Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus. Un racconto lungo di Gianfranco Murtas (Ottava parte)

 

Nel secondo dopoguerra, primissimi anni ’20. Alla vigilia del voto, svariate centinaia di proprietari di bestiame s’erano adunati per protestare contro il ruolo tassa, eptuplicata rispetto all’anteguerra. La scelta della municipalità – ecco l’accusa – era stata quella di caricare quasi l’intero peso tributario sull’agricoltura e di non toccare il ceto dei negozianti che forniva personale all’Amministrazione.

Quest’ultima era entrata nel mirino anche dell’altra parte – quella dei socialisti cioè – se è vero che alla sinistra era stata attribuita la responsabilità delle esplosioni dinamitarde registratesi, a ripetizione, ai danni di vari maggiorenti del paese. «Non vorranno negare i capi del nostro socialismo che queste violenze non siano il risultato della loro predicazione dell’odio contro la cosiddetta classe borghese… che in Arbus non esiste», aveva commentato L’Unione Sarda, aggiungendo poi: «Qui vi è una classe media che vive modestamente del lavoro e del sacrificio di tutti i giorni. E’, questa, gente che dovrebbe essere imitata dai gregari del bolscevismo nell’onestà dei sentimenti e nell’austerità dei costumi».

Attentati e minacce volanti s’erano trascinati come pratica malsana per diversi mesi nell’abitato e nell’agro a danno di ben individuate figure del passato establishment comunale ed a poco era servita la visita compiuta dal commissario di pubblica sicurezza della provincia, il quale aveva cercato di capire e strappare un patto di non belligeranza fra “bolscevichi” e agricoltori.

Quel 3 ottobre era stato una data importante non solo per lui, Giovanni Aru, personalmente ma, più in generale, per la politica amministrativa di Arbus. Gli uomini del sole nascente con corredo di falce e martello erano entrati in forze nell’aula del confronto e della responsabilità municipale; ai cattolici del PPI erano andati i tre seggi della minoranza. L’importante, la cosa più importante era di aver finalmente sconfitto il consolidato gruppo di potere liberal-moderato che non sembrava più rispecchiare la nuova realtà sociale del paese né sapeva interloquire con la consapevolezza civile e politica della classe proletaria cresciuta all’ombra dei cantieri estrattivi fra Ingurtosu e Montevecchio.

Dalla primavera del lontano 1892 Arbus era affidata a un notabilato onesto ma conservatore di cui il cavalier Raimondo Caddeo era il capo riconosciuto, se è vero che gli era stata confermata la sindacatura per ben diciotto anni, fino alla vigilia della grande guerra e che, all’indomani dell’ascesa al Viminale di Benito Mussolini, avrebbe ricevuto, sia pure per breve tempo (sarebbe morto nel 1924), la delega amministrativa del commissario prefettizio Emilio Piras.

 

Il socialismo in via Mazzini

L’esperienza mineraria aveva sposato definitivamente Giovanni Aru al socialismo, a quell’ideologia cioè che, ancora nell’imminenza dell’avvento fascista, con i suoi miti e l’ansia egualitaria aveva conquistato strati sempre più vasti delle giovani generazioni operaie. Il partito di Turati riscuoteva un buon consenso nel paese, così come, peraltro, nei primi dieci anni del secolo era avvenuto per la Vanga e l’Edera repubblicana.

Progenitrice del Partito Socialista (come di quello Repubblicano) era la Società Operaia di mutuo soccorso, che era stata costituita nel 1906 con intenti parasindacali e di assistenza morale (istruzione) ed economica (in caso di malattia) dei soci. Fra i suoi fondatori era anche Antonio Atzeni Racis, parente di Angela la madre di Severa Aru, ed a farne parte erano, da principio, esclusivamente minatori.

Giovanni Aru era anche entrato in giunta, assumendo la vicesindacatura: vicario, fino alla primavera del 1923, del compagno R. Pani. Il Consiglio o l’esecutivo si riunivano, solitamente, la domenica mattina e spesso erano sedute lunghe che si protraevano più del previsto, creando qualche problema alla puntualità del pranzo. Allora le bambine, trepide in attesa, andavano incontro al padre, mentre a casa la tavola era pronta e la pasta fumante.

Il compagno Aru era abbonato all’Avanti! che leggeva da cima a fondo come fosse un vangelo, il vangelo del proletariato. In casa teneva pochi libri – si trattava prevalentemente di testi scolastici – ma il pezzo forte era il vocabolario italiano – il Novissimo Melzi – che per lui assumeva un significato tutto particolare perché era come il simbolo dell’approdo a una cultura dalle larghe prospettive, e in essa si concentravano le chiavi di interpretazione della sempre più complessa realtà contemporanea.

Egli detestava i demagoghi, li temeva perché temeva i guasti che l’esplosione della loro incolta faciloneria massimalista poteva causare a danno, in fin dei conti, dei  più deboli. Sapeva bene che è nell’abicì della lotta di classe la conoscenza – peso e misura – della forza dell’avversario. Figlio della cultura contadina, aveva i piedi ben saldi a terra, era naturalmente portato al realismo.  Per questo, quando fra il 1920 e l’anno successivo si erano susseguiti, ad Ingurtosu come nelle altre principali piazze minerarie dell’Iglesiente e del Guspinese, gli scioperi contro le società multinazionali che, con le concessioni statali, sfruttavano, eh sì!, anche il lavoro durissimo e malpagato degli operai, lui aveva scelto il ruolo più scomodo: quello della ragione e della moderazione. Un ruolo che non gli regalava molti applausi e anzi lo caricava dell’altrui incomprensione, ma che, onesto e pulito, garantiva la sua coscienza di lavoratore, di socialista e di amministratore.

Nella primavera del 1921 la ribellione aveva fatto le sue vittime nel responsabile dello stabilimento e nel direttore di tutte le miniere di quel bacino. Lo sciopero aveva anticipato l’abbozzo di una specie di soviet, la lega sindacale aveva, almeno in parte, cavalcato la tigre, e soltanto gli arresti – non numerosi in verità – avevano fermato i  più scalmanati che, fazzoletto rosso al vento, non s’erano peritati di offendere le guardie regie dando loro della “spia”  e dello “sbirro” e segnalandosi per qualche speciale chiassata (nonché per l’ardita custodia di rivoltelle, cartucce e coltellacci).

Quella certa volta del “biennio rosso”, quando pozzi e gallerie erano stati chiusi, con un atto di forza, dalle maestranze che contestavano la nuova dirigenza delle miniere ed ipotizzavano perfino l’autogestione, egli aveva veramente sfidato l’impopolarità: il suo discorso, chiarissimo, sarebbe stato capito soltanto un tempo successivo, quando la congiuntura internazionale, col crollo dei prezzi dei minerali, avrebbe imposto, secondo stringente logica capitalistica, l’abbassamento dei salari, la riduzione della produzione e l’espulsione di una larga fetta di mano d’opera dal ciclo industriale. «Dobbiamo rispettare le funzioni di ciascuno, gli ingegneri facciano gli ingegneri, gestiscano gli impianti che danno lavoro, profitti e salari, ed i minatori facciano i minatori. Tanti di noi sono addirittura analfabeti, non hanno scuola, nessuno qui ha conoscenze tecniche sufficienti a far marciare Ingurtosu…», aveva detto, press’a poco, parlando in sardo ai suoi compagni e compaesani.

La crisi aveva trovato infine soluzione, gli animi si erano placati, la produzione era ripresa… Non si era rinunciato a nulla, a nessuna delle rivendicazioni – era giusto non rinunciare -, ma occorreva comunque trovare il modo più adeguato ed efficace per ottenere risposte.

 

I fascisti contro il municipio “rosso”

Non tutto correva liscio, oltre che ad Ingurtosu, anche in paese. Nel febbraio 1922 erano montati altri, ennesimi disordini. In seguito alla pubblicazione del ruolo “fuocatico”, una specie di imposta di famiglia, l’Amministrazione socialista era divenuta bersaglio di una più decisa opposizione da parte dei ceti maggiormente colpiti che accusavano sindaco e giunta di non considerare il fenomeno inflattivo del dopoguerra che aveva svuotato di valore i redditi, i quali pertanto non potevano essere tassati alle stesse aliquote del 1915! Le cronache dei giornali moderati erano ricorse, ancora una volta, all’ideologia riferendo dei «tumulti antibolscevichi».

Si era arrivati a sbarrare il municipio “rosso” con una spranga di ferro, e molti paesani – ma altri avrebbero detto trattarsi soltanto di squadristi, quelli della prim’ora – avevano montato la guardia. L’intero abitato era attraversato da cortei con bandiera invocanti il commissario prefettizio. Erano giunte almeno due decine di carabinieri per vigilare e scoraggiare eventuali colpi di mano. Infine era stato l’inviato della Sottoprefettura di Oristano che, protetto dall’Arma, aveva riaperto la casa comunale ed avviato la difficile ma necessaria opera di pacificazione. La giunta aveva ritirato il ruolo impositivo rinnovando la matricola del “fuocatico”, intervenendo al ribasso su oltre centocinquanta posizioni, tutte intestate ad agricoltori, per circa 7.000 lire complessive.

Intanto avevano iniziato ad affacciarsi, anche ad Arbus, i fascisti. Alla vigilia delle elezioni politiche del 1921 il leader dei socialisti riformisti dell’Isola era stato minacciato di morte, mentre il giornale di Mussolini indicava anche Arbus fra i «covi di sovversivismo anarcoide dove il tricolore non sventola». Le perquisizioni domiciliari avevano messo in agitazione decine di famiglie “rosse”, dopo che una serie impressionante di attentati alla dinamite aveva scompigliato la relativamente tranquilla vita paesana.

Ogni giorno uno scoppio, una casa semidiroccata, un orto sventrato. La filosofia di Giovanni Aru era di “non immischiarsi” là dove non pareva né prudente né tanto meno necessario. Qualcuno forse l’avrebbe definita ignavia, ma si sarebbe trattato di un giudizio superficiale. La corda era tesa, occorreva lasciar fare alle forze dell’ordine, non offrire motivo alcuno all’avversario per una nuova esibizione… Loi non aveva voluto ascoltare il consiglio, e anche lui aveva finito per prendersi il suo tuono.

 

Fuochista ad Ingurtosu

Mentre assolveva alle sue funzioni amministrative egli continuava a lavorare come fuochista ad Ingurtosu, dominus lord Thomas A. Brassey visconte di Hayte. Il suo lavoro consisteva nell’alimentare, con le fascine raccolte nella boscaglia vicina, la caldaia; il vapore così generato spingeva le macchine della laveria, in cui si macinava il materiale prelevato dalle gallerie e dai pozzi, separando blenda e galena (destinate a diventare, alla fonderia di Piombino, zinco e piombo) dallo sterile che veniva accumulato in discarica.

In quel periodo Ingurtosu era un vero e proprio paese di quasi quattromila abitanti, alloggiati in modeste case che riflettevano in pieno il loro senso di precarietà, e comunque confortate dalla presenza dei carabinieri, la cui caserma era stata inaugurata nel 1905, e di un chiesone a tre navate intitolato ovviamente a Santa Barbara, consacrato nel 1916 ed affidato, in successione, a don Giuseppe Diana e a don Raimondo Pirri. Né mancava la banda musicale, costituita nel 1911 per allietare qualche serata dei residenti e, soprattutto, non mancava la scuola elementare, attivata fin dal 1889, che riuniva sotto la guida di una sola insegnante circa quaranta allievi (e altrettanti frequentavano a Gennemari).

I cantieri operativi erano diversi, e fra essi i maggiori erano quelli di Gennemari e Naracauli. Le tecnologie sprizzavano modernità. Nel 1912 fu installato, proprio a Naracauli, un grosso generatore elettrico con motore diesel da 300 HP.

A Baratzu e Sant’Antiogu

Durante le ferie, e quando gli impegni amministrativi glielo consentivano, Giovanni Aru impugnava la zappa e la vanga e trascorreva giornate intere nei terreni che possedeva nell’agro. Due erano i principali, entrambi acquistati dopo il matrimonio: il maggiore, in località Baratzu, lungo la strada per Gonnosfanadiga, pareva denominato da un enorme castagno al quale facevano corona un’infinità di alberi da frutto (mele, pere, susine, pesche, ciliegie, ecc.) e un bell’agrumeto con tanto di aranci e mandarini e limoni; c’era poi un esteso mandorleto che si rivelava come un autentico spettacolo di natura.

L’altro, ricchissimo di fichi d’India, più prossimo al paese, verso il ponte di Caddaxius, era in località denominata Sant’Antiogu. Qui abbondava l’acqua tant’è che Giovanni Aru aveva costruito un vascone in cemento che teneva sempre colmo per le esigenze delle coltivazioni, ma utilizzava anche per quelle di casa, se è vero che vi veniva effettuato pure il bucato.

La “proprietà” comprendeva poi, meno importanti e solenni, due vigneti: quello che Severa Aru aveva ereditato dal padre a S’Attarau, andando verso Montevecchio, che però dava un raccolto modesto compensato peraltro dall’abbondanza di pere e di olive di diversa qualità, e quello di Caddaxius, che apparteneva invece a Giovanni Aru. Era qui che si svolgeva la “vera” vendemmia di ottobre, e le bambine erano puntualmente coinvolte con grande loro gioia: si lavavano scrupolosamente i piedi e… via! venivano messe dentro il tino a pestare l’uva. Era una festa con molti protagonisti compresi cugini e parenti che “allegravano” con un ricco spuntino collettivo.

 

 

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