I principi non negoziabili e la pena di morte. Giorgio Asproni giudice-nemico della ghigliottina del papa-re, il beato Pio IX, di Gianfranco Murtas
Dedicato al direttore de “L’Ortobene”.
«Novembre 24, Martedì – Firenze. Il deputato Jacopo Comin […] Mi ha detto all’orecchio che nella stazione di Roma ier sera conferì col suo corrispondente e lo informò che tutto era preparato per mozzare stamani il capo al Monti ed al Tognetti. Diffatti più tardi è arrivato il telegramma che furono giustiziati stamani alle ore sette. Così i preti rispondono al programma Gualterio del 27 8bre dello scorso anno, ai millioni pagati al Papa, ed alle vituperose umiliazioni della Corona al Bonaparte. E paga con due teste oggi recise dal carnefice per volere del Papa e di Bonaparte. L’umanità abborre la morte anche dei più insigni ladroni. Il Papa e l’Impero assassinano ed erigono patiboli ai patrioti italiani. La scuola è di sangue, ma darà il suo frutto. Il Papa ha scelto per questa esecuzione il giorno destinato alla riapertura del Parlamento italiano […].
«Stasera vi è stata riunione […]. Fuori ho incontrato Bertani […]. Mi ha manifestato l’idea di far domani una brevissima ed energica mozione sull’assassinio del Tognetti e Monti. Io ve l’ho infervorato e gli ho suggerito alcune idee, che pare voglia far sue. Anco il Bertani è poco soddisfatto del sig. Crispi. Ho discorso lungamente col Depretis, ed egli pure è sorpreso delle evoluzioni del Crispi. Così si logorano questi uomini che hanno ambizione immensa e non comprendono la libertà».
Breve premessa. «Solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato; il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde ad un interesse passato, ma presente». Non si tratta di uno scioglilingua, sono parole da leggere una ad una e poi combinare fra loro con lenta progressione, per comprenderle appieno. Vengono da Benedetto Croce, risalgono al 1912, alla sua Teoria e storia della storiografia, più volte pubblicata. La storia è sempre contemporanea, il passato ritorna sempre, anche se in forme altre, nell’attualità. E non scomodiamo Vico, è cosa registrata anche nella nostra vita ordinaria, di ordinari abitatori planetari.
La massima crociana mi porta a riflettere su certi “principi non negoziabili” che ancora alcuni anni fa avevano riempito le relazioni alla CEI del cardinale Camillo Ruini, che della Conferenza era il presidente in parallelo all’ufficio di vicario generale del papa per la diocesi di Roma; in nome di quei “principi non negoziabili” aveva costretto alla piazza, per chiusura imposta della chiesa, i funerali di Piergiorgio Welby, il quale dopo trent’anni di sla – sclerosi laterale amiotrofica – staccò i tubi dal suo corpo, e se ne volò in Paradiso dritto dritto. Era il 2006.
Appena sei anni prima, i sostenitori – allora e dopo – dei “principi non negoziabili” avevano sostenuto entusiasti la beatificazione dell’ultimo papa-re, di Pio IX cioè, che pur segnò il suo regno umano, quello dello Stato Pontificio crollato il santissimo 20 Settembre 1870, di molto sangue. Compreso quello del nostro Goffredo Mameli, poeta caduto ventunenne per difendere la gloriosa Repubblica Romana nel più remoto 1849. Quella Repubblica aveva proscritto, all’articolo 5 della sua costituzione, la pena capitale. Quando grazie al fuoco francese Pio IX, monarca e… vicario di Gesù Cristo (?), tornò da Gaeta al Quirinale, ripristinò la ghigliottina. E la fece funzionare dal suo boia fino al 1868, quando caddero le teste di due giovani lavoratori, uno di 33 e uno di 24 anni.
Le teste da mozzare, nella Roma papalina alla vigilia quasi della breccia di Porta Pia, sarebbero dovute essere quattro: ma dopo le prime due, il nostro Giorgio Asproni e altri con lui, soprattutto il Ferrari, suo collega parlamentare (repubblicano) di un Regno che esso stesso praticava la pena di morte (per impiccagione, così fino al nuovo codice penale dello Zanardelli: ne ricorda i casi il Cocco Ortu anche a Cagliari), mossero una campagna d’opinione straordinaria in tutta Italia, unitamente ad una raccolta di sussidi per le famiglie dei ghigliottinati. Si raccolsero offerte anche in Sardegna (ho trovato gli elenchi degli oblatori sulla stampa iglesiente). E il papa, con i suoi tribunali e le sue consulte, non ebbe il coraggio di procedere oltre, sicché la pena capitale di Ajani e Luzzi fu commutata in ergastolo.
Avrei voluto che i funerali religiosi negati a Welby a Roma fossero suppliti da cento funerali religiosi celebrati in tutt’Italia da quei preti evangelici con la schiena dritta ed anticonformisti, che pure si contano non in numeri da poco, educatori e maestri, samaritani a tempo pieno. Dico da don Ciotti a don Merola, agli altri che si affacciano – costretti – negli spot pro 8permille, dico in Sardegna da don Cannavera a don Angelo Pittau, a padre Salvatore Morittu, a don Mario Cugusi, agli altri 107 dell’elenco virtuoso. Credo che da questo atto di libertà evangelica contro l’oppressione canonica e la norma senza anima, si sarebbe sviluppato nel Paese, fra credenti e non credenti, un alto sentimento intimamente religioso e insieme dal portato umanistico, comunionale e capace di marcare il livello di civiltà sociale.
Storie di ieri e storie di oggi. Goffredo nostro e Mazzini triumviro – quanti ne abbiamo avuto in Sardegna, fra Iglesias e Cagliari e Macomer ecc., di esuli politici (fior di democratici) fuggiti per salvarsi dalla vendetta del papa-re tornato sul trono, a partire dal Serpieri e dal Ciotti –, Piergiorgio Welby e Giorgio Asproni, Pio IX e i nostri preti d’avanguardia che hanno perso l’occasione.
Si dice che il ministero di papa Bergoglio presenti altro stile. Proprio perché credente egli derubrica i “principi non negoziabili” dell’algida teologia promuovendo la pratica della prossimità e della misericordia. Dà colore e sapore al suo magistero confidando a Eugenio Scalfari che quando gli capita di incontrare un clericale (leggi fondamentalista) è seriamente tentato dall’anticlericalismo. Parola di pontefice romano.
E quindi? E quindi capita che sul giornale diocesano di Nuoro, L’Ortobene – un giornale al quale, in anni di gioventù e anche dopo, non ho fatto mancare il contributo di diversi articoli – pubblichi di recente un bel pezzo sulla figura del vescovo Salvatore Angelo Maria Demartis, un carmelitano sassarese detestato da Asproni (che del capitolo di Nuoro era stato il penitenziere e ben conosceva l’ambiente: al «frataccio» l’ex canonico dedica almeno cento citazioni). Ne tesse l’agiografia, innalzandolo per virtù sopra e contro quelli che sarebbero stati i padroni borghesi e massoni del capoluogo barbaricino al tempo dei moti di “su connottu”, proprio in quel terribile 1868 della ghigliottina sferzante il collo operaio di Monti e Tognetti. Rappresenta quella figura di presule in rapporti strettissimi con il papa Pio IX – cui indirizzò da Nuoro varie accorate lettere da (presunto) assediato, e lui e il papa, e gli uomini di Chiesa – di quella Chiesa – vengono profilati come innocenti vittime dei soprusi laicisti.
Per la consuetudine (almeno quarantennale) con quella storia, per il tanto studiato e scritto sullo stesso Demartis e su Asproni, su Giuseppe Cottone il medico siciliano che a Nuoro combatté l’epidemia colerica del 1855 e su don Gavino Gallisay il don Minosse de Il Giorno del Giudizio, e sul Pirisi-Siotto sindaco e parlamentare in surroga di Asproni, dal 1876, sulla loggia “Eleonora” e su don Francesc’Angelo Satta Musio rettore di Orune assassinato nel 1873 – prezioso il fondo Satta Musio custodito e classificato presso la Facoltà teologica della Sardegna –, ed ancora sullo zio canonico Giuseppe, presidente a Santa Maria della Neve, e insomma, su quell’humus da cui sarebbero venuti altri un domani, dal 1903 monsignor Luca Canepa – altra figura e altra famiglia a cui credo di aver donato qualche mese o anno di studio intensivo…, sì, per la consuetudine con quella storia ho avuto l’idea di scrivere un articolo “compensativo” del bel pezzo di Michele Pintore.
Censura. Il direttore de L’Ortobene oggi è un laico, nel senso che non risulterebbe aver mai ricevuto gli ordini sacri. Si parla tanto male dei preti, e invece don Bussu, don Carta… tutte le volte che mandavo un articolo, senza abusare, erano ospitali. Don Bussu mi chiese addirittura di recensire un suo libro, Ostaggi della violenza, Cagliari, CUEC, 2007. In ultimo, saranno ormai tre anni, ho anche pubblicato il profilo religioso del vescovo Mosè Marcia, che avevo anticipato, con quelli di altri otto presuli consacrati nella basilica di Bonaria nel corso del Novecento, nel libro “lusso” stampato dai padri mercedari per donarlo a papa Benedetto quando venne a Cagliari nel settembre 2008.
La censura da L’Ortobene. Mi sembra incredibile. La testata l’ho avuta presente, compulsata e raccontata nei suoi contenuti quando tenni la rubrica dell’emeroteca diocesana sarda, nel sito di Cresia, lo spazio di un’associazione ecclesiale cagliaritana cui non ho direttamente partecipato ma che ho stimato per i programmi e la pratica, oltreché per la valentia di chi vi ha preso parte. Ci ho trattato, in L’Ortobene, di suor Geltrude Filindeu, non molto tempo fa, per raccontare la virtù di Elena, Ottavia e Mario Melis quando mi ritrovai incluso in un certo testamento da cui discendeva dover io dire a chi indirizzare una porzione del lascito sociale di quella famiglia, e fu favorita la missione benedettina di una suora orgolese in Angola… Ci ho trattato anche di Francesco Ciusa, e fu molto bello che con atto di tacita resipiscenza la Chiesa nuorese accolse a Santu Caralu le spoglie del grande scultore che pure era stato scomunicato due volte – perché massone e perché candidato social-comunista –, l’ultima anche pochi mesi prima della morte…
Io amo la Chiesa non meno della libertà e della responsabilità della coscienza, e non meno della Repubblica come casa comune di credenti e non credenti. La considero nei suoi dati umani una complessa, contraddittoria, splendente, necessaria risultante della storia. Il che non ne inficia l’ispirazione metastorica, ovviamente. Ma conoscendola in questa sua dimensione che la vede più spesso pasta che non lievito – e bravo è stato il vescovo di Iglesias, Zedda, a riconoscere apertamente, tempo fa, l’anticipazione profetica di certo socialismo rispetto al clericalismo pauroso nella lettura della questione operaia! – debbo usarle la carità, che forse è soltanto buon senso, di scrutarla nel suo chiaroscuro, che è la prova provata della sua autenticità.
Fu questo, in parte almeno, il tema che affrontai nel 2010 in una memorabile serata convocata dal caro mio professore, maestro e amico Tito Orrù alla Società Operaia di Cagliari per celebrare, nel 140° anniversario, quel 20 Settembre che aveva posto fine al potere temporale (e al malgoverno amministrativo del Lazio e delle legazioni) dei papi, ed a quella conferenza resta legato uno dei ricordi ultimi, umanamente preziosi, dello storico che insieme con Carlino Sole e il mio carissimo amico Bruno Josto Anedda tanto lavorò attorno alle carte manoscritte e inedite di Giorgio Asproni (Fondo Dolfin, Diario Politico). E mi viene adesso di ricordare che proprio cinquant’anni fa, erano i primi del giugno 1966, Bruno Josto Anedda – uomo di Azione Cattolica migrato nelle file repubblicane fino ad assumerne la segreteria regionale negli anni di alleanza stretta fra PRI e PSd’A , e che avrebbe onorato la professione giornalistica per lungo tempo all’Agenzia Italia, al Sole 24 Ore ed alla Rai – scrisse il primo articolo/saggio sul deputato di Bitti. “Un messaggio da riscoprire” fu il titolo di un suo contributo pubblicato da La Voce Repubblicana nel 90° della morte del «patriota e parlamentare repubblicano».
Tutto si tiene. Pubblicai, alcuni anni fa, diversi lavori sulla Massoneria sarda, ricordando fra l’altro da quante logge dell’Isola erano venute le petizioni contro la pena di morte, consegnate proprio a Giorgio Asproni – dal 1867 anch’egli iniziato alla Libera Muratoria –, per il deposito al banco della presidenza prima di Palazzo Vecchio poi di Montecitorio.
La Chiesa non prescrittiva, la Chiesa tutta testimonianza, la Chiesa lievito per la pasta e luce sul moggio, quella del canonico Tommaso Muzzetto, per lunghi anni vicario capitolare a Tempio, il cui magistero evangelico antitemporalista nella ferialità gallurese entra così di frequente nelle lezioni e nel dire “da prete” dell’amico professor Cabizzosu presso la nostra Facoltà del Sacro Cuore: ecco cosa mi colpisce, ecco cosa penso possa unire, nella empatia delle buone volontà, credenti e non credenti, o credenti in altre tavole valoriali che non quelle cristiane stricto sensu. E con Muzzetto, il leader capitolare che raccolse le firme dei suoi confratelli nel presbiterio di Gallura ed Anglona per esortare Pio IX a liberarsi del trono profano, per volontà autonoma in incrocio con il dettato evangelico («il mio regno non è di questo mondo»), e che per questo patì i fulmini della Santa Sede, ecco anche monsignor Giovanni Battista Montixi. Il presule che per qualche lustro si trovò il solo vescovo operante in Sardegna, stante l’indisponibilità del governo a rilasciare gli exequatur (fino a cedere nel 1867 appunto con Demartis a Nuoro e Zunnui Casula ad Ales), il presule che fu il solo dei sardi, e dei pochi fra i partecipanti al Concilio Vaticano I, a non sottoscrivere, anzi a contrastare la definizione dogmatica della infallibilità pontificia. (Bellissimo il libro documentario sulla sua figura, opera di Raffaele Callia: Giovanni Battista Montixi. Un vescovo liberale nell’Ottocento, Cagliari, AMD, 1998).
Preti e vescovi liberali, o soltanto evangelici? Perché cito Muzzetto o Montixi? Per dire che anche in Sardegna, contro i Demartis e contro altri – si pensi in particolare al servita fra Bonfiglio Mura preconizzato alla sede episcopale di Oristano, o a monsignor Giovanni Maria Filia destinato ad Alghero, o ai cagliaritani Balma e Berchialla dopo Marongiu Nurra (che aveva preferito l’esilio a Roma per non cedere al governo sulla denuncia delle decime, per il che aveva pure scomunicato il suo vicario generale De Roma!) – vi furono vescovi e prelati illuminati, sensibili ai segni dei tempi. Dunque si poteva. E cento e anzi centocinquanta anni dopo, candidati al giudizio della storia, non potrebbe dirsi che Demartis passi l’esame al pari del Muzzetto o del Montixi. Vi fu chi seppe antivedere, o vedere con maggior libertà. Come quando – ricordavo ad un amico vescovo di recente – noi giovani e giovanissimi sostenevamo che l’URSS era un sistema tirannico con qualche sprazzo di virtù, mentre i nostri amici comunisti sostenevano il contrario, tutto virtù con qualche debolezza. Gorbaciov ha chiarito le idee ai compagni e confermato noi sulla bontà del giudizio.
Anche perché la riflessione circa gli impacci del “contesto” che spiegherebbero, e giustificherebbero, certi ritardi di lettura e comprensione dei fenomeni sociali e ideali, è più profonda.
Mi si obiettava: ma la ghigliottina di Pio IX si spiega con il largo panorama politico e dinastico dell’Europa ancora del secondo Ottocento, tardo ad assumere principi effettivamente liberali se non proprio democratici. Rispondevo: ma in quello stesso contesto storico il Mazzini triumviro abolì la pena capitale nella Repubblica Romana. E dunque? In ogni tempo vi fu chi si schiavizzò al sistema anche ideologico imperante e chi se ne liberò e anzi lo combatté. La storia diede coesistenza al Rosmini e al cardinale Antonelli, con l’aggiustamento di qualche decennio diede coesistenza a Filippo Neri e ad Alessandro VI Borgia, a Giulio II della Rovere, ed a Pio V inquisitore, oppure, andando ancora all’indietro, a Francesco d’Assisi ed a Bonifacio VIII, e perfino… a Gesù di Nazaret ed agli uomini del Sinedrio. Nello stesso contesto storico-culturale vi fu chi comprese ed agì con coscienza libera e chi schiavizzò la verità.
Anche oggi, potremmo volgere lo sguardo attorno a noi, e porre problemi a noi stessi e agli altri, e farci una idea circa la risposta più giusta, in termini di libertà, ai segni dei tempi di giovannea memoria.
E dunque, si può celebrare l’inizio dell’episcopato nuorese di monsignor Demartis – a Nuoro per 35 anni, per i due terzi trascorsi fuori dalla tutela di Pio IX – senza tener conto dell’impaccio antipatriottico ed antiliberale costituito dal suo passivo, acritico, allineamento all’antistorica (ed antievangelica) posizione pontificia? Avrebbe detto il grande papa Paolo VI: «Nessuna altra città fuori di Roma poteva dare alla nazione italiana la pienezza della sua dignità statale. Così fu e così è».
Sarebbe stato, io credo, utile – proprio anche nella logica meditativa della “storia sempre contemporanea” – una ricezione, da parte del settimanale diocesano di Nuoro che fu il periodico anche del vescovo Giuseppe Cogoni o di Salvatore Mannironi antifascista, delle osservazioni che mi ero permesso di inoltrare alla direzione.
Mi vien di pensare alla minaccia costante e anche alla autocensura costrittiva incombente sulla testata negli anni pesanti della dittatura. Che in tempo di democrazia repubblicana, di libertà conciliare, di pontificato Bergoglio, il giornale della Chiesa nuorese diretto da un laico (sempre nel senso che non risulterebbe aver egli ricevuto gli ordini sacri) mi sembra un paradosso.
Oltretutto la censura delle libere (e motivate) opinioni non mi sembra mai un segno di intelligenza. Il papa ha promosso di recente al cardinalato un presbitero albanese che ha sofferto ogni pena sotto il regime comunista di Tirana. Viene sempre, nelle grandi avventure (come quella di don Ernest Simoni) così come nelle piccole o mignon (la mia), il momento del riscatto di Davide e Golia ci sta male.
Dal Diario politico, 1868-1870
Ecco alcune notazioni diaristiche di Giorgio Asproni intorno alla vicenda della ghigliottina autorizzata dal beato Pio IX, inconsapevole dei “principi non negoziabili”. Gli appunti, insieme precisi ed impressionistici, sempre gustosi ed interessantissimi, sono di varia natura. Si allargano alla politica istituzionale ed estera del giovane Regno d’Italia, accennano alle trattative fra il governo di re Vittorio e quello di papa Pio per la riduzione delle diocesi italiane (questione ancora attualissima!) e per la provvisione delle diocesi ancora scoperte, riferiscono dei contatti con i vertici della Massoneria (da Frapolli a De Luca, a Petroni stesso, gran maestro per anni detenuto nelle galere pontificie), citano le posizioni del filosofo onorevole Del Zio, già professore al cagliaritano liceo Dettori (e membro della loggia “Vittoria”). Alludono anche, su tutt’altro campo, alla costituenda commissione d’inchiesta parlamentare sopra le condizioni morali, economiche e finanziarie della Sardegna… Soprattutto fanno riferimento alla discretissima mediazione attivata verso il potere d’influenza di un prelato quirinalizio, il Sagreti Uditore Santissimo – non menzionato altro che con la iniziale (come per proteggerlo da ogni rischio, pur trattandosi soltanto di annotazione di diario privato!) –, al fine di salvare il collo degli altri condannati per il tragico attentato alla caserma degli zuavi pontifici compiutosi il 22 ottobre 1867, mentre Garibaldi guidava la sfortunata impresa di Mentana (cui anche i volontari sardi parteciparono). Di più: fra le prime e le ultime note, la rivoluzione non soltanto ideale del 20 Settembre, e nel dopo la sollecitazione, quasi mercantile, dell’Uditore Santissimo di aver… salvi l’appartamento nel palazzo che dal papa Mastai Ferretti andrà al re Savoia e la carriera militare del proprio fratello ufficiale regio!
«Novembre 25 [1868], Mercoledì – Firenze. La seduta è stata interessante per i discorsi pronunciati contro il Papato e contro chi lo sostiene per la decapitazione dei giustiziati Tognetti e Monti, che un ordine del giorno proposto e svolto dal Ferrari voleva si dichiarassero Martiri della Patria. In questo però ci fu unanimità: nel voto di riprovazione, esclusi quattro cattolicissimi che si sono astenuti».
«Novembre 27, Venerdì – Firenze. E ‘ cominciata la sottoscrizione per le famiglie Tognetti e Monti. Speriamo che quest’atto di carità cittadina diventi una solenne manifestazione nazionale contro la barbarie dei preti e del Bonaparte. Le idee fanno luogo e rapido cammino. In Spagna il partito repubblicano cresce di numero e di potenza di giorno in giorno».
«Dicembre 1°, Martedì – Firenze. E’ la mezzanotte. Sono stato tutta la sera discorrendo e passeggiando col deputato Giuseppe Ferrari. Egli è contentissimo delle proporzioni che prende la sottoscrizione a favore dei giustiziati Tognetti e Monti. L’opinione pubblica in Italia rare volte si è manifestata così forte come in questa manifestazione. E questo prova ancora una volta qual tesoro di odio ci è in Italia contro la feroce ed ipocrita signoria dei preti».
«Dicembre 2, Mercoledì – Firenze. Il Manabrea ha diramato una Circolare diplomatica per attenuare il significato delle sue parole di riprovazione per lo assassinio di Monti e Tognetti e dei discorsi e del voto della Camera. E’ un atto di viltà. Il deputato Luigi Ferraris, per incarico di parecchi amici, gli ha domandato se quella Circolare era vera e tal quale si legge nella Correspondence Italienne. Non ha negato; non ha confessato, ed ha risposto esprimendo sorpresa come si sapessero tali cose segrete. Le avrà rivelate la Francia per avvilire il governo. Diffatti il corrispondente parigino scrive alla Unità Cattolica, rivelatrice di molti segreti, che Bonaparte s’irritò molto del voto della Camera e delle parole del Ministro, e diede ordine al Moustier di dare al Manabrea una buona lavata di capo. Tanto giù è caduto il governo d’Italia. Ma la Nazione non si rassegna, e la sottoscrizione che continua imponente in tutte le città fa palese il proposito di farla finita e con la dipendenza dalla Francia e col Papato».
«Dicembre 3, Giovedì – Firenze. La sottoscrizione per i decollati Tognetti e Monti crescit eunde e pensino Crispi e compagnia bella a far dormire la questione di Roma! Quanto sono presuntuosi ed imbecilli!».
«Dicembre 4, Venerdì – Firenze. I preti di Roma avranno molto da meditare sulle conseguenze della spietata decapitazione di Tognetti e Monti. La sottoscrizione nazionale procede a maraviglia. Lo stesso nostro governo ne è spaventato. Eppure la Consulta Romana non è ancora sazia di sangue, e pare disposta a mandare a morte l’Ajani, che sarà fra breve giudicato».
«Dicembre 6, Domenica – Firenze. La sottoscrizione per Tognetti e Monti procede a maraviglia. La fortuna di quelle povere famiglie è assicurata. Servirà di stimolo e di conforto a chi si sacrificherà per la Patria. Ferita più mortale non si poteva fare al Papato ed al Bonaparte».
«Dicembre 9, Mercoledì – Firenze. La maggioranza della Camera oggi ha dato voto codardo e vituperoso contro la proposta Ferrari per le famiglie dei giustiziati Tognetti e Monti. Il deputato Gutierrez è uscito dall’aula all’ora della votazione. Floriano Del Zio per quest’atto di debolezza gli ha detto severe parole nel Salone dei Dugento, ed aveva ragione. Col Ferrari mi sono trattenuto stassera, e mi discorreva infastidito e sdegnato contro il Gutierrez, a cui dava il nome di traditore. Io ci ho riso di cuore. Egli mi ha chiesto perché ridevo; ed io gli ho risposto che ridevo della sua semplicità, quando si adirava per una cosa che accadeva tutti i giorni ed alla quale io sono da venti e più anni assuefatto. Gli uomini di onesto e fermo carattere sono rarissimi».
«Dicembre 15, Martedì – Firenze. Gli emigrati romani hanno fatto una manifestazione sotto gli Uffizi, ed hanno presentato una petizione alla Camera domandando che il Parlamento ed il Governo cerchino le vie di salvare la vita all’Ajani ed al Luzzi, condannati dai tribunali del Papa all’ultimo supplizio. Io credo che questo fatto accelererà la esecuzione di quei due bravi patrioti. Motus in fine velocior.Il Papa poi potrebbe rispondere al governo italiano: o che voi non avete giustiziato per mani del boja due in Bologna nel giorno undici di questo mese? E che replicare?».
«Dicembre 16, Mercoledì – Firenze. Gli emigrati romani in processione son venuti alla Camera dei deputati ed al Senato, e avanzatasi una deputazione presentò una petizione per gli ultimi condannati dal governo papale. E pare che avranno salva la vita. Almeno lo si dice sottovoce. Tra le viltà ed il sangue maturano i fati d’Italia. Il Papato cadrà, ma in amplesso con la Monarchia, sua inseparabile, se non amica, certamente alleata nel male. Il Papa ed il re sono la pestilenza, la fame e la guerra uniti insieme. Pare che il Manabrea sappia che gli ultimi condannati di Roma non saranno consegnati al carnefice».
«Dicembre 17, Giovedì – Firenze. Pianciani mi ha detto che sa da fonte sicura che il Papa è gravemente preoccupato delle proporzioni assunte dalla sottoscrizione in favore delle famiglie Monti e Tognetti. Or si crede che non farà eseguire le sentenze capitali degli ultimi condannati».
«Dicembre 21, Lunedì – Firenze. Ho domandato al Manabrea sulle sorti dei condannati Ajani e Luzzi. Mi ha detto che, fidando nelle parole di un Personaggio che può tutto, si ha quasi certezza, anzi la certezza che saranno salvi. Gli ho parlato eziandio dell’avvocato Petroni, di cui niuno gli fece mai cenno, secondo che egli mi disse: e siamo rimasti di accordo che gli scriverò una Memoria. Io ho passato la sera con Depretis. Gli ho parlato di Tamajo e del Ferrari per nominarli membri della Commissione d’inchiesta sulla Sardegna: ma dubito che tali nomi gli garbino. Depretis è sempre piemontese».
«Dicembre 24, Giovedì – Napoli. Siamo stamani arrivati in Napoli con qualche mezz’ora di ritardo. E senza neppure prendere riposo ho corso dalla Signora Paradisi Ossani, la quale mi ha parlato dell’impegno che aveva il Rudinì ed il governo di salvare la vita ai condannati romani Ajani e Luzzi. Vorrebbero che io andassi a Roma per parlare al Sagreti che, sebbene in odio allo Antonelli, ha però sempre grande influenza come Uditore Santissimo. Io gli ho risposto che non avevo difficoltà di prestarmi a questa missione, che ha per fine non l’interesse, non gli onori, non rendere servigi al governo, ma di tentare la conservazione in vita di due patrioti. […]. Stasera non sono uscito di casa dopo che son ritornato dall’Ossani. Ho bensì veduto per un momento Jacopo Comin, il quale mi ha detto che fecero pessimo viaggio, che arrivarono in ritardo, che non c’è nulla di nuovo. A Roma gli dissero che lo Ajani e Luzzi saranno salvi. Sarà».
«Dicembre 25, Venerdì – Napoli. Sono stato a visitare Nicotera e la sua famiglia. Vi ho trovato Francesco Calicchio, che mi ha fatto la storia del meeting per Tognetti e Monti».
«Febbraio 15 [1869], Lunedì – Napoli. Stamani col treno diretto delle ore 10 e 35 parto per Roma, e domani continuerò per Firenze. Quanto mi annoja questo viaggio, anco perché non sono in buona salute».
«Febbraio 15, Lunedì – Roma. Locanda Costanzi. Alle ore 10,45 antimeridiane sono partito stamani da Napoli col treno diretto. Il Capotreno e ajuto fabbricatore mi hanno collocato in uno scompartimento di vagone assai comodo. Eravamo soli io ed il Sig. La Haute fratello. Ci siamo scambiate brevissime parole. Io ho letto sempre o dormito. In Ceprano abbiamo cambiato vagone, ma mi son trovato pure comodo sino a Roma. Sbarcato in questa stazione ho spedito i bagagli con l’omnibus alla Locanda Costanzi, ed io sono corso diffilato a casa di… L’indirizzo che mi avevano dato non era esatto: abita invece al… Sono finalmente arrivato alla sua porta. Il suo cameriere mi ha detto che si era messo a letto perché catarrato. Gli diedi un piego chiuso che conteneva un mio biglietto di visita, perché glielo recasse, e mi son seduto ad aspettare la risposta nell’antisala, dove quattro secolari giuocavano alle carte. Il cameriere si è fatto aspettare per un poco, poi è uscito accennandomi che pazientassi ancora un momento. Appena decorso un minuto ebbi il passo, e mi ha ricevuto con squisita gentilezza e riguardo. La conferenza durò un’ora, intima, sulla situazione e su quello che si può fare per salvare Ajani e Luzzi senza compromettere la dignità del Governo. Egli è d’opinione che i Giudici della Consulta abbiano il diritto non solo, ma il dovere di farlo; perché gli agenti secondari non possono, né devono subire la pena capitale riservata ai capi della insurrezione. Egli afferma che anco gli avvocati di Tognetti e Monti sbagliarono la difesa, e ha suggerito l’indirizzo da darle ora che si rivede il giudizio dei condannati in grado di appello. Mi ha confermato che fu uno sproposito lo invio del generale Della Rocca e la lettera scritta al Papa da Vittorio Emanuele. Il Papa si trovò messo in una falsa posizione, e pareva cedesse per pressione. Né il Papa Pio IX è uomo da lasciarsi soverchiare per lusinghe o intimidazioni. Il generale Della Rocca non profferì verbo. Il Papa, posto sul tavolo il plico suggellato, tenne in piedi e chino il generale, che finalmente proruppe: “Non ho nulla da dire”. Il Papa da parte sua: “E allora non ho che da darvi la benedizione”, e lo congedò con un segno di croce. Questa è pura storia. Il Papa si duole pure che il governo vessi i Vescovi – e questo non è vero – e che manchino, come gli hanno mancato frequentemente, alle promesse. Mi ha soggiunto infine: Pio IX è inesorabile, quando è ferito personalmente. La nostra conversazione è stata lunga, né io posso riferirla tutta, neppure per sommi capi. Preme bensì che io mandi in tempo a Firenze per suggerire al Manabrea, Presidente del Consiglio de’ Ministri, quello che egli deve fare “immediatamente”».
«Febbraio 16, Martedì – Firenze. Sono arrivato alla Locanda del Pappagallo alle ore 10 stassera, e immediatamente sono andato al Ministero degli Esteri per vedere se vi trovavo il Presidente del Consiglio conte Luigi Federico Manabrea. Non c’era. Gli ho scritto breve letterina avvertendolo della urgente necessità d’un colloquio intimo: io tornerò domani verso le ore 10. Ho consegnato la lettera all’usciere con espresso incarico di portargliela subito a casa sua».
«Febbraio 17, Mercoledì – Firenze. A mezzogiorno ho avuto un lungo ed intimo abboccamento col Manabrea, Presidente del Consiglio dei Ministri. Gli ho riferito quanto in Roma mi fu detto da S. intorno alle sorti di Ajani e Luzzi. E’ rimasto scosso. Voleva che io tornassi a Roma col suo incarico di parlare agli Avvocati per parlare alla loro volta ai Giudici. Gli ho risposto che io non poteva accettare missione alcuna, né segreta né palese, dal Governo; che pensasse ad una persona rispettabile, e non leggere e contennende come il Massari e il Civinini, che tempo fa furono mandati a Roma. Lo feci avvertito che se Ajani e Luzzi, o uno solo dei due, fosse giustiziato, il mondo imputerebbe tutto al Governo italiano, che commise la imprudenza di inviare con solennità il Della Rocca per mettere il Papa in una dura e falsa situazione. Gli ho raccontato come il Papa ricevette il Della Rocca. Egli mi ha risposto che non era così; che il generale conferì col Papa per 40 minuti in molta cortesia, e che il Della Rocca stesso aveva riferito a lui, Presidente del Consiglio, i particolari del colloquio. Io ho replicato: qui c’è un dilemma: o il Della Rocca mentì, od il Papa, che narrò le cose fedelmente al S., appena ebbe la visita. E Manabrea prontamente a sua volta: Il Papa Pio IX è uomo cattivo. In Roma coi preti non si può trattare: non c’è ombra di lealtà e di buonafede. Gli ho narrato come il Papa nelle sue intime conversazioni si sfogasse contro il Ministero italiano, che non atteneva mai le promesse che faceva. Gli ho detto che il Papa era indispettito particolarmente per non avere fatta la nomina al vacante Arcivescovado di Spoleto, cosa alla quale teneva grandemente. Manabrea mi ha risposto che anco questo era falso: non essersi mai impegnato il Ministero a provvedere subito la Sede di Spoleto; aver bensì il Ministero manifestata la intenzione di provvedere quella metropolitana del suo Arcivescovo, ma a condizione che Roma, cioè il Papa, acconsentisse di ridurre alla metà tutte le Sedi vescovili del Reame d’Italia. Ben diffuso e intimo è stato il colloquio mio col Manabrea. Finimmo perché da mezz’ora era in antisala il Ministro inglese che aveva chiesta udienza. Ci siamo separati con reciproca promessa di segreto assoluto delle cose dette fra noi. Stassera partirà il messo a Roma; ignoro la persona a cui il Manabrea avrà confidato questa missione».
«Febbraio 22, Lunedì – Firenze. Manabrea, Presidente del Consiglio, mi ha detto oggi che la Consulta di Roma emendò la sentenza capitale per Ajani e Luzzi. Io mene sono consolato. La mia parte ce l’ho avuta anch’io. Manabrea mi ha detto: Sebbene il consiglio che mi deste venisse da un deputato di Sinistra come voi siete, io l’ho eseguito: ho passato momenti di grande ansietà. Gli ho risposto: Un deputato di opposizione democratica che avesse irritato voi moderati nella politica si sarebbe guardato bene di darvi quell’utile e disinteressato consiglio, mercé cui si è riusciti a salvare quelli due generosi romani: il sangue loro vi sarebbe caduto sopra, per lo sproposito dello invio di Della Rocca e dei buffoni Massari e Civinini.
«Io non so intanto come si è divulgato che io ci ebbi mano in questo negozio. Il Mordini, presente il Cucchi, è venuto a felicitarmene. Io ho negato. Mi dispiace che si sappia. Cucchi però sapeva tutto, perché io nulla gli avevo celato, e aveva piena notizia delle mie relazioni da quando eravamo insieme in Roma nei terribili giorni di 8bre del 1867. Cucchi mi ha detto stassera che aveva già fatto il suo testamento, aveva ordinate tutte le sue cose, aveva pronti amici prussiani e inglesi che lo avrebbero accompagnato sino alla frontiera papale, e avrebbero fatto testimonianza della sua presentazione nel caso la Consulta avesse confermato la sentenza di estremo supplizio contro l’Ajani e il Luzzi. E questa risoluzione egli aveva preso irrevocabilmente nel massimo segreto: solamente lo sapevano Giuseppe Guerzoni, Renucci e Benedetto Cairoli. Di queste cose ho pur ragionato con Ludovico Frapolli, col quale siamo andati a conferire nelle stanze segrete del Grande Oriente».
«Febbraio 23, Martedì – Firenze. E’sempre scarso il numero dei deputati. La Camera funziona in restrizioni in onta allo Statuto. Notizie importanti non abbiamo oggi. Il Mordini mi ha riconvenuto per la curiosità di sapere com’è andata la cosa a Roma per Ajani e Luzzi: io gli ho detto quello che si poteva dire».
«Maggio 12, Mercoledì – Napoli. Stassera ho visitato la Signora Marietta Paradisi Ossani, la quale mi ha raccontato come il Raeli, siciliano ed oggi Consigliere di Stato, si profferisse a fare rivelazioni alla Consulta di Roma nel processo Fausti a patto di danaro. Essa medesima lesse l’autografo del Raeli che è tuttora in mani di Monsignor… che io conosco pure intimamente, e della cui opera mi son valso per salvare la testa all’Ajani e al Luzzi».
«Gennaio 3 [1870], Martedì – Napoli. Dopo desinato sono andato alla direzione del Pungolo ed ho conferito col deputato Avitabile e col Comin. Quest’ultimo era in orgasmo perché teme un fallimento di un agente di cambio di cui si fidò sempre e oggi barella […]. Io non prenderei mai parte al giuoco della borsa. Presso il Comin ho trovato il fratello di Tognetti, dal quale ho saputo che Carlo Mileti non ha pagato e non è disposto a pagare i danari che raccolse per le famiglie di Tonetti e Monti. Gli ho sugggerito che lo convochino in Tribunale. Più tardi sono stato a visitare Francesco De Luca».
«Settembre 25, Venerdì – Roma. Ho riveduto l’Ajani e l’ho informato della parte che Monsignor Sagreti ebbe nella sentenza della Signatura per salvarlo dalla morte. Più tardi sono salito al Quirinale ed ho fatto visita al Sagreti, Uditore Santissimo. Egli si è immensamente rallegrato di questa cortesia che gli ho usato. Si è raccomandato a me di ottenergli che gli conservino l’alloggio nel caso dispongano del Quirinale, e di fare altresì che al Maggiore Sagreti suo fratello non sia fatta molestia in Viterbo.Gliel’ho promesso ed ho scritto subito confidenzialmente al Ministro Sella. Il Sagreti mi ha detto che ier sera vide il Papa, che è grandemente avvilito. E’ come cascato dalle nuvole, perché sinceramente credeva che il cielo l’avrebbe soccorso a respingere questa invasione. Pio IX è superstizioso e vano. Giovane fece vita dissoluta in crapule ed in puttane. Fra gi altri eccessi di libidine, ebbe commercio con una sua sorella germana. Il bello è che egli stesso ne discorreva col Conte Cattabeni, suo intimo amico di prima adolescenza, che io conobbi in Ancona. Il Cattabeni fece questa rivelazione al Pianciani in Ginevra, ed il il Pianciani lo ha ripetuto a me ier sera. Al Cattabeni confidava il Papa attuale: “Sai, sono ricaduto con mia sorella. A dir vero questo è un peccato troppo grave, e non so se questa volta la Vergine me lo perdonerà”. Monsignor Sagreti mi ha pur detto che Pio IX non ha stima né affetto per alcuno! Mi ha parlato acerbissimo contro il Cardinale Antonelli, e mi ha detto che ier sera ne ha riconvenuto il Cardinale Barardi.
«Monsignor Sagreti con raffinatezza pretesca mi ha domandato se io credevo di lunga durata il regno di Vittorio Emanuele, che oggi si acclama tanto. Gli ho risposto che la Monarchia era logora come il Papato, e che cadrebbe come il Papato, corpo infradiciato, nel dispregio comune. Già, il Sagreti ha soggiunto, io comprendo il potere assoluto, comprendo la repubblica; non so farmi un concetto del regno costituzionale, che è un assurdo. Il Sagreti mi ha detto che conferiva volentieri con me per dare notizie e consigli; ma d’entrare in relazione diretta con altri, non vuol saperne affatto. Non si fida».
«Settembre 24, Sabato – Roma. Mi sono alzato all’alba. Fatto il lavabo solito, sono uscito solo e sono andato a Porta Pia per vedere le barricate che stanno disfacendo e i guasti fatti dal cannone. Le stesse sono decapitate, le colonne e le basi di marmo rotte; la iscrizione tutta rovinata. Più in là vi è la breccia, che è molto larga. Le mura sono della Villa Bonaparte sono crivellate. Stavano riparandole. Porta Salaria è tutta spezzata. Sono le palle che hanno ucciso il regno temporale dei Papi. Ne era tempo! Ho osservato che erano a vedere la breccia in squadra giovani chierici irlandesi. Essi serberanno lunga memoria di questo avvenimento che ha restituito la nostra Roma all’Italia».
«Settembre 27, Martedì – Roma, Alberto Costanzi. Alle 9 sono uscito di casa. In via S. Nicolò Tolentino ho incontrato Luigi Pianciani e siamo andati insieme discorrendo sino a piazza Colonna […]. Indi sono andato all’Albergo di Roma ed ho accompagnato la Signora Nicotera, Enrichetta Di Lorenzo e Silvia Pisacane sua figlia per far loro vedere alcune cose girando in vettura. Siamo stati al Pantheon, alla Cancelleria, traversato il Ponte Sisto, per Trastevere al Ponte di ferro, alla casa di Cola di Rienzo, alla Cloaca Massima. Nel piazzale della Bocca della Verità il vetturino ci ha mostrato il punto dove fu reciso il capo a Tognetti e Monti».
Da Cagliari a Nuoro, email non ricevuta
Caro direttore,
ho appena finito di leggere, sul numero de L’Ortobene quest’oggi [15 luglio 2016] pervenutomi a Cagliari, il bell’articolo di Michele Pintore dedicato a “il vescovo capace di sfidare la massoneria”, a monsignor Salvator Angelo Maria Demartis, cioè, presule a Nuoro dal 1867 – quando si sbloccarono, dopo lunghi anni di sede vacante, le nomine episcopali con exequatur regio – al 1902. Questa promozione del carmelitano (dell’antica osservanza) originario di Sassari e in perfetta amicizia con Pio IX, si abbinò a quella di monsignor Francesco Zunnui Casula, che aveva retto come vicario capitolare proprio la diocesi di Galtellì-Nuoro, il quale fu destinato alla sede di Ales-Terralba. In terza battuta bisognerebbe ricordare che i due – Demartis e Zunnui Casula – poterono, in virtù proprio del loro mandato, e in compagnia del presule (“liberale” e antinfallibilista) di Iglesias Giovanni Battista Montixi partecipare ai lavori del Concilio Vaticano I che si aprì alla fine del 1869 per concludersi, dopo la contrastata votazione sul dogma della infallibilità pontificia, alla vigilia della presa di Roma manu militari.
Chi ha scritto diffusamente di quelle vicende è stato Ottorino Pietro Alberti, storico della Chiesa (e non soltanto della Chiesa), in particolare nel suo I vescovi sardi al Concilio Vaticano primo, che uscì per la Libreria Editrice della Lateranense nel 1963, in contemporanea con l’altro Concilio, quello giovanneo (e poi paolino), di tutt’altro segno che quello di papa Mastai Ferretti. Di quel medesimo periodo sono diversi articoli che don Ottorino – al tempo professore della Lateranense a tempo pieno – pubblicò su L’Ortobene, il settimanale della sua amata diocesi di provenienza. Ricorderei al riguardo – se è ammessa questa digressione che vuol dare giusto onore alla testata allora diretta da don Gonario Cabiddu (con le frequenti collaborazioni di mons. Pietro Maria Marcello, don Rosario Menne e anche del giovanissimo don Pietro Orunesu o del chierico Pietro Puggioni) – almeno i seguenti del 1962: “L’autorità del Concilio Ecumenico” (25 marzo), “Infallibilità del Romano Pontefice e infallibilità del Concilio Ecumenico” (25 giugno), “Approvazione e promulgazione dei decreti” (10 luglio), “Dalla Basilica Vaticana il Verbo al Mondo” (25 ottobre). Nel mezzo, appunto, anche “La Diocesi di Galtellì-Nuoro al Concilio Vaticano I” (7 ottobre), pagine che, variamente rielaborate, sarebbero poi rifluite nella cennata opera edita dalla Lateranense.
Ho creduto giusto fare questa premessa, a motivare la quale certo anche contribuisce la memoria albertiana, ora che siamo giusto nel quarto anniversario della scomparsa del caro arcivescovo (con cui, dopo lunga buriana, ebbi intensi rapporti di studio e amicali, a Cagliari e a Nuoro) – perché la ricostruzione che Pintore fa delle vicende nuoresi dal 1867 in poi, passando per i moti di su connottu (primavera 1868), proprio ai materiali d’archivio e alle letture che ne dette Alberti fa diretto e immediato, ancor tacito, riferimento, dando per scontato quel che scontato non è. E come mi permisi, nei frequenti scambi avuti con lui, di far cordialmente notare al presule/storico, il quale una volta – esplicitamente riferendosi al lavoro sui vescovi sardi all’assise conciliare – mi confidò che quella interpretativa era proprio… “la linea della committenza”, cui non avrebbe potuto disattendere.
Ora io non credo che Alberti, scrivendo del vescovo Demartis, della massoneria nuorese, delle vicende municipali di su connottu ecc. rappresentasse un quadro che non lo convincesse; credo anzi che tutta la sua formazione anche culturale, oltreché ecclesiale, lo portasse a considerazioni e conclusioni esasperate, in chiave, diciamolo pure, dottrinaria e ideologica, dando corpo pesante – la loggia locale quasi materializzazione di ogni miscredenza immaginabile – a realtà invece assai più labili e disorganizzate, quasi estemporanee, di quanto ipotizzato. E dirò perché, non senza aver anche chiarito che nel quadro generale dell’umanesimo liberomuratorio del tempo entravano sì elementi di natura spirituale lato sensu, ma entravano soprattutto giudizi politici.
Si consideri che nel 1869, l’anno stesso in cui ambienti latomistici promossero l’anticoncilio delle intelligenze “laiche” d’Italia in opposizione al Concilio piino, alla costituente massonica celebrata a Firenze nuova capitale del Regno fu respinta con una maggioranza nell’ordine del 90 (e più) per cento la proposta, proveniente dal Venerabile della loggia “Mameli” di Sassari, di abolire la invocazione al Grande Architetto dell’Universo sostituendola con l’elogio del Progresso Indefinito. Il che significa che il pur acceso anticlericalismo del tempo non era comunque sfociato nella irreligione e tanto meno nell’ateismo.
Di più: è da ricordare che nell’anno stesso dei moti di su connottu, con il placet del pontefice Pio IX furono decapitati a Roma (nonostante i… principi non negoziabili che pochi anni fa hanno impedito i funerali religiosi di Piergiorgio Welby, dopo trent’anni di sla!) Monti e Tognetti, due operai rispettivamente di 33 e 24 anni, per i quali vanamente era stata chiesta la grazia, dopo la condanna per l’attentato alla caserma zuava Serristori. I candidati al patibolo dovevano essere quattro, ma dopo le prime due esecuzioni, alcuni esponenti della democrazia repubblicana e massonica – fra i quali si distinse Giorgio Asproni – crearono un movimento d’opinione nazionale contro la pena di morte, in uno all’apertura di sottoscrizioni (come ad Iglesias) per sovvenire alle necessità familiari dei due giustiziati. E la corte papale non ebbe il coraggio di mandare al boia anche gli altri due – Ajani e Luzzi – , per i quali si commutò la ghigliottina in ergastolo.
Dovrebbe anche ricordarsi che, ancora negli anni di regno di Pio IX, diverse logge massoniche sarde consegnarono all’onorevole Asproni le petizioni da depositare alla Camera per l’abolizione della pena capitale anche in ambito statale, così come avvenuto fin dal 1849 nella gloriosa (e breve) Repubblica Romana, quella stessa in cui morì, sotto il fuoco dei francesi chiamati dal papa spodestato, il poeta mazziniano ventiduenne Goffredo Mameli. (E la pena di morte fu infine abolita col codice promosso dal ministro Zanardelli, massone pure lui, nel 1889, per esser poi reintrodotta dal fascismo).
Questo il quadro su alcuni valori civili e di umanità di fondo, in ambienti genericamente laici e massonici e ambienti ecclesiastici, anche sardi, del secondo Ottocento. Il vescovo Demartis era ovviamente, per la sua formazione spirituale, ecclesiale e culturale completamente dentro l’impostazione di chi aveva emarginato il Rosmini e le sue tesi sulle “cinque piaghe della Chiesa” e consegnava al cardinale Antonelli – segretario di stato neppure prete (era diacono) – ogni potere di governo. Ne scrive a lungo, ancora una volta in una logica di… combattente, lo stesso Alberti, in diversi articoli e saggi che puoi ritrovare nel suo Scritti di storia civile e religiosa della Sardegna, uscito per i tipi cagliaritani delle Edizioni della Torre nel 1994, in cui sono anche rifluiti diversi contributi anticipati, negli anni fra il 1969 ed il 1971, sulla rivista Frontiera, fondata e diretta da Remo Branca. Mi riferisco in particolare a “La Sardegna e il Concistoro del 22 febbraio 1867”, “Pio IX visto dalla Sardegna”, “Il Concilio Vaticano I e la Sardegna” ed anche a “Posizione della Chiesa, delle autorità civili e della Massoneria nella sommossa nuorese del 1868”, oltreché “Mons. Salvator Angelo Maria Demartis e mons. Luca Canepa vescovi di Nuoro”.
Operava a Nuoro, in quegli anni, una piccola loggia che s’era dato il titolo distintivo di “Eleonora [d’Arborea]”, implicitamente gemellandosi all’oristanese “Mariano IV”, sulla scia di quel mito nazionalitario sardo che, alimentato dai falsi d’Arborea, aveva appassionato la massoneria isolana e di cui scrive benissimo Lorenzo Del Piano. Esitai a suo tempo un libretto (fuori commercio), avendo recuperato i pochi documenti certi disponibili, riguardanti le vicende di quella compagine e caratterizzando in particolare alcune personalità fra le quali erano Giuseppe Cottone, il medico siciliano amico di Asproni che tanto fece della epidemia colerica del 1855, don Gavino Gallisay – sul quale di recente L’Ortobene ha ospitato un bell’articolo biografico ricordandolo anche come l’impresario costruttore del cimitero di Sae Manca, e che fu pure il capitano della compagnia antibanditesca quando il governo ritirò i carabinieri dalla Barbagia – e altresì Salvatore Pirisi-Siotto, avvocato e sindaco massone e, dopo la morte di Asproni (1876), deputato eletto nel collegio nuorese ma portatore di una linea politica molto diversa dalla sua.
Di queste personalità così diverse fra di loro per dato biografico e rimando politico (in specie l’ultima rispetto alle altre) e anche di ulteriori che soltanto in via probabilistica possono essere riportate alla loggia – perché tratte da qualche cronaca allusiva presente sul quotidiano Il Corriere di Sardegna, nel quale scriveva più di tutti, non firmando, il rettore di Orune don Francesc’Angelo Satta Musio – il vero avversario del vescovo Demartis –, discussi a lungo con monsignor Alberti nel suo studio nuorese negli anni del pensionamento (doveva essere la fine del 2004). Nello scambio di elementi conoscitivi dell’uno e dell’altro parve a me presente nello storico un tanto di dubbio, di pensieri e ripensamenti, che invece nelle pagine scritte in anni lontani non appariva. Non essendo da nessuna parte sostenibile quanto egli aveva dato per scontato scrivendo della loggia nuorese come di «una delle meglio organizzate in Sardegna», e datandola fin dal 1852, quando invece il Grande Oriente Italiano (poi d’Italia) si sarebbe costituito soltanto nel 1859, portandosi a Cagliari nel 1861 e forse a Nuoro (con la “Eleonora”) nel 1865.
Ecco qui. Spiace che Pintore, eccellente sotto molti profili, non abbia trattato la materia del rapporto nuorese fra Chiesa e massoneria nell’epoca del vescovo Demartis inquadrando criticamente quel tanto delle denunce di persecuzione che egli girava al pontefice. E che potevano fare il paio con quanto aveva (e avrebbe ancora) scritto monsignor Francesco Miglior, teologo del capitolo metropolitano di Cagliari, fondatore di giornali cattolici e del circolo San Saturnino, chiamato a fare da perito al vescovo di Brindisi al Concilio Vaticano I, che vedeva massoni dappertutto – anche nel confratello canonico Giovanni Spano, rettore dell’università di Cagliari – e che poi però finì purtroppo alienato.
Per concludere, poiché si tratta di una storia comunque appassionante: rimando ai bei libri di Francesco Mariani (da cui peraltro dissento su vari giudizi) circa la centrale biografia – fra clero e loggia – di don Francesc’Angelo Satta Musio (Pro torrare a su contu Orune 1750-1850 e Fui Rettore Satta Musio) e rimando, su questa figura e sulle sollecitazioni ricevute per “sistemazioni” di carriere ecclesiastiche quel che Asproni riporta nel suo Diario e quanto è nello scambio epistolare fra il bittese onorevole Satta Musio (fratello del rettore poi assassinato, e massone per certo) e il canonico De Castro, di cui riferisce Del Piano in Giacobini e Massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento, e che è consultabile in Biblioteca Universitaria a Cagliari.
Infine non mancherei di considerare in una chiave meno dottrinaria e definitiva la presunta partecipazione “massonica” all’anticlericalismo strutturato nuorese di quel secondo Ottocento (e anche del primissimo Novecento) di figure che in quella società germogliavano quasi allora e avrebbero compiuto pienamente l’esperienza di loggia in anni giovanili o di maturità, come lo scultore Francesco Ciusa e l’avvocato e parlamentare Pietro Mastino. Se ritardi ci furono nella comprensione delle ragioni alte della politica e del vivere insieme – libertà non censura, laicità non confessionalismo (religione di stato!), democrazia e magari repubblica non liberalsabaudismo – nella Nuoro degli anni ’60 dell’Ottocento e per più d’un cinquantennio, fino al filofascismo di monsignor Beccaro (si salva nel tempo la bellissima figura del vescovo Giuseppe Cogoni con il suo L’Ortobene e collaboratori della tempra di Salvatore Mannironi), questo fu nella Chiesa – larga comunità – non nella massoneria – estrema minoranza testimoniale.
Con cordialità belle, Gianfranco Murtas