L’agro pontino e quello di Arborea, somiglianze e diversità. Intervista con Filiberto Bordignon di Alberto Medda Costella
Nella foto: Pietro Frassetto dell’ATM di Zurigo, Don Canuto Toso (fondatore dell’Associazione Trevisani nel Mondo), Filiberto Bordignon, veneto-pontino.
Filiberto Bordignon è di Latina. Ho avuto modo di conoscerlo in occasione dell’ultimo incontro annuale organizzato dalla sezione di Arborea della “Trevisani nel Mondo”. Lui stesso è il presidente della sezione della città laziale. Settantadue anni portati benissimo, un’affabilità spontanea, trasmette gradevolezza nella conversazione. Come uno che ti insegna le cose senza pose professorali. Nel corso delle varie chiacchierate che ho avuto con lui, mi ha dato modo di riflettere sui vari parallelismi e analogie che possono scorgersi tra la bonifica di Arborea e quella dell’Agro Pontino, ma anche tra le comunità venete del Lazio e della Sardegna, evolutesi secondo linee differenti a motivo delle diversità ambientali e storiche proprie dei territori in cui si sono insediate.
Ecco quindi che raccogliere la sua testimonianza è fondamentale, a mio avviso, per continuare ad alimentare il dibattito sulle complessità dell’identità arborense, che a periodi alterni si riaccende nell’agro risanato dalla Società Bonifiche Sarde, la S.p.A del gruppo Comit-Bastogi, che per ragioni del tutto ovvie ha concepito e realizzato una bonifica con obiettivi non tutti omologabili a quelli dell’Opera Nazionale Combattenti.
Bordignon, che non ha alcun legame di parentela con gli omonimi del nostro Agro, in questa intervista ci offre degli ottimi spunti per poter continuare a ragionare sul destino che ha accomunato i veneti arborensi a quelli pontini, i quali nonostante l’incalzante globalizzazione e appiattimento dei costumi, continuano a rivendicare, con orgoglio, quella specificità che li contraddistingue rispetto al contesto in cui vivono.
Signor Bordignon dove è la sua residenza e quali sono le sue origini?
Abito nel podere n° 44, vicino a Borgo Grappa, uno dei centri rurali della bonifica pontina. Sono nato nell’agosto del 1944, dove oggi vivo. I miei erano entrambi del Trevigiano: mio padre di Signoressa e mia madre di Maserada sul Piave. Mio nonno Silvio reduce della “grande guerra” del ’15/18, insieme a mia nonna Giovanna Rossi, arrivò nel novembre del 1932, con sette figli, lasciandone altri tre nel Veneto. Il mese più brutto dell’anno per il luogo dove gli fu assegnato il podere.
Quali furono i motivi che spinsero la sua famiglia a emigrare?
La ricerca di una vita migliore. I miei non erano proprietari di nulla e in Veneto lavoravano la terra a mezzadria. Il Commissariato per le Migrazioni e la Colonizzazione Interna aveva dato loro la possibilità di trasferirsi nell’Agro, in quanto la zona del Trevisano era sovrappopolata. I criteri di scelta erano molto restrittivi. Prima di tutto era fondamentale dimostrare di essere ex combattenti e di possedere determinati requisiti morali, fisici e politici. Inoltre occorreva essere esperti “rurali”, fedeli alla terra, cresciuti nella tradizione, pronti a qualunque ardimento, per costituire un’entità omogenea di “pura razza italiana” – come si diceva allora –, compatta nella sua solida composizione famigliare, unita tutta attorno al suo capo. Una storia molto simile a quella della sua famiglia materna.
Sulla base dei racconti dei suoi familiari, come sono stati i primi anni di vita nella campagna laziale? In quali condizioni hanno vissuto?
Molto dure. In primis le condizioni climatiche e in secundis le difficoltà nel rendere fertile una terra che per la prima volta vedeva la luce del sole. Il terreno veniva arato con le cosiddette “favole”, macchine a vapore, che con corde d’acciaio trascinavano grossi aratri con vomeri di circa un metro, sollevando ciocchi e radici. I miei si trovarono a doverlo coltivare con sacrifici indescrivibili e prima di renderlo produttivo occorsero diversi anni. Tantissimi morirono nell’Agro per le dure condizioni e per la malaria che infestava la zona. L’ONC forniva le sementi e i fattori controllavano che i raccolti venissero fatti nel modo adeguato e le ripartizioni nelle giuste quantità. I primi raccolti furono grano, cotone, ricino e granoturco. Quando si cominciava a stare un po’ meglio, arrivò la guerra. Le nostre case coloniche diventarono rifugio per i tedeschi. In ogni cortile venne scavata una trincea di difesa, mentre le nostre famiglie vennero sfollate in paesi più o meno vicini. La prima linea di difesa tedesca per ostacolare lo sbarco americano che avrebbe dovuto spianare la strada verso Roma fu il nostro territorio. Al rientro a casa, dopo la guerra, non rimaneva più nulla per vivere, neanche per accendere il fuoco. E ripartire fu ancora più dura. Negli anni ’55/60 arrivarono i fondi della Cassa per il Mezzogiorno, che, oltre al grandissimo esborso di denari, portò moltissime industrie a installarsi nella nostra zona, distribuendo stipendi e fiducia diffusa verso il futuro, rendendo le attività agricole marginali.
In che anni avete riscattato il podere?
Nel 1968 ci fu finalmente concesso di riscattare la terra e di dividere i poderi, pagando il residuo monetario all’ONC. Ci fu addebitato perfino il costo del chinino con cui avevamo combattuto la malaria.
Che tipo di comunità era quella dell’Agro Pontino? Da quali zone d’Italia sono arrivati i mezzadri?
La nostra era una comunità molto eterogenea, a prevalenza veneta. Dal 1932 al 1939 arrivarono 412 famiglie da Ferrara, 340 da Treviso, 308 da Udine, 276 da Padova, 233 da Rovigo, 228 da Vicenza, 220 da Verona, 114 da Venezia, 80 da Forlì, 35 da Reggio Emilia, 29 da Belluno, 22 da Modena e 290 da altre province, per occupare i quasi 3.000 poderi. Mentre dal ’39 al 40, cioè alla vigilia della secondo conflitto mondiale, rimpatriarono dall’estero altre famiglie, in particolar modo dalla Francia e soprattutto i trentini della Romania e della Bosnia.
Cosa è rimasto di quel sacrificio e della cultura veneta nell’Agro?
Certamente un territorio meraviglioso, sia per la sua bellezza naturale, per l’agricoltura cui noi abbiamo contribuito e per il benessere che ne è derivato. I giovani oggi non sono così interessati ai sacrifici fatti dalle generazioni precedenti, io direi dalla generazione dei miei, dei nostri genitori. Forse anche noi della prima generazione – intendo la generazione nata nel territorio della colonizzazione, geograficamente lontana da quella di origine delle famiglie – dovremmo fare di più affinché tutto questo non venga dimenticato. Di questo oblio ha anche una responsabilità la scuola, che lascia alla libera iniziativa dei docenti l’approfondimento della storia locale, raramente trattata.
Nell’occasione del recente incontro di Arborea, oltre ad alcuni personaggi storici che hanno fatto parte sia della vostra che della nostra storia, come il prefetto Giacone e l’agronomo Barany, è venuto fuori che alcune famiglie di Arborea hanno dei parenti tra Latina e Aprilia. Lei stesso, in occasione dell’incontro avvenuto in municipio col sindaco di Arborea, ha detto che conosceva il paese sardo ben prima che venisse per il battesimo della sezione dei “Trevisani” nel 1999. Quando ne ha sentito parlare la prima volta?
Conoscevo Arborea ancora prima di venirci personalmente, per diversi motivi. Alcuni cugini, più grandi di me, avendo prestato il servizio militare a Cagliari e a Teulada, appassionati della caccia, andavano con i loro marescialli nelle vostre zone. Mi raccontavano che si fermavano ad Arborea, dove incontravano delle persone del tutto simili ai loro amici e parenti. Mi dicevano: i ciacola come noantri, doga a carte come noantri… E poi anche per merito del vostro campione di ciclocross Mauro Valente, che veniva a vincere le gare nel Lazio e il suo patron di Roma che mi invitava a venire ad Arborea, dai tuoi paesani, anch’io appassionato di ciclismo per ben 25 anni.
Quando ha compiuto la sua prima visita?
Nel 1998, con la “Trevisani nel Mondo”. La prima sensazione è stata come se fosse un posto che già conoscessi. Mi sembrava di essere a casa, con persone amiche da sempre.
Cosa l’ha colpita maggiormente di questo centro?
L’agricoltura, la cooperazione fra genti e costumi diversi che siete riusciti a sviluppare e la rigogliosa natura che vi circonda ha fatto il resto. Tutto questo mi invoglia a ritornare spessissimo per la vostra fiera, per il vostro caseificio, per tutti i vostri prodotti, per i polentari e per tutti i cari amici conosciuti in questi anni.
Quanto è nota Arborea dalle vostre parti?
La nostra sezione di Latina dell’A.T.M. ha fatto molto per far conoscere che in Sardegna vi è un territorio e una comunità simile per storia di bonifica e per tradizioni a quella dell’Agro Pontino di una volta.
Oltre a condividere la vita associativa all’interno della “Trevisani”, che cosa potrebbero ancora fare le realtà discendenti dei veneti di Arborea unitamente a quelle dell’Agro Pontino?
La speranza è che i nostri giovani possano continuare a mantenere vivi i nostri rapporti di amicizia, contribuendo allo sviluppo e agli scambi di lavoro. Solo dandogli la possibilità di incontrarsi potremmo mantenere vive le nostre storie comuni, nate da sacrifici vissuti dai nostri genitori.
Un messaggio finale?
Beh, per concludere vorrei ringraziare particolarmente i vostri tre sindaci conosciuti in questi anni e in particolare mandare un abbraccio fraterno al mio caro amico Bepi (n.d.a. Costella).