne premiano, con l’elezione raggiunta, i valori offerti al giudizio popolare. La lista sardista guidata da Ovidio Addis raccoglie la maggioranza dei voti ed elegge dodici consiglieri (contro i tre della DC), realizzando in Comune, finalmente, il ricambio della rappresentanza finora di prevalente marca democristiana. Con il capolista sono Salvatore e Raimondo Catzeddu, Sebastiano Crobe, Vatino Feurra, Emilio Lucchesu, Demetrio Illotto, Mario Molotzu, Franco Mastinu, Antonio Cubeddu, Salvatore Pili, Salvatore (Boricheddu) Trogu. La giunta, eletta a metà dicembre, assiocia ad Addis sindaco gli assessori Lucchesu, Pili, Molotzu e Salvatore Catzeddu, i primi due come effettivi, gli altri come supplenti.
E’, per Addis, l’esordio nella politica, ancorché amministrativa, da protagonista. (Nello stesso anno ad Oristano esordisce in Consiglio comunale, per il PSd’A, l’avvocato Tonino Uras unito ad Addis da uno speciale rapporto di colleganza ed amicizia: il che, combinato ad altre circostanze, fa pensare che la rottura interna al partito avrebbe visto coinvolto, ove fosse vissuto, anche il maestro-archeologo e storico, ora anche sindaco di un Municipio distinguibile, per virtù proprie, fra i tanti del Montiferru e dell’Oristanese…).
Politicamente più definita è la sua figura alla metà degli anni ’60, tanto più nel 1966, che però è anche l’anno della sua malattia e della morte che ne consegue.
Al congresso provinciale di Cagliari dei Quattro Mori in svolgimento a fine gennaio nei locali della Fiera, nel capoluogo, egli è fra i sottoscrittori della mozione cosiddetta di Democrazia sardista presentata dalla minoranza facente capo all’uscente segretario Armando Corona. Essa è firmata, in larga maggioranza, da esponenti che l’anno successivo radicalizzeranno il confronto interno, anche e soprattutto in ordine alla proposta indipendentista avanzata da molti sardisti del Sassarese, e che usciranno definitivamente dal PSd’A nel 1968 per confluire quindi nel Partito Repubblicano Italiano: così, oltre a Corona, Marcello Tuveri, Vincenzo Racugno, Tonino Uras, ecc.
Ferma l’adesione, pur critica, alla linea del centro-sinistra – a Roma siede il governo di Aldo Moro, a Cagliari quello di Efisio Corrias –, molto del dibattito si svolge intorno a un miglioramento dei canali democratici interni del partito. I potentati elettorali (e clientelari) polarizzano la vita del PSd’A e chi ne è escluso comprensibilmente recalcitra. Né forse bastano le modifiche organizzative che si prospettano con l’articolazione della federazione provinciale di Cagliari in tre aree territoriali con direttivi autonomi: nel Campidano di Cagliari, nel Sulcis-Iglesiente e nell’Oristanese. Si vorrebbe strutturare una corrente d’opinione interna, dialetticamente propulsiva. La proposta non avrà però successo.
La componente Corona, alla quale aderisce anche Addis, raccoglie 1.275 voti congressuali contro i 3.225 della maggioranza, e piazza cinque suoi uomini nel nuovo (provvisorio) direttivo integralmente provinciale: fra essi è proprio Ovidio Addis al quale s’uniscono Marcello Tuveri, Tonino Uras, Italo Ortu e Sergio Bellisai.
In realtà, i crescenti impegni di lavoro e studio e quelli in Comune, giusto quando declina la salute, non consentiranno al Nostro di riversare, come pur vorrebbe, grandi energie nelle strette attività del partito. Poi la fine.
Al mesto exit dell’ottobre il concorso del dolore dei sardisti, non importa qui la corrente, è vasto, anzi unanime. Il nuovo Solco, organo del partito, in uno dei pochi numeri usciti nel periodo – qui si tratta di quello datato 1° novembre – reca un bel ritratto, non firmato, dal titolo “Seneghe. Ovidio Addis, ricordo di un sardista”. Eccone il testo integrale.
Il cordoglio dei sardisti per la morte di un Alfiere
«E’ adesso che non c’è più che conosciamo il valore e l’importanza di averlo avuto amico e di essergli stati amici. Se si dovesse racchiudere e distillare da tutta la sua vita una sola parola, questa sarebbe “generosità”, una generosità portata in massimo grado.
«Raccontava che da ragazzo aveva cominciato ad appassionarsi ai libri che parlavano della Sardegna, che aveva cominciato a raccoglierli. Oggi lascia agli studiosi una preziosissima biblioteca con manoscritti di immenso valore, libri rari e testimonianze fondamentali per la ricostruzione storica.
«Ma il mondo del sapere e dell’arte gli devono molto di più: Ovidio Addis scoprì, qualche anno fa, l’unico rimedio contro le termiti, che distruggono libri e opere in legno, che minano scaffali e biblioteche e statue antiche. E volle mettere a disposizione gratuitamente il suo preparato che avrebbe potuto vendere invece a peso d’oro e che gli avrebbe consentito quella ricchezza che, invece, amò sempre rifiutare per una vita modesta e contadina.
«Laureato in lettere, uno dei pochi diplomati all’Accademia Vaticana in Archeologia Cristiana, preferì essere umile maestro elementare. A Lui si deve la scoperta di Cornus e i primi scavi fatti vivendo in tende e sacrificando i propri denari. Se la morte gli avesse dato ancora tempo, avrebbe portato a compimento altre ricerche che promettevano risultati sbalorditivi, per la scienza e per l’umanità.
«Ovidio Addis archeologo insigne, insegnante e maestro di vita della gioventù che formava e plasmava coll’altezza dell’ingegno e della cultura, nella formazione maestra del carattere, della dignità, nella coscienza dei grandi temi umani della giustizia e della libertà, era per ciò stesso, per istinto e per convinzione, un generoso combattente di prima linea per la difesa ed il progresso della Piccola Patria Sarda.
«Dall’adolescenza nel periodo dei primi studi, durante la guerra richiamato sotto le armi, questi Ideali sentì profondamente: fu antifascista, come sardista, fondendo insieme l’ansia del riscatto dei sardi coll’avversione alla tirannide.
«Perciò fu sempre presente nelle candidature per le elezioni politiche nazionali e regionali con la dedizione più pura e fervida, validamente ansioso di contribuire all’affermazione delle liste dei Quattro Mori, simbolo della Rinascita nell’unità dei Sardi.
«Vittorioso alla testa della lista Sardista di Seneghe, divenne Sindaco elevando la più alta cattedra di dignità morale, di civismo per il pubblico bene, servito senza faziosità, come l’Uomo che, nell’abnegazione, si era posto al servizio e per il bene di tutti. Fino all’ultimo momento, col corpo straziato da un anno dalla malattia mortale che non dava tregua, Ovidio Addis, da un ufficio all’altro, ricordava agli amministratori regionali i problemi di Seneghe, della zona, li risolveva col prestigio della Sua luminosa figura, convocava il Consiglio e ne diresse una seduta per collegamento telefonico dal suo letto di moribondo alla sala delle sedute intessendo in una fusione mirabile di spirito e di problemi concreti quella rete di comunione tra cittadini ed amministratori che, nella sua persona, esprimeva una sintesi perfetta, esemplare, insuperabile.
«Questo è l’uomo che il Partito Sardo d’Azione ha perduto, questo è il retaggio che Ovidio Addis ci ha lasciato, come un esempio a cui tutti dovremo guardare sempre. Ognuno di noi, con puro amore deve serrare nel cuore il ricordo imperituro, devoto, grato per far sempre più forte la volontà di reggere nella lotta, “la Sua lotta”».
Secondo focus. Addis e la Massoneria
La sua vita massonica si può sintetizzare, in quanto al calendario, così: iniziato, unitamente al giovane Leandro Floris, il 23 marzo 1952; passato con altri della sua loggia Libertà e Lavoro all’Oriente di Oristano, all’abbattimento delle Colonne di questa, avvenuta nel 1956, o forse successivamente, alla sassarese Gio.Maria Angioy n. 355, in una sorta di “parcheggio” puramente formale in attesa di tempi migliori. Rientrato alla Libertà e Lavoro, in un ripristino della sua officina d’origine deliberato dal Gran Maestro Gamberini che autorizza anche lo stesso numero d’ordine – il 451 (secondo il censimento operato nel 1947) –, il 9 giugno 1964, e qui militante sino alla fine.
Si possono fornire alcuni dettagli per meglio inquadrare i vari passaggi e in generale questa militanza.
Oristano aveva avuto la sua prima loggia massonica alla metà degli anni ’60 dell’Ottocento. Figura eminente della compagine, ispirata sembrerebbe dal Venerabile della apripista loggia cagliaritana Vittoria, vale a dire il magistrato Francesco Pietro De Lachenal, il futuro sindaco, poi deputato e senatore, Salvatore Parpaglia (cui sarà intitolata, nel secondo dopoguerra del Novecento, la piccola formazione massonica di Bosa).
Quella ottocentesca oristanese prendeva il titolo da una delle grandi personalità della storia giudicale arborense, da quel Mariano IV che fu padre di Eleonora sovrana e legislatrice. In quel tempo l’intera intellettualità sarda, e quella massonica non fece eccezione, cadde nell’imbroglio delle cosiddette Carte d’Arborea, tendenti a dare luce di progresso civile e culturale all’alto medioevo sardo, o quanto meno ai secoli precedenti il Mille, di cui quasi tutto si ignorava.
Il coinvolgimento della intellettualità massonica nello spirito nazionalitario sardo, non mai in chiave antiitaliana però (tant’è che si dette ai veneti impegnati nella terza guerra d’indipendenza contro l’Austria, nel 1866, il modello sovranista della Sardegna eleonoriana schierata contro l’invasore aragonese/spagnolo), fu all’origine di numerose Tavole di loggia in questo senso ed ispirò anche la denominazione di un’altra officina impiantata proprio allora nell’Isola: la Eleonora all’Oriente di Nuoro in parallelo alla Mariano IV all’Oriente di Oristano.
Non fu, quella della loggia oristanese che poggiava sulla borghesia professionale del luogo ed ebbe il merito di sostenere, con altri, la missione di dotare Oristano della grande statua marmorea della storica giudicessa, e prima di una società di mutuo soccorso, una vita granché lunga. Tant’è che si dovette attendere una trentina d’anni, forse più, per avere un nuovo ensemble.
Fu nel 1907 che una decina di Artieri oristanesi incardinati nella cagliaritana Sigismondo Arquer considerarono maturi i tempi per una conquista di autonomia e dettero vita quindi alla propria Libertà e Lavoro. Questa loggia ebbe vita lunga – durando fino al 1923-24, cioè fino alle diserzioni filofasciste (di Paolo Pili incluso) e/o alle aggressioni esterne da parte di uomini del Partito Nazionale Fascista – e riunì nell’arco di quei tre lustri circa esponenti della borghesia tanto produttiva quanto intellettuale della città e della zona, fra insegnanti e avvocati, pubblici funzionari e medici, attivi dell’associazionismo sportivo, artisti, ecc.
Nel secondo dopoguerra del Novecento, e precisamente fra il 1949 ed il 1950, avvenne, credibilmente con la formula del Triangolo, cioè di un nucleo territoriale aggregato ad altra loggia, la ripresa in capo ad alcuni degli Artieri prefascisti – Luigi (Gino) Loffredo e Giorgio Luigi Pintus, con l’aggiunta di altri forse provenienti dall’Obbedienza di Piazza del Gesù come Francesco (Cicito) Pischedda, già sindaco di Seneghe ed avversario storico dei sardofascisti, e Francesco Barraccu, ufficiale dell’esercito a riposo – ed altri provenienti dal Sassarese: Delio Butta del Vecchio e Francesco Sini, bancari entrambi di professione (funzionari del Credito Italiano), regolarizzati presso la sassarese Gio.Maria Angioy perché di iniziazione ferana o neoferana anch’essi, e Quintino Fernando, professore di storia e filosofia al liceo De Castro.
Alla data del 5 dicembre 1950 si riporta la formalizzazione del reinnalzamento delle Colonne, con la firma del decreto apposito da parte del Gran Maestro Ugo Lenzi. Aprono la serie delle iniziazioni Piero Baldino, avvocato di salda fede sardista, Guido Manconi ed Orlando Usai, ambedue del corpo docente del De Castro…
Naturalmente la Libertà e Lavoro ha bisogno di puntelli sul piano organizzativo e logistico. Non dispone, all’inizio, neppure del Tempio con un pur elementare corredo di simboli, con un Oriente e le Colonne, qualche cattedra e soprattutto l’Ara su cui aprire il Libro Sacro al vangelo di Giovanni e posarvi sopra la squadra e il compasso. Tant’è vero che per le cerimonie d’iniziazione si deve ricorrere all’ospitalità dei Fratelli cagliaritani.
Dopo lungo penare, questi ultimi sono riusciti ormai a trovare un sede al pian terreno di uno stabile abbastanza malridotto del corso Vittorio Emanuele, ad un passo da s’Ecca Manna stampacina: un lungo, ampio vano riattato a Tempio massonico dove, appunto, essi offrono il proprio servizio rituale ai Fratelli oristanesi (e poi forse anche a quelli carboniesi).
E la svolta di “maturazione” della Libertà e Lavoro si compie proprio in una serata cagliaritana quando, con tutti i crismi del rituale, vengono accolti nella Fratellanza due profani che segneranno il futuro – tre lustri pieni – dell’ensemble. Sono Ovidio Addis e Leandro Floris i protagonisti della cerimonia, sono loro che, per aspetti diversi, assicureranno all’officina liberomuratoria cui si sono incardinati una certa continuità operativa, una certa qualità di contenuti delle tornate, e che, quando non potrà procedersi ritualmente, manterranno meglio di tutti la “catena”, cioè la relazione mutuamente partecipativa. Con Floris (medico della mutua specializzato in odontoiatria, con radici massoniche in famiglia e molti umori ghibellini nel presente) è dunque Ovidio Addis a rappresentare l’anima nuova della Fratellanza oristanese capace di fondere pragmatismo – il pragmatismo della necessità – e la cultura.
Austera e suggestiva la cerimonia presieduta dal Pot.mo Silicani, leader dello scozzesismo isolano, già Venerabile della loggia Risorgimento cagliaritana ed ora alla vigilia della fondazione della loggia di Carbonia intitolata a Giovanni Mori, alto Dignitario – Sovrano Gran Commendatore – passato di recente all’Oriente Eterno dopo aver per lunghi anni assicurato la sua guida e la sua attività al latomismo italiano. Da Terribile funziona il Fratello Enrico Floris, medico ospedaliero del capoluogo di ampia esperienza e notorietà, da Cerimoniere ed Esperto il Fratello Degioannis, prossimo direttore dei cimiteri di Bonaria e San Michele. Fra le Colonne, con il gruppo degli oristanesi venuti apposta, diversi dei Maestri, Compagni ed Apprendisti della Risorgimento. Essi manifestano un cordiale spirito di accoglienza che, pur costitutivo della Massoneria, sembra qui esaltato dalla consapevolezza di doversi e potersi spendere veramente per la buona causa di un Oriente – quello arborense – che si sa assediato come nessun altro dal clericalismo, invadente e pervadente.
Quando s’apre alla virtuale iniziazione negli spazi del Tempio simbolico, Addis è prossimo a compiere i 45 anni. E, chissà, forse gli sarà venuto di riflettere su quanto da lui stesso annotato, nei tempi falsamente eroici della guerra dichiarata da Mussolini alle democrazie di Gran Bretagna e Francia, sui nemici dell’Italia: giudaismo e Libera Muratoria, oltreché le plutocrazie mondiali, fra i peggiori, secondo la vulgata del regime. Ancor più forse che non il suo inoltro nelle appassionate idealità civili del sardismo, e dunque nei valori universali della democrazia sposati alle speranze delle comunità territoriali, anche le minori, questa… scommessa massonica, liberamente giocata con pienezza di rigore mentale, sembra portare il missionario della cultura popolare nel Montiferru su una frontiera la più avanzata fra l’immaginabile: per la ritualità che costituisce il linguaggio universale della Fratellanza, per i nessi fra sostrati religiosi di varia provenienza al limite ultimo sfiorato del sincretismo ma in chiave ecumenica e non dogmatica, per la determinazione finalistica dichiarata unanimemente dai partecipanti, per l’affabilità incontrata come prassi ordinaria fra chi pure quasi non si conosce… E poi il progetto, che pure tutti unisce, di dar vita ad una realtà nuova, originale ancorché nel rimando ad una Tradizione lungamente sedimentata: una realtà nella quale tutti sono protagonisti perché, seppure l’impostazione sia interamente gerarchica, gli ultimi non sono ritenuti gregari ma tesoro prezioso di rinnovamento da educare, se ci si riesce, con l’esempio e lanciare poi nelle maggiori responsabilità.
Non sono però anni facili per la Libera Muratoria sarda e ne è prova la debole partecipazione ai congressi regionali convocati il 20 settembre 1953 a Macomer, ed il 24 ottobre dell’anno successivo a Sassari. A rappresentare la loggia oristanese è, nel primo caso, il Venerabile Quintino Fernando. Nella circostanza – favorita forse anche dalla relativa vicinanza alla sede congressuale – assistono ai lavori, e dunque alla lettura di alcune relazioni ed al dibattito che ne segue, anche i Fratelli Baldino, Butta, Floris, Loffredo, Manconi, Sini, Usai. Non sono invece noti i nominativi degli oristanesi al meeting del 1954, se e chi nel mezzo della trentina che assistono o partecipano, distribuiti fra le Colonne del Tempio sassarese, alla discussione.
Le cose non girano, nonostante gli entusiasmi iniziali. Alti e bassi a Cagliari, così anche a Sassari. Silicani, s’è detto, sta sperimentando se qualcosa si possa concludere a Carbonia, la cui vivacità sociale e produttiva potrebbe favorire il radicamento della nuova loggia Giovanni Mori (quella in cui, nel 1969, verrà iniziato Armando Corona). Però intanto sono caduti e non si rialzeranno i Templi di Bosa e La Maddalena, rafforzando i venti della dispersione. Sarà così ancora per qualche anno, fino a che, a Cagliari, le risorse di una loggia appartenente al circuito eterodosso degli AALLAAMM, gli scozzesi che erano stati inquadrati nelle logge chiamate prima di Palazzo Brancaccio e poi di Palazzo Falletti (o di via Panisperna, a Roma, rione Monti) non chiederà la regolarizzazione nel Grande Oriente d’Italia, riattivando il circuito virtuoso dei radicamenti e dello sviluppo.
Nella dura ora, esauritosi il supporto già assicurato dai cagliaritani, la crisi viene presto messa nero su bianco, anche ad Oristano, con la rinuncia a proseguire. Per questa ragione, in forme imprecisate – ma l’organizzazione del GOI tanto al centro quanto in periferia è alquanto precaria in questi anni –, all’abbattimento della Libertà e Lavoro si combina, come soluzione del meno peggio, l’acquartieramento di chi vuole nel piedilista della loggia sassarese. La quale, d’altra parte, s’è detto, ha da affrontare, nello stesso periodo, molti problemi propri, che infatti la imprigionano in un stop and go che dura un decennio intero.
Forse il passaggio sassarese, relativamente ai Fratelli della Libertà e Lavoro, è da leggersi nei termini di un assonnamento “tecnico” iniziale e di un successivo risveglio per “regolarizzazione”, in vista proprio del ripristino operativo della compagine cui viene riassegnata l’antica denominazione e l’antico numero d’ordine.
1964, si riparte
Finalmente, dunque, la ripartenza. Uno degli Artieri più validi dell’organico sassarese, il Fratello Mario Giglio, funzionario del Banco di Napoli, in Massoneria dal 1957 (è lui uno di quelli di provenienza da Palazzo Falletti), è stato assegnato dal suo istituto di credito a dirigere la succursale di Oristano. Giusto quel che serve per impegnarlo nel rilancio della Libertà e Lavoro risvegliando nel concreto la modesta pattuglia dei “parcheggiati” nella Gio.Maria Angioy.
Nel verbale del 18 aprile 1964 di quest’ultima si riferisce proprio questo: «Il Venerabile [Bruno Mura] quindi invita i F.lli Sini Francesco, Floris Leandro, Baldino Piero, Chessa Antonio, Manconi Guido e Addis Ovidio di accostarsi all’Ara per rinnovare , come regolarizzandi, il loro giuramento di Fedeltà alla nostra Istituzione.
«Terminata questa cerimonia il M. Venerabile rivolge a questi F.lli, che saranno insieme al F.llo Giglio, gli artefici del risollevamento delle Colonne del Tempio di Oristano, brevi ed affettuose parole di saluto. Unica nota triste, dice il Venerabile, in questa giornata così gioiosa che vede finalmente realizzato il nostro proposito di far risorgere ad Oristano il Tempio Massonico è l’assenza del ns. carissimo Venerabile F.llo Rovasio [già consigliere dell’Ordine], passato all’Or. Eterno, che, negli ultimi anni di vita tanto aveva lavorato affinché si poteressero rialzare le colonne sia di Oristano che di La Maddalena.
«Terminato il suo discorso il M. Venerabile chiama all’Ara il F.llo Giglio e gli consegna la pietra grezza per il nuovo Tempio di Oristano, dichiarando di esser sicuro che certamente sotto la sua guida i F.lli di Oristano sapranno levigarli debitamente.
«Portano quindi il loro saluto ed il loro augurio ai F.lli di Oristano il F.llo Oratore Conti Michele ed il F.llo Renato Nigra Consigliere dell’Ordine».
Non tutti gli Artieri della prim’ora sono presenti all’appello o possono rispondere al mandato. V’è, fra gli altri, chi ha dovuto lasciare, per ragioni professionali, Oristano trasferendosi altrove. E’ il caso, per fare un nome, di Quintino Fernando, l’ex dottissimo Venerabile, ormai incardinato nella cagliaritana Nuova Cavour (è passato ad insegnare al liceo Pacinotti del capoluogo). Ma comunque si riparte. Gli Apprendisti ed i Compagni di remota iniziazione sono promossi ai gradi di merito, e riparte, non senza prudenza, il proselitismo. E la pianta organica si allarga: Uras, Manca, Vacca, Fadda (che viene dalla patria nientemeno che di Antioco Zucca, il filosofo anche lui massone all’inizio del secolo)… tutti professionisti o docenti di buon accredito in città e provincia. E ancora Bruno Stiglitz, che si sa aver conosciuto la libera Muratoria nel corso delle sue missioni in mezzo mondo come ambasciatore dell’Unesco e Unicef, e Giorgio Farris, giovane talento d’artista, che è fra i discepoli e collaboratori più validi, nelle fatiche archeologiche, di Ovidio Addis…
Del Fratello Addis si sa che è richiesto di svolgere le funzioni di Oratore: ha da dire, sa come dire, è capace di una carica empatica che unisce, congiuntamente al carisma del nuovo Venerabile Giglio, la piccola famiglia. Le sue proposte tematiche – la Sardegna in ogni salsa – sanno suscitare il maggior interesse delle Colonne. Sono Tavole Architettoniche suggestive, che spaziano dalle ere remote dei nuraghi e dei sardi pelliti, o magari di Ichnusa e Sandalyon, all’alto Medioevo ed all’epoca giudicale. E’ il momento d’oro della Libertà e Lavoro, il miglior rilancio di quel che essa era stata nel primo Novecento, prima del fascismo e anche prima della grande guerra. E’ lui che triangola con il Venerabile Giglio e l’omnibus (Segretario) Floris, nella conduzione della loggia, prima che la malattia ne mini progressivamente le forze.
Le tornate si svolgono secondo un calendario mobile, che va per convocazioni quasi estemporanee (comunque almeno una volta al mese), ed hanno sede nel retro-ambulatorio del Fratello Floris, nel centralissimo corso Umberto. Un armadio contiene paramenti, simboli rituali e documenti di segreteria. Ad ogni incontro il Tempio si ricrea. Così sarà per qualche anno.
Per le iniziazioni, per le quali ci si sforza di realizzare un surplus di decoro rituale, si può contare invece su un altro Tempio: quello di una casa al mare, casa Floris sempre, costruita ed arredata tenendo d’occhio anche tale e sia pure saltuaria utilizzazione. Tutto è facilmente adattabile alle esigenze dei Lavori: non deve volerci molto tempo a collocare, ognuno nel suo posto, i simboli astrali e mitologici, la pietra grezza e quella levigata, qualche spada e lo stendardo, l’ara con la menorah e la Bibbia, naturalmente, che è antica più d’un secolo. Datata 1853 ed impreziosita da una originale rilegatura in pelle. L’ambiente giusto per la cerimonia iniziatica, sopra un pavimento che non a caso è stato voluto a scacchiera… Qui si compiono i tre viaggi-prova, quelli dell’acqua, dell’aria e del fuoco, dopo la sosta nel Gabinetto di Riflessione, simbolo della terra, il primo elemento. Qui il Maestro Venerabile concede la Luce massonica e gli Artieri d’ogni grado disposti lungo le due Colonne si approssimano al neoiniziato per l’abbraccio di fraternità.
Sei iniziazioni in tre turni, nei mediani anni ’60 (quando allo stesso Floris capiterà di assumere il Maglietto di comando: memore della propria iniziazione con Ovidio Addis, egli opta per questa modalità-standard: la coppia dei recipiendari). E dopo la liturgia, l’agape fraterna, sempre bagnata da ottima vernaccia, nel solito retro-ambulatorio di città o nella villetta al mare.
Per la sua posizione geografica, Oristano si presta bene come punto di confluenza dei vari Dignitari della Circoscrizione regionale per le riunioni di Collegio dei Venerabili, un organismo invero ancora informale (per l’effettivo aggregamento della Circoscrizione sarda a quella laziale) o appena in rodaggio. Sono riunioni di carattere prettamente amministrativo ed organizzativo. Da Sassari e da Cagliari e Carbonia arrivano i dignitari dell’Ordine e quelli del Rito Scozzese… Uno scambio di idee sulla situazione generale della Comunione nazionale e di quella regionale, un confronto più mirato su qualche aspetto particolare della vita interna delle logge locali che hanno in carico, complessivamente, cento Artieri. E in fraternità, naturalmente, l’agape conclusiva.
La partenza di Mario Giglio per altra sede professionale, e quindi anche di residenza, indebolisce di nuovo la compagine oristanese. La perdita di Ovidio Addis, che la segue da presso, nell’autunno 1966, le è però fatale. Manca alla Libertà e Lavoro terza formulazione questa fonte alta, carismatica, insieme unificante ed ispirativa. Progressivamente, mese dopo mese, essa finisce di credere in se stessa. Questione di un anno ancora e nel 1968 le Colonne saranno abbattute di nuovo, nulla potendo fare il nuovo consigliere Ispettore Franco d’Aspro per ovviarvi.
Dopo altri quattro anni, nel 1972, si partirà un’altra volta ancora. Ma si partirà daccapo, con una loggia nuova fiammante, animata pro tempore dai cagliaritani interventisti e denominata, per giusto riconoscimento, Ovidio Addis, con il numero d’ordine 769.