Giorgio Pisano e la scrittura in parallelo, di Gianfranco Murtas

 

Mi viene di chiamarla così – scrittura in parallelo – quella che Giorgio Pisano offerse, per collaborazioni, più spesso richieste che spontaneamente offerte, a diverse testate giornalistiche, di lato a L’Unione Sarda, in questi ultimi quarant’anni.

Riprendo, per argomentare di queste, le note di testimonianza anticipate con l’articolo dello scorso 21 agosto su questo sito di Fondazione Sardinia (“Ciao Giorgio, giornalista di sfondamento e bella scrittura”), volte a onorare la memoria dell’amico per il tanto che… nelle distanze ci unì, a partire dalle nostre ascendenze familiari in quel bellissimo paradiso che è Arbus – l’Arbus delle miniere storiche e dell’agricoltura, ma anche l’Arbus dei provetti artigiani nelle loro botteghe o laboratori –,dalle frequentazioni dei professori di Scienze Politiche – fra quelli più “goduti” il caro e compianto amico Tito Orrù, titolare di storia della Sardegna –, dagli interessi variamente declinati per la Massoneria sarda (da cui vennero gli articoli del 1978 e poi del 1981-82, in particolare, sulle glorie antifasciste di Alberto Silicani e sul successo elettorale di Armando Corona nel Grande Oriente d’Italia). E di più ancora, dovrei dire, ricordando la condivisa partecipazione, anch’essa variamente, singolarmente declinata, per l’esperienza comunitaria di Mondo X Sardegna del padre Morittu, dal 1980, ed anche per le drammatiche evoluzioni del fenomeno droga, con il precipizio aids a partire dalla metà di quello stesso decennio e per vent’anni ancora. Tragicissimi gli anni ’90 (ho personalmente accompagnato a morte 400 ragazzi della città e della provincia nella divisione Infettivi dell’Ospedale SS. Trinità di Cagliari e Giorgio seguì quell’avventura). Sicché – è la conclusione, ed è la testimonianza che porto alla sua biografia umana, sociale e professionale – le relazioni nostre mossero per lo più, nel tempo, su questo doppio binario politico-ideale della Massoneria e sociale-umanitario della lotta alla droga.

Scrivendo di Massoneria e poi di Aids

A parte la visita alla anziana vedova del suo antico collega Silicani (Alberto, allora trentenne, era nella redazione de L’Unione Sarda quando la testata fu comprata da Ferruccio Sorcinelli, che la trasformò presto in una gazzetta fascista, dei fascisti duri e puri o della prim’ora, sconfitti poi dall’operazione Gandolfo del 1923, quella dei fasciomori), della quale ho già riferito anche nei particolari, vi furono numerosi contatti circa dettagli ora di storia ora di cronaca da Giorgio ritenuti utili per la stesura degli articoli sul circuito delle logge cagliaritane a lui affidati, o da se stesso presi in carico al tempo della responsabilità di capocronista. Nel novero ne ricordo alcuni al tempo della malvagia pubblicazione delle liste degli aderenti alle logge cagliaritane e sarde, e poi per un focus sulle relazioni massoniche con la politica, quando Forza Italia – da me disistimata in nuce per la grossolanità di idee e di dirigenza, per il più riciclata o improvvisata nonché priva di un pur minimo senso dello stato – parve farsi catino di raccolta civica di molti liberi muratori feriti dalla perdurante doppiezza del PDS e dall’inaffidabilità tardo-democristiana del Patto Segni, cadute per causa propria le altre caselle della democrazia liberal-repubblicana e socialista). Confesso di non aver condiviso in generale, tirate le somme, le analisi di Giorgio circa la complessa realtà massonica che egli tendeva a ridurre in quadri immaginifici validi forse in parte nell’oggi, ma secondo me irrispondenti al vero profondo di una corporazione ideale trasversale ma di robusta storia patriottica e democratica, nonostante le incertezze e contraddizioni di alcuni momenti. Gli feci presenti queste riserve (che ho poi pubblicato in un libro del 2001, Il giusto come fine), senza però risultato sostanziale. D’altra parte, è anche vero che sui ruoli di responsabilità del giornale allora di Terrapieno (direzione e capisettore) gravava un pregiudizio antimassonico che bene si sposava alla fatica che i giornalisti di solito fanno di dubitare di se stessi e dei propri dogmi.

Ma vi furono anche ripetuti scambi informativi su alcuni critici passaggi dell’assistenza curativa offerta dall’Ospedale di Is Mirrionis ai molti giovani degenti per aver sviluppato le malattie opportunistiche, spesso irrimediabili, derivanti dalla perdita immunitaria ex hiv. E quando fui portato in tribunale con una querela, condivisa con Lucio Salis e con lo stesso direttore de L’Unione, e spontaneamente ritirata dopo otto udienze, lui, Giorgio, insistette per una intervista, che molto mi costò rilasciargli, non gradendo per nulla io il palcoscenico. Peraltro sempre m’ero presentato al giudice sì col mal di pancia ma senza la protezione di un avvocato, forte soltanto degli argomenti circa quello strazio, anzi straccio di assistenza pubblica. Era, se ricordo bene, il 1994.

Le annate del giornale conservano a centinaia gli articoli, e anche spesso gli articoli-intervista di Giorgio Pisano che puntavano a dare onore ai deboli, ai modesti Davide contro i potenti Golia. Mi resta oggi questa memoria grata.

Il caso di don Tonio Pittau

Ma ci fu, ho scritto lo scorso 21 agosto, un altro campo che, tanto più negli ultimi tempi, ci affiancò: mi riferisco al caso dell’assassinio di don Tonio Pittau, parroco della cattedrale di Cagliari, nel dicembre 1988. Sia quando, dopo l’uscita del mio Lo specchio del vescovo nel 2003, la cronaca de L’Unione Sarda si interessò al tema con articoli che si susseguirono tutti i giorni per una settimana almeno – credo Giorgio fosse allora il capocronista –, sia più recentemente quando egli stesso scelse di occuparsi del delitto impunito con un libro-inchiesta che partiva dal complesso ricaccio di indizi, o indizi-prove, che ero riuscito a riunire ed esporre nel romanzo e in altri interventi (ed anche in una lettera a Benedetto XVI), con lui potei condividere l’afflizione, soprattutto l’afflizione, per l’incapacità della magistratura cagliaritana di fare luce definitiva, ma anche il proposito di rilanciare, fra tanta generale neghittosità, il grido di giustizia.

Tornerò fra breve, su questo stesso sito di Fondazione Sardinia, sull’argomento, oggi colgo l’occasione di questo contributo alla buona memoria di Giorgio Pisano per ricordare i fatti. Eccoli.

Il 15 settembre 1986, l’arcivescovo Giovanni Canestri otteneva l’obbedienza di don Tonio Pittau, parroco a Sant’Avendrace, circa il suo trasferimento in cattedrale. Col senno di poi si sarebbe detto che lo inviava al martirio.

La sera del 22 dicembre 1988, poco più di due anni dopo quel sofferto “sì”, don Tonio veniva assassinato e portato, con tragica mess’in scena, in un dirupo presso il rio Picocca, nella direttrice Cagliari-Muravera. Fu rinvenuto disteso accanto alla sua vettura, che altri scaraventarono nel burrone, coperto da un gran telo e con un cuscino sotto la testa. Scomparsi gli occhiali, scomparsa la catenina, scomparse le chiavi di casa e della cattedrale. Livido un occhio e livida una mano chiusa a pugno. Porzioni di sostanza cerebrale furono allora trovate da un muraverese (che ne riferì ai familiari) e sepolte per pietà ad un lato della strada alta. Il cranio della vittima era spappolato, la nuca distrutta, e non avrebbe lei, la vittima, potuto distendersi a terra e proteggersi dal freddo della notte, in attesa di soccorsi. In quella notte invece altri entrarono nella sua abitazione, rovistando. Forse quelli che stessi che giorni addietro gli si erano presentati in cattedrale per minacciarlo, forse gli stessi che, presentandosi in talare in simulazione dei due fratelli preti, chiesero al custode dell’auto, sottoposta a sequestro, di poterla visionare e forse manomettere.

L’iter giudiziario di questo caso drammatico dura senza risultato da quasi tre decenni. A suo tempo la salma di don Tonio Pittau non fu sottoposta, contraddicendo la legge, ad autopsia e per tre volte la magistratura cagliaritana ha negato la esumazione delle ossa per avere la conferma di quanto gli agenti della scientifica confidarono ai congiunti: che di assassinio si era trattato mascherato da una volgarissima mess’in scena di incidente d’auto.

I vescovi di Cagliari, uno dopo l’altro, fino a don Miglio, non si sono interessati: nessuno ha chiesto conto alla magistratura del nulla cui essa è pervenuta con le sue indagini e i perché del no dalla ispezione dei poveri resti. Sarà la Cassazione, il prossimo 12 dicembre, a onorare tanta memoria?

Nel suo diario personale don Tonio riferiva del colloquio con l’arcivescovo Canestri il quale gli chiedeva, scongiurandolo in nome della Chiesa, il sacrificio di lasciare la dolce comunità di Sant’Avendrace, abbracciata da appena un anno, per affrontare lo sfascio anche morale della parrocchia di Santa Cecilia, dopo il furto (per commissione e di valore inestimabile) dal Tesoro del duomo, nel 1985, e dopo i molti episodi inenarrabili di licenziosità registrati dentro e attorno alla chiesa-madre della città. Un invio al martirio, un rischio di martirio accettato con disciplina, quello di un prete santo.

Certo una inchiesta, sostenuta dalle molte carte “parlanti” raccolte negli anni dall’avvocato Alfonso Olla e condotta con perizia professionale da Giorgio, avrebbe forse potuto smuovere, meglio di quanto fui capace io, la perdurante inerzia che ferisce memorie commendevoli e sentimenti di molti. Era convinto, Giorgio, quando mi parlò della cosa, di poter andare avanti, portando – in una specie di indagine parallela, supportata dalle testimonianze (ma quanti ne abbiamo perduto di testimoni in questi quasi trent’anni!) – logica e riflessioni a conclusioni. Anche lui a conclusioni.

Il Messaggero sardo

Se di tutto questo ho comunque già trattato, oggi vorrei, con altri materiali, onorare l’amico e la sua fatica civile di operatore dell’informazione. Intestata a lui ho una cartella piena, gonfia addirittura, con  i suoi articoli apparsi su diverse riviste. Evocarne almeno i titoli può valere, mi viene questa immagine, come a posare un fiore sul cippo ideale – soltanto ideale – che reca il suo nome. Fra le testate, prima per dato temporale, Il Messaggero sardo, il periodico curato da una cooperativa giornalistica (con Gianni De Candia presidente e Gianni Massa, poi Milvio Atzori responsabile), finanziato dal Fondo sociale della Regione e destinato agli emigrati sardi. Una bella rivista che si sforzava di tenere aggiornati i nostri corregionali nel continente e nei continenti sulle cose della loro e nostra terra. Si trattò di una collaborazione non lunghissima, durata un triennio appena, ma intensa, tutta puntata sui dati di cronaca, filtrati però sempre da una consapevolezza dei perché, del contesto e, se il caso, delle conseguenze.

Ecco così una sfilza di titoli che vanno dalla primavera 1975 a quella del 1978, dunque parallela al primo lustro circa del lavoro redazione svolto a L’Unione Sarda e nel passaggio delicato di direzione da Fabio Maria Crivelli a Gianni Filippini: “Decreti Delegati. Genitori e studenti governano la scuola” (aprile 1975), “Le colonne del fumo. Cinque arresti in pochi giorni hanno allarmato Cagliari” (luglio 1975), “Una Waterloo per fumatori. Altri arresti nella complicata vicenda cagliaritana” (agosto 1975), “Scuola e società in Sardegna. La scuola sarda non cambia volto” e “ E’ urgente applicare in modo integrale la legge per il diritto allo studio” (ottobre 1975), “La resistenza dei ‘bisturi d’oro’. Con il 1° gennaio è entrata in vigore una legge che impone ai medici la scelta tra ospedale e clinica privata” (gennaio 1976), “Per un cieco scomodo e ‘aggressivo’ il destino è il manicomio” (febbraio 1976), “Condannati 11 marinai dal Tribunale militare. Per aver organizzato un ‘reclamo collettivo’” (aprile 1976), “La guerra della Battigia” (agosto 1976), “La scuola malata. Riprese le lezioni in tutta l’isola, irrisolti i problemi di sempre” (ottobre 1976), “Un cagliaritano più ricco di Agnelli. Il proprietario di alcune cliniche private ha denunciato un imponibile di 682 milioni” (aprile 1977), “Antonio Gramsci patrimonio di tutti. Nel 40° anniversario della morte Berlinguer (parlando dal balcone del municipio) ha ricordato l’insegnamento del grande pensatore sardo” (maggio 1977), “Terremoto in Sardegna. Provocato da un vulcano sottomarino” (settembre 1977), “Una tangente per la casa. Scandalo nella assegnazione delle case popolari” (ottobre 1977), “Si vota nelle scuole. Ottocentomila sardi chiamati alle urne per eleggere i distretti scolastici” (dicembre 1977), “Affermazione dei cattolici nelle elezioni scolastiche” (gennaio 1978), “Imposta la centrale nucleare. Decisa dal CIPE, senza interpellare la Regione, la costruzione nell’isola di una delle ‘basi’ del piano energetico” (marzo 1978).

Società Sarda e l’Almanacco di Cagliari

Sul numero 2 del 1996 di Società Sarda, il quadrimestrale (“periodico di nuovo impegno”) fondato e diretto da Francesco Cocco, Giorgio firma un articolo – titolo “Giornalisti o vassalli?” – che centra l’arduo tema dei rapporti della stampa con l’autorità giudiziaria, tanto più quella inquirente. Polemici i riferimenti al procuratore generale Francesco Pintus, nuovo sovrano dopo la fine dell’epoca di Giuseppe Villa Santa. L’articolo, critico con la magistratura, riunisce valutazioni ed opinioni anche di Luigi Concas, Luciano Violante (per dichiarazioni rilasciate al congresso della Federazione della stampa), Gigi Grivel, Mario Marchetti. La sintesi del giudizio è il seguente: «Si è ristretto il margine di manovra del cronista giudiziario costretto a fornire un’informazione parziale e a utilizzare fonti non controllabili fino in fondo».

All’Almanacco di Cagliari, la rivista che ogni anno, dal 1966, esce puntualmente confezionata dal direttore-editore Vittorio Scano, Giorgio assicura la sua collaborazione per un quarto di secolo circa, a partire dal 1981. Ecco di seguito i titoli dei suoi articoli, per il più (anzi, per la quasi totalità) articoli di apertura, ora commento ora intervista (quasi tutti registrati dall’Opac Sardegna): “E stasera cosa suoniamo? Tra le città italiane, a Cagliari spetta il record dell’incapacità politica e amministrativa” (1981), “Cagliari, quale futuro?” (1982), “Quando le torri si vestono di grigio: Cagliari, ovvero l’immagine di una città rassegnata” (1983), “Cagliari, ovvero l’incertezza del futuro: la città continua a crescere. Tuttavia il disordine edilizio, la disoccupazione, la droga, i disservizi…” (1984),  “Alla ricerca d’una nuova dimensione: la vita di Cagliari procede oppressa da mille problemi e condizionata dall’inefficienza amministrativa ed il sostanziale disinteresse della classe intellettuale incapace di creare stimoli ed attivare fermenti…” (1985), “Buona notte signori!: Cagliari, il letargo continua” (1986), “Così parlò don Paolo!: intervista col sindaco di Cagliari (1987),  “Ieri, oggi, domani: l’Unione Sarda galoppa sicura verso il centenario” (1988), “Solidarietà a Cagliari: il capoluogo alle prese con tossicomani, malati di Aids, ambulanti neri, matti, senzasetto e disoccupati” (1989), “I venticinque anni dell’“Almanacco’” (1990),  “Cagliaritanità in pezzi: crescita tumultuosa ma disordinata, progressiva caduta di tutti i valori civici…” (1991), “I maghi in cattedra: a Cagliari c’è un medium ogni cinquemila abitanti” (1992), “La città frantumata: Cagliari annega nell’arcipelago delle nuove autonomie” (1993), “La città segreta” (1994), “L’Almanacco? Compie trent’anni: dal 1966 una finestra sulla città” (1995), “Come sono buoni i bianchi di Cagliari: la nostra città vista attraverso il problema dell’immigrazione” (1996), “Lettera aperta ad un cagliaritano qualsiasi” (1997), “Cagliari elezioni amministrative alle porte: interviste parallele con sindaco e capo dell’opposizione” (1998),“’Sono orfano della speranza’: Massimiliano Medda a ruota libera…” (1999), “Cagliari al giro di boa del millennio: l’epoca che muore ha lasciato in eredità alla città svariati problemi” (2000), “Il rullo compressore del decisionismo: Cagliari oramai da anni, trionfa la voglia di fare” (2001), “Con gli occhi di Allah: l’imam di Cagliari Mehrez Triki giudica la nostra città, dove vive dal 1981” (2002), “Cagliari vista con occhi beffardi: in tre affreschi il modo di essere della nostra città: ambizioni represse, autoesaltazione, depressione, mentalità bottegaia, incapacità progettuale” (2003), “L’ultimo volo: il 24 febbraio 2004, un Cessna si infranse sulle rocce dei Sette Fratelli, a bordo due cardiochirurghi Alessandro Richi, Antonio Carta ed il tecnico perfusionista Gianmarco Pinna…” (2005), “Moto perpetuo: Ada Lai, la superdirigente del Comune di Cagliari, che stupisce amici e nemici per la sua straordinaria efficienza” (2010).

S’ischiglia e la questione della lingua

Alla rivista letteraria voluta nel 1949 da Angelo Dettori e passata poi, dopo la scomparsa del fondatore, per molte direzioni, Pisano offre quattro articoli negli anni in cui direttore è lo stesso editore Gianni Trois e la condirezione è di Aquilino Cannas. Sono articoli eccentrici, nel senso che sfuggono al tema vocazionale della rivista – lingua e letteratura sarda, quella in versi specialmente – per andare, almeno due volte su quattro sul politico, sia pure lato sensu.

Eccone la rassegna: “L’uomo Berlinguer” (n. 6/1984), “Teatralità e teatro” (n. 4/1985),”Non forziamo, con le celebrazioni” (n. 2/1986), “A proposito di Gramsci” (n. 3/1987). Sono articoli brevi, essenziali, ma non meno efficaci per lo sviluppo argomentativo.

Riprendo dal quarto della lista alcuni passaggi, forse tutti, che mi sembrano ancora attualissimi per il dibattito sempre in corso sulle questioni identitarie e la loro ricaduta nella politica dei partiti e delle istituzioni. Esso, va precisato, uscì nel decennale della battaglia per il bilinguismo perfetto e la raccolta di firme di proposta legislativa da parte del comitato Masala.

«Cos’è il sardo? Che senso ha imparare la lingua delle radici in un mondo che parla inglese, in una società dove le piccole patrie possono servire al massimo per manifestazioni folcloristiche? A queste domande si può rispondere in mille modi diversi: e, in ogni caso, si tratta di una rispettabile scelta di vita. Ma il problema resta, la curiosità di capire sopravvive alla massificante civiltà dell’immagine. Nel 1987 la lingua sarda ha un futuro? E se ce l’ha perché?

«Sessant’anni fa, in una lettera alla sorella un raffinato intellettuale chiedeva notizie dei parenti. Ascoltiamolo, è una lezione di chiarezza e intelligenza politica. “Carissima Teresina… Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correntemente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se possibile. Poi, l’italiano che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà per l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlar con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro”.

«Chi scriveva queste cose, nel 1927, era Antonio Gramsci, cittadino del mondo (culturalmente e politicamente parlando) che non aveva dimenticato quell’“angolo morto d’Europa” in cui era nato e cresciuto. Il suo appello per la lingua sarda non è fatto di vuoto orgoglio etnico: al contrario, ha tutti gli elementi d’una coscienza profonda. Coscienza del passato, del presente e del divenire. Coscienza delle conseguenze legate ad uno “strappo” della cultura della propria terra.

«C’è da sperare che qualcuno si ricordi di questa letterina familiare adesso che suonano le trombe della commemorazione. Nell’Italia dei millequattrocento premi letterari, le celebrazioni ufficiali sono l’altra faccia dell’enfasi formale, dei riconoscimenti e delle interpretazioni post mortem: un grande calderone dove si gioca a fare i primi della classe, a scoprire (e annunciare) un telegramma inedito, a strombazzare allusive riletture che (guarda caso) fanno il paio con interessi politico-ideologici piccoli piccoli. Che ne sarà di Antonio Gramsci a cinquant’anni dalla morte? Sarà datato, com’è avvenuto per Grazia Deledda? Sarà compresso dentro l’ovvio binario a tavola rotonda, com’è stato per Pirandello? A noi pare che il modo migliore per celebrarlo (ma soprattutto per coglierne la straordinaria modernità) stia nel leggerlo. O nel rileggerlo. Come vi pare».

 

 

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