SE LA MORTE NON E’ UN ABISSO DA VINCERE, di Massimo Recalcati

“Freud non pensava al corrompersi delle cose come a un male da sconfiggere. Per lui è proprio la caducità a generare bellezza. Il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile ci fa apprezzare i dettagli più insignificanti e arricchisce il senso della nostra esistenza. La meditazione filosofica come precisa Schopenhauer non sorge platonicamente dallo spettacolo del mondo quanto piuttosto dal trauma e dall’incontro con il dolore”.


“”Davanti a me il ricordo indelebile delle mani nodose di mio nonno paterno che decretavano inesorabilmente, con gesti lenti e precisi, la morte di un coniglio impaurito. Un colpo secco alla testa, poi le operazioni di scuoiamento. È attraverso questa pratica antica della vita contadina che ho fatto da bambino il mio primo incontro con la morte. Restavo basito di fronte a quella mescolanza di violenza e tranquillità chiedendomi come era possibile integrare il ritmo naturale della vita – uccidere l’animale per nutrirsi – con la brutalità ordinaria che orientava i gesti antichi del nonno. Non era, il suo, un desiderio sadico: stava lavorando per prepararci la cena, non stava uccidendo con piacere la sua vittima. Tuttavia, il ritmo naturale della vita contadina non poteva assorbire del tutto lo sconcerto dell’incontro con la nuda morte. Quel coniglio, scelto casualmente tra i suoi simili rinchiusi nella stessa gabbia, mi faceva incontrare una dimensione di non-senso che già da bambino intuivo non essere per nulla estranea alla vita. La morte introduceva nella vita un tabù che mi appariva psichicamente indigeribile. La morte del coniglio non mi spingeva a pregare, né a fare alcun lavoro del lutto. Quella morte mi obbligava semplicemente a pensare. La meditazione filosofica, come precisa Schopenhauer, non sorge tanto, platonicamente, dallo spettacolo del mondo, dalla meraviglia di fronte all’essere, quanto piuttosto dal trauma, dall’incontro spesante nei confronti del male, del dolore e della morte. È la morte, come egli scrive, il vero punctum pruriens della metafisica. Le pagine heideggeriane di Essere e tempo, che scoprii con entusiasmo a vent’anni, lasciarono in me una traccia indelebile: la morte non è l’ultima nota che conclude, aggiungendosi dall’esterno, la melodia dell’esistenza; essa è, piuttosto, radicalmente inclusa, un’imminenza sovrastante, una impossibilità sempre presente, una pressione sempre in atto che non lascia in pace.
Cosa da ragazzo avevo amato così profondamente in Gesù se non l’offerta radicale di sé, l’esposizione del suo corpo trafitto, se non il suo passaggio attraverso l’abisso della morte? Non era la potenza dell’amore a salvarci dal nostro destino di conigli? La vittoria sulla morte non avveniva attraverso l’ascesi epicurea, non avveniva allontanandola semplicemente dalla vita (dove c’è vita non c’è morte e dove c’è morte non c’è vita affermava Epicuro),ma accadeva nella morte, nell’incontro con l’alterità assoluta della morte. Era questa l’esperienza decisiva di Cristo: scendere negli abissi della morte, scendervi come uomo, per vincere la morte, per risorgere dal suo ventre scuro e ricongiungersi al padre. Si trattava dello stesso passo che ritrovai più tardi in Heidegger? Liberare la vita dalla paura e dall’orrore della morte, renderla risorta.
Come spesso accade, la mia fede in Dio incontrò un primo scacco il giorno in cui, adolescente, mi recai all’ospedale Niguarda di Milano per trovare un amico coetaneo colpito da un tumore al cervello. Aveva già perso la vista e giaceva al buio cantando in modo surreale una vecchia canzone d’alpini. Portava il mio stesso nome e quando provai a chiamarlo e lui girò la testa bendata verso di me senza rispondermi scoppiai a piangere. Perché Dio non aveva ascoltato le mie preghiere? Dov’era mentre le metastasi distruggevano il cervello del mio amico? Cosa c’è di più assurdo di questo? Cosa c’è di più assurdo, scrive in apertura de Il Mito di Sisifo Camus, della morte di un bambino, della fine di una giovane vita?
La lettura dell’articolo di Freud titolato Caducità offrì una risposta nuova ai miei interrogativi. Freud non pensava alla morte come un abisso da vincere, ma come condizione della vita. È il trascorrere del tempo, il suo divenire inesorabile a farci apprezzare i dettagli apparentemente più insignificanti della vita. Il corrompersi delle cose, anziché generare disperazione, introduce ad una esperienza della bellezza non disgiunta da quella della caducità: «Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida». Il senso tragico della vita non sopprime la vita, né il suo senso, ma la arricchisce. Nel Freud di Caducità trovavo un “sì!” alla vita che non implicava la resurrezione dei corpi, la loro salvezza eterna, ma che si fondava, al rovescio, sulla loro estrema caducità.
Freud era ben consapevole della paura degli uomini nei confronti della morte e della loro attitudine a trovare rimedi, illusioni, “scacciapensieri”. Per questa ragione una psicoanalista come Gennie Lemoine ha potuto affermare che dalla vita non ci si deve attendere nulla; si tratta solo di fare, di vivere; nella vita bisogna fare perché, in effetti, non c’è altro da fare. L’assunzione della propria morte sfronda la realtà dall’Ideale, ma non annulla la possibilità dell’amore. Anzi, l’amore – ed è qui che ritrovo il motivo decisivo della testimonianza di Cristo – può salvare dalla morte e dalla distruzione. Esso è come la bellezza della rosa che sa essere eterna nel battito di un solo giorno.”

Repubblica 16.10.16)

 

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