Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus. Un racconto lungo di Gianfranco Murtas (Settima parte)
Combinavano la devozione cristiana ed il culto ai santi con il diversivo gastronomico o le scene paganeggianti di remotissima ascendenza le feste che si susseguivano, nell’anno, trascinando nei riti collettivi grandi e piccoli. Questi ultimi soprattutto, che in quelle occasioni potevano gustarsi le magiche atmosfere della fiaba fattasi realtà e godersi licenze impossibili e impensabili nella ferialità del calendario.
Il calendario delle feste
A Natale Severa Aru realizzava su pizzugù: a ciascuna delle bambine consegnava, in un sacchetto, un tot di mentine colorate, di tubetti di traggera (che contenevano i “diavolini”, confetti piccolissimi pure essi colorati), e ancora frutta secca, castagne e fichi e uva passa, ecc. Allora le piccole – come facevano anche i loro coetanei – davano inizio al giro delle visite ai vari parenti, i quali a loro volta integravano con modesti doni alimentari (replicati a sa fest ’e is Tres reis, all’Epifania).
La settimana successiva – giorno conclusivo dell’anno – si celebrava su candeberi. I contadini si riversavano per le strade e, rivolgendosi proprio ai bambini del luogo al grido di «a is candeberis!», distribuivano loro grano e granturco cotto e frutta secca.
Il 20 gennaio ricorreva la festa di San Sebastiano, titolare della parrocchia. Essa seguiva di soli tre giorni quella di Sant’Antonio abate, al quale il venerato martire che sfidò l’imperatore Diocleziano era in qualche modo associato in su fogaroi. Tutti si assembravano nella piazza della chiesa centrale. L’edificio risaliva, nel suo impianto originario, almeno al ’500 e successivamente era stato più volte riattato e decorato, fino agli ultimi lavori del 1895 che gli avevano donato, fra l’altro, una nuova facciata, con cornici, colonne e capitelli, ed agli abbellimenti del 1909 ed anni seguenti, con le pitture del maestro di Masullas, l’impianto del gasometro per l’illuminazione di presbiterio e navata, la nuova pavimentazione in marmo al posto del granito, l’installazione dell’organo nella tribuna anch’essa nuova fiammante, ecc. Esso era effettivamente il centro del centro di Arbus e qui, appunto, si dava fuoco alle fascine raccolte, di casa in casa, dai giovani agricoltori.
Qualche bancarella nelle strade tentava passanti e peripatetici con motivi profani, ma tutto sommato il fatto religioso conservava integra la sua centralità. Inghirlandata di rami d’arancio, la statua del santo veniva portata in processione per il paese. Gli arburesi fedeli al loro patrono cantavano e pregavano, portandosi dietro figlietti e nipotini. Con mamma Severa e nonna Atzeni le piccole Aru partecipavano, anche stavolta, devote e… curiose.
Era poi tempo di Carnevale. Ancora niente mascherine, ma la festa prendeva corpo e sostanza piuttosto negli odori e nei sapori delle leccornie e dei manicaretti preparati per l’occasione. Severa Aru friggeva le zeppole oppure le delicate e zuccheratissime meraviglias (chiamate anche “chiacchiere”), e bolliva i ravioli dolci ripieni di sanguinaccio o marmellata. Questi venivano messi dentro un grande cesto, e le bambine avevano l’autorizzazione di mangiarne a piacimento per alcuni giorni. Esse si preparavano da sé il pop corn col granoturco a chicchi piccoli, per il che utilizzavano un apposito attrezzo, simile a quello per tostare il caffè sul fuoco, che rigiravano nel camino od ai fornelli.
Dopo il Carnevale ecco la Quaresima e la Settimana santa. La mestizia della Chiesa che riviveva l’assurda passione di Nostro Signore entrava nella quotidianità degli arburesi, montava – per impoverirla – sulla loro tavola: era concesso mangiare soltanto di magro e ogni azione doveva prendere il segno della sobrietà. Nelle orecchie entrava il suono crepitante di sa zaccaredda, diffuso nell’aria il giovedì santo, mentre il sepolcro del Cristo si riempiva di fiori, candele e nenniris. Poi, l’indomani, si svolgeva la processione di su scravamentu. Alle squillanti campane della Resurrezione, la domenica si combinava la fragranza di su coccoi, il pane speciale con l’uovo nel mezzo confezionato per i bambini, ma non solo per loro…
Il calendario collocava quindi, di seguito, le feste di San Giovanni Battista e di San Pietro, il 24 e il 29 giugno. E nuovamente erano preghiere speciali e riti magici o propiziatori, come il triplice scioglimento dei nodi del fazzoletto (per diventare compari o comari) od il salto dei fuochi di paglia…
La settimana successiva alla Pentecoste si festeggiava la Madonna d’Itria. Recitando il rosario in dialetto, la processione s’incamminava in direzione dell’antica chiesetta campestre, verso la periferia alta del paese, luogo che la tradizione faceva risalire ad una precisa scelta della Vergine che, per affermarla, press’a poco nel 1650, s’era servita… dei buoi (questi avevano girato in tondo per tre volte in un certo sito pietroso e qui i pastori avevano costruito il tempietto installandosi con la statua da loro casualmente rinvenuta sulla spiaggia di Piscinas).
Muovendo dalla parrocchiale, il simulacro della Madonna veniva portato dai confratelli fino all’uscita dell’abitato e, dopo esser stato simbolicamente posato sopra sa perda de Nostra Sennora, veniva posto sul cocchio trainato da un giogo di buoi (adoperato anche per altre processioni), preceduto dai fedeli oranti e seguito dal sacerdote in stola e piviale.
Il 13 giugno – universale festa di Sant’Antonio da Padova – si celebrava la più solenne ricorrenza liturgica, tolti il Natale e la Pasqua, naturalmente. Si doveva festeggiare, ringraziando il Cielo, la conclusione dell’anno agrario ed impetrare la grazia per il successivo. Quasi l’intero paese si trasferiva per devozione presso la borgata di Santadi, a circa 35 chilometri dall’abitato (e a sei ore a cavallo o quindici a piedi), non distante dallo stagno di Marceddì. Là sorgeva una piccola chiesa risalente almeno alla prima metà del XVII secolo, in stile moresco e con campanile a vela. Ancora una volta il giogo di buoi e il cocchio erano i protagonisti, ma la festa coinvolgeva veramente tutti gli arburesi, quelli più devoti e quelli meno, numerosi dei quali, in assemblea familiare, allestivano una propria tracca addobbata con is fanigas ed i più begli arazzi tessuti a casa.
Giovanni e Severa Aru erano soliti partecipare anche loro, come centinaia e forse migliaia di altri arburesi, ai riti in onore del santo che, in fondo, marcavano ogni volta di più il sentimento dell’appartenenza comunitaria dei paesani. Severa, in particolare, era devota a tutti i santi del Cielo e a Sant’Antonio, in particolare, aveva attribuito la grazia della guarigione di Clelia da una brutta polmonite doppia, davanti alla quale perfino il medico s’era arreso. La piccola aveva allora soltanto nove anni e s’era dovuta ritirare da scuola, dove frequentava la terza. Per sdebitarsi col santo avrebbe voluto andare, oltre che con la bambina, anche col marito, al quale però la direzione di Ingurtosu non aveva voluto concedere la breve licenza. E allora lei aveva provveduto in compagnia del cugino Salvatore Floris e della moglie di questi, Giulia.
Il 22 agosto era il turno di San Lussorio – il veneratissimo Santu Luxori – che rappresentava un po’ l’inizio del Ferragosto ritardato arburese. Ritardato e prolungato, se è vero che, dopo il clou, esso durava almeno due settimane inglobando altri riti celebrativi della fine dell’anno agrario e la stipula dei nuovi contratti di pascolo, soccida, custodia delle greggi, bracciantato, ecc.
Le bambine che esibivano allora il più bell’abito del loro guardaroba (tutto bianco, come di pizzo, con delle rose ricamate e una larga cinta ai fianchi), ricevevano del denaro per acquistare sa carapigna che i bancarellari aritzesi e in genere barbaricini vendevano in strada assieme al torrone, al pai ’e saba, alle mandorle ed a quant’altro, noci, nocciole e noccioline, ecc. Si svolgevano balli folcloristici e gare poetiche in sardo, anche se va detto che nel lustro circa della guerra e dell’immediato dopoguerra l’assenza dei giovani impegnati prima al fronte e quindi nella progressiva smobilitazione aveva impoverito la sagra del divertimento popolare.
Un mese più tardi, il 29 settembre, veniva finalmente la festa dei Santi Cosma e Damiano, antichissima anch’essa. La chiesetta campestre loro intitolata, da pochi decenni costruita dagli arburesi dopo un secolare contenzioso con i gonnesi (vertente sui diritti di riscossione del dazio sulle merci vendute nei giorni di festa), non era granché lontana dal terreno di Baratzu, ed anch’essa accoglieva, con straordinaria puntualità, ogni anno, la massa dei devoti che, con questa celebrazione, chiudevano l’agenda delle feste locali.
Nonna Atzeni
Se nell’educazione delle bambine era certamente quella materna la figura dominante, è certo che un buon aiuto veniva dalla nonna, la quale oltre che delle faccende di casa, si prendeva carico di esigenze particolari volta a volta emergenti e non fronteggiabili da sua figlia, che la gravidanza di turno o le conseguenze di quella precedente mettevano sempre più spesso ai limiti delle forze. Era stata lei, per esempio, a svezzare Clelia, che non riusciva ad eliminare il pasto della notte. S’era presa la nipote e, quand’era sola, se la teneva nel proprio letto. Allora una stearica illuminava la camera, e al momento in cui lei si spogliava ordinava alla piccola, per riguardo e pudore, di voltarsi dall’altra parte…
In casa sua Angela Atzeni possedeva un bel telaio e, una volta cresciute – arrivate cioè intorno ai 10-12 anni -, convocava le nipoti più grandi per impartire loro, con buon profitto, le prime lezioni. La tessitura – coltivata anche da sua figlia Severa – era per Angela Atzeni un modo di esprimere la propria creatività: cardava la lana ed attaccava quindi il telaio come fosse un magico strumento d’arte. I suoi movimenti fra taccas e bangus e mannuzzas, srubiu e serradroxiu, spada e pettini, cascia e canneddu, sticcu e fustigu, lissas, peigas e quant’altro del magico strumento, la rendevano, pur vecchia, agile e bella come una ballerina. Era abilissima, ma non solo lei, della sua famiglia d’origine, era esperta nella più antica e suggestiva delle tecniche d’artigianato praticate, in tutta umiltà, nelle case, anche le più povere, di Arbus.
In un censimento effettuato quasi un secolo addietro, erano stati contati ben seicento telai in paese, e adesso certamente la popolazione di maestre tessitrici ed apprendiste era cresciuta. E ad essa – nel novero delle artigiane più brave e competenti – partecipavano a pieno titolo, con nonna Atzeni, anche le sue due sorelle Luisa ed Anna. L’ormai anziana zia Angela, venuta a Conca’e fraizus (dove già abitava, sola in una sola stanza con microcortile, sua sorella Luisa, vedova senza prole) per sostenere la figlia, era ormai diventata uno dei personaggi più noti dell’intero quartiere, rispettata e benvoluta da tutti.
«Ave Maria, zia Angela», «Grazia plena, sorri mia…, comari mia…, filla mia…». Gli eventi che sarebbero conseguiti alla morte della sua Severa – dopo un periodo in cui ella aveva intensificato la propria presenza accanto alle nipoti – le avrebbero imposto, per necessità, un certo distacco. Lei si sarebbe perciò dedicata con accresciuta disponibilità all’altro suo solo figlio, il carabiniere Battista Altea (il quale, dopo un primo e prolungato fastiggiu con Carmelina, la figlia di una grande amica di sua madre, un po’ regista di quell’incontro, si sarebbe fidanzato con la bella e dolce Annunziata Serra, che una volta sposati gli avrebbe regalato cinque figli). Il resto del suo parentado più stretto, cui dava e da cui riceveva attenzioni, era costituito, dopo la morte della maggiore, da sua sorella minore Anna e dalle figlie di questa.
I comandi di Babai e la sua tenerezza
Nell’educazione delle bambine non influivano però soltanto madre e nonna. Al loro si integrava il contributo paterno che assumeva per forza di cose aspetti originali. Babai - come fin dall’inizio aveva voluto farsi chiamare, rifiutando il più formalistico babbu – era, sì, fermo nei suoi comandi, per i quali non spendeva mai molte parole, ma mostrava anche una innata tenerezza che la vita, in fin dei conti bruta, della miniera e della campagna non aveva corrotto. Era fermo nell’insegnare le regole elementari del vivere civile (il rispetto del prossimo, il linguaggio decoroso e cortese, alieno da ogni accenno di volgarità, la compostezza in ogni occasione, a cominciare dalla tavola, il garbo, ecc.), e però non di meno affettuoso, desideroso di “darsi” alla loro compagnia. Era poi scrupolosissimo che niente mancasse loro, nel vestire come nel mangiare e, dopo, nello studio. E comunque era evidente che l’armonia coniugale suppliva ottimamente ai limiti cui Giovanni Aru non poteva, di sua libera volontà, ovviare, perché il lavoro lo portava a dormire fuori di casa ben sei notti su sette!
Consigliere vicesindaco
Ai comizi municipali dell’estate 1914 – proprio alla vigilia dell’assassinio di Sarajevo e dell’inizio della grande guerra sullo scenario europeo – egli si era presentato nella lista proletaria ed era stato eletto consigliere di parte socialista. La competizione era stata vivace, le contrapposizioni con i municipalisti del cav. Caddeo veementi. La consigliatura avrebbe coperto tutti quei quattro anni di guerra e i due interi della smobilitazione e del ritorno alla vita civile dei tanti richiamati. Anche i fratelli Aru erano rientrati ad Arbus uno dopo l’altro. Nell’autunno 1920 il rinnovo elettorale avrebbe assegnato alla sinistra operaia un numero ancora maggiore di municipi in zona, quattordici nell’intera Sardegna
(continua)