“Chi e perché ha ucciso Aldo Moro”, intervento di Pietro Soddu
Intervento di Pietro Soddu in occasione del Convegno “Chi e perché ha ucciso Aldo Moro”, Calangianus, 14 ottobre 2016
Cento anni di Moro
Mattarella, citando Pietro Scoppola ha detto: «attenti a non attualizzare Moro».
Si può essere d’accordo, ma solo ricordando che il pensiero di un grande è sempre attuale.
Così è per gli antichi, così è per i moderni: per Platone, Socrate, Aristotele, Tucidide, Cicerone, Marco Aurelio, Bacone, T. Moro, Voltaire, Hegel, Kant, e poi discendendo al nostro tempo Mazzini, Cavour, Marx, la Rerum Novarum, Don Sturzo, Gramsci, Ghandi, De Gasperi, Croce, Dossetti e Moro.
Il Moro quello della Costituente e prima ancora il Moro giovane, filosofo del diritto
la cui linea di pensiero e i contenuti dell’azione politica erano in gran parte già formati.
Il pensiero di Moro è ispirato dai contenuti evangelici e dalla dottrina sociale cristiana, dalla cultura democratica e dalla giustizia sociale, patrimonio di altre forze politiche. Nella sua visione c’è la persona umana innanzi tutto, le minoranze, le classi popolari, le zone povere, l’emancipazione giovanile e femminile, il “progresso”. Sì, il “progresso”, parola molto difficile, un singolare collettivo che richiama tanti significati e spesso tante controverse strutture concettuali e tanti sistemi politici contrapposti. Per noi cristiani e per Moro il progresso va valutato innanzi tutto con i principi del Vangelo e della grande tradizione della dottrina sociale cristiana, secondo la teologia che vede l’uomo al centro del disegno divino, creato a immagine e somiglianza di Dio e quindi sostanzialmente dotato (di qualunque colore o razza o lingua o credenza) di una uguale dignità, cioè della “dignità umana” che comprende libertà, eguaglianza e solidarietà.
E su questa pietra d’angolo Moro edificò la sua politica e prima ancora il suo pensiero con una caratteristica di apertura al dialogo, al confronto e alla sintesi, che sarebbe sbagliato lasciare in ombra al giorno d’oggi, che vede crescere violenze, discriminazioni e disuguaglianze in tutto il mondo.
Nell’azione politica Moro si trovò ad essere maggioranza e minoranza e non nascose mai il suo pensiero e si impegnò fortemente a convincere gli altri a convergere, a tener conto di tutte le posizioni. Questo in tutta la sue esperienza.
Duro, senza sconti, diretto nelle accuse polemiche, inesausto difensore dei diritti della minoranza, rispettoso di tutte le opinioni in campo, ma inesorabile oppositore delle pretese arroganti, Moro insegnò a un’intera generazione, alla mia generazione, ma anche a quelli più giovani, uno stile e un costume politico che ritengo sia valido anche oggi.
Siamo in tempi difficili ma non lo erano meno gli anni della Costituente e della prima esperienza repubblicana.
Oggi si parla molto dell’esigenza di assumere posizioni nette, di rispettare il principio maggioritario, di mantenere la disciplina, di assicurare stabilità e governabilità, di dare certezza di governo e assicurare a questo la forza necessaria per governare e la durata per realizzare i programmi.
Tutto condivisibile se però si rispetta anche l’altra faccia della medaglia, quella che rappresenta le opinioni e le scelte degli altri, di chi si trova temporaneamente in minoranza. Moro non avrebbe mai usato parole come asfaltare, rottamare, fare i conti, non avrebbe irriso facendo diventare ogni convergenza un “inciucio”. A. Moro non avrebbe mai pronunciato queste parole neppure per condannarle, come espressione di disprezzo, arroganza, minaccia, perché snaturano, deridono e rifiutano l’idea di operare sempre nel dialogo e nel confronto considerando gli oppositori non nemici, detrattori, calunniatori, o anche semplicemente “gufi”, ma persone normali, cittadini liberi di esprimere posizioni differenti e lontane da quelle della maggioranza di turno.
Non era un “inciucio” la ricerca della migliore formulazione dell’art. 1 o dell’art. 7 della Costituzione, non lo era lo sforzo di trovare la giusta espressione dei principi di sovranità popolare, di Repubblica fondata sul lavoro, di parità uomo-donna, della funzione sociale della proprietà, dell’importanza della famiglia e dei corpi intermedi e di tutti i diritti fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione. Questo per parlare dei principi ideali della sua politica.
Per quanto riguarda le vicende e la lotta ricordo la posizione di Moro dopo il voto contrario alla legge cosiddetta “truffa” del 1953. Lui non considerò il voto mancato un tradimento della patria da parte della maggioranza degli italiani, ma una conseguenza anche dell’incapacità della maggioranza e della Dc a spiegarne le ragioni e a fugare le preoccupazioni delle minoranze.
All’apertura della legislatura Moro, molto giovane, era capogruppo e affrontò il tema della sconfitta senza reticenze e senza alibi. Il suo discorso è ancora oggi fondamentale, un testo da tenere presente quando si parla di sistemi elettorali, di stabilità e di governance, per migliorare i quali non bastano le operazioni di ingegneria elettorale soprattutto se contrastano con i principi fondamentali o con i sentimenti popolari.
Moro in sintesi estrema disse: «non è colpa degli italiani, non può essere responsabile il corpo elettorale delle difficoltà della politica e del governo. Dobbiamo esaminare i nostri gesti, le nostre scelte. Ci saranno ragioni che abbiamo sottovalutato se gli elettori hanno rifiutato di avallare una proposta da noi ritenuta ragionevole e utile». Il problema di allora, come quello di oggi se vogliamo evitare che la politica inciampi di continuo con le posizioni dell’elettorato e perda progressivamente la fiducia degli elettori, consiste nel non ignorare i sentimenti e le ragioni dell’opinione pubblica, capire da dove nasce il suo orientamento, e soprattutto la sua sfiducia.
Non lo dico per attualizzare Moro ma per ricordare a noi tutti che questo è il senso più profondo della democrazia, anche se a volte l’atteggiamento della società può non piacerci o essere da noi ritenuto sbagliato. Possiamo e dobbiamo lavorare per riconquistare la fiducia, non per combattere il dissenso.
Moro come ho detto è stato maggioranza e minoranza.
Io che mi onoro ancora oggi di essere stato sempre vicino alle sue posizioni, mi ritrovo ancora nella fermezza della sua opposizione interna alla Dc quando si creavano ingiuste e arroganti condizioni di discriminazione e di esclusione delle minoranze, reagendo con forza, coraggio e intelligenti proposte, innovative e democratiche.
Mi sono ritrovato nelle sue posizioni anche quando ho avuto ruoli di comando, di leader sia nel partito che nel governo della Regione.
Il credo di Moro e anche il mio è sempre stato quello del confronto, del dialogo, della sintesi superiore, dell’inclusione dei ceti popolari nella vita pubblica attraverso le decisioni dei suoi rappresentanti, secondo i principi contenuti nella definizione che lui dava alla Dc: «partito popolare, democratico, antifascista», tre aggettivi, tre proprietà del soggetto politico Dc che dovevano ispirarne l’azione aldilà delle congiunture e delle convenienze temporanee.
Nel lungo periodo i grandi principi rimangono, sono resilienti, e richiedono dalla politica duttilità e sguardo lungo, orizzonti aperti, campi senza recinti o reticolati.
Perciò ritengo importante e attuale il suo pensiero e la sua azione politica.
Chi ha ucciso Moro lo hanno detto le sentenze dei giudici che hanno condannato gli autori materiali. Ma sulle cause, gli ispiratori, i mandanti c’è ancora buio. Se è importante sapere chi ha causato e organizzato la sua morte è ancora più importante esaminare le conseguenze della sua scomparsa.
Le conseguenze sono tutto ciò che abbiamo sperimentato in questi lunghi e travagliati quarant’anni. Ognuno può giudicare secondo il suo punto di vista a chi abbiano giovato e a chi poteva ottenere vantaggi dalla sua scomparsa.
I democratici sinceri e fedeli alla politica popolare, democratica e antifascista di Moro, non hanno e non avranno mai dubbi su chi avesse interesse a farlo scomparire e cancellare la sua visione politica. Ma lascio a voi il giudizio.
Prima di concludere mi preme dire che ho vivo nella mente e nel cuore il ricordo di Moro in Sardegna, soprattutto in due momenti particolari.
A Chilivani, il 25 aprile del 1972, durante la campagna elettorale politica e a Tempio, in Piazza Gallura e in tanti altri centri nel 1974 per il rinnovo del Consiglio regionale. Ovunque Moro fu accolto con entusiasmo e affetto popolare sinceri e spontanei.
A Chilivani Moro si rivolse ai circa diecimila ragazzi e ragazze riuniti all’ippodromo per la “Festa della Libertà”, carichi di entusiasmo e li incoraggiò a guardare con generosità e coraggio al futuro nazionale, europeo e sardo chiamandoli a diventare protagonisti di un forte rinnovamento della politica. A Tempio si rivolse a tutti i cittadini della Sardegna invitandoli a guardare al futuro dell’isola, dell’Autonomia regionale e locale con fiducia, tenendo conto delle difficoltà contingenti ma mantenendo fermo il giudizio sul ruolo essenziale delle autonomie non solo per la Sardegna ma per il paese, a seguirne il lavoro con attenzione critica ma con fiducia, con entusiasmo, con fedeltà ai valori e agli ideali democratici e popolari.
In entrambi i casi Moro sottolineò il valore essenziale della persona umana, nella sua dimensione spirituale e materiale, che comprende la libertà, la dignità, la sicurezza, l’istruzione, il lavoro, la ricerca della solidarietà e della giustizia nella vita economica e sociale e il rispetto della storia e delle ragioni specifiche di ogni comunità. Moro aveva una grande stima per i sardi e un rapporto speciale con Paolo Dettori, che fu uno dei cinque non parlamentari eletti nel congresso del 1973 nella lista morotea, la più piccola, solo l’8%, ma che da qual momento diventò il cuore pulsante del rinnovamento che però la morte di Moro interrupe drammaticamente, ma non ne cancellò l’insegnamento e il valore attuale.
Dopo i grandi cambiamenti che abbiamo vissuto dalla sua morte, la lezione di Moro è sempre forte e vitale.
Stiamo vivendo un tempo che vede messe a rischio tante conquiste e ci fa temere l’affermarsi di una società sempre più diseguale e ingiusta e guidata da pochi. Il suo pensiero ci può aiutare a non basare le scelte politiche sull’assoluto e unico scopo di vincere anche a costo di rinunciare ai principi ideali che sono l’anima della politica e la ragione vera del nostro impegno.
La politica non è una gara sportiva, ma qualcosa di più importante e complesso.
C’è la gara ed è giusto volerla vincere. Ma non si gareggia solo per vincere, si gareggia soprattutto per essere in grado di difendere posizioni ideali, valori, interessi popolari, giustizia e diritti, uguaglianza e libertà, sia come maggioranza di governo, sia come opposizione e minoranza temporanea.
Quel che è in gioco non è una classifica a punti, ma la salvaguardia della condizione umana, il modo in cui viviamo e vivremo, la creazione di una società aperta, la difesa di una libertà senza dominio al posto di un vassallaggio generalizzato, la preservazione del senso della fraternità che include tutta l’umanità e il suo destino e rifiuta gli egoismi dei più ricchi.
Questo è quel che ci dice ancora a distanza di tanto tempo la voce di Moro che parla agli uomini e alle donne di questo tempo anche a quelli e a quelle che rifiutano il passato e pensano che esso sia tutto da buttare.