Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus. Un racconto lungo di Gianfranco Murtas (Sesta parte)
Ad impegnare, per undici mesi su dodici, buona parte della giornata di Derigna, Clelia ed Idina era la scuola; Gesuina soltanto poteva permettersi ancora di godere, sempre sotto la vigilanza materna o quella di nonna Atzeni, delle delizie del gioco full time.
A scuola
Tranne il giovedì e, naturalmente, la domenica, la scuola era aperta tutti i giorni, da settembre a luglio, mattina e sera. Le classi superavano anche le trenta unità ed erano miste, composte cioè di maschi e femmine, obbligatoriamente separati per bancate. Le aule, tutte o quasi infelici per spazi, funzionalità, luci ed aerazione, erano sparse per il paese: alcune a sa fabrica’e is pipas, nella zona del cimitero (dove funzionava pure un piccolo opificio sugheriero), altre all’ospedaletto (passato al Comune, gratis, nel 1868), altre ancora nei pressi della parrocchiale, in pieno centro, oppure nella chiesetta antica, e prossima alla demolizione, di San Lussorio nella vicinanze della casa comunale. Erano locali pubblici e privati variamente adattati a luoghi di raccolta di scolaretti. Con la figura dell’insegnante dominava sua maestà la lavagna.
Ogni insegnante seguiva i propri alunni per un solo anno, invece d’accompagnarli lungo l’intero processo d’istruzione, dalla prima fino alla licenza della quinta, e dopo gli scrutini di luglio passava il testimone al/alla collega che, a sua volta, aveva ceduto il proprio.
Clelia, per esempio, in prima aveva avuto per maestra la giovane Ginetta Sitzia, in seconda e in terza, rispettivamente, le anziane Agnese Congiu e Carmina Tuveri (quest’ultima zia della Sitzia e sovente assente chissà se per malattia o per accudire, come sussurrava qualche malizioso, le sue campagne), in quarta Franceschina Cao, originaria di Palermo, e in quinta il giovane Giovanni Battista Virdis col quale l’intera classe aveva imbastito un rapporto gioviale e spesso scherzoso.
Alcune di esse – le anziane Congiu e Tuveri – avevano guidato anche l’apprendimento di sua sorella Derigna, che aveva iniziato con Maria Lampis e aveva finito con Elisabetta Pani. Sui banchi di quella sezione figurava anche una coetanea destinata ad intessere con lei, un giorno, un rapporto come di sorella: Antioca Luigia Concas.
Insegnanti giovani e meno giovani erano agli ordini del direttore didattico Efisio Floris, un ogliastrino patentato alla Normale di Cagliari nel 1894, scelto a quell’incarico dal Regio Ispettore provinciale che ben conosceva la crescente importanza di Arbus come centro di lavoro (e polo demografico) nell’ambito della provincia.
Rispetto e disciplina
La disciplina era il naturale condimento delle lezioni che si aprivano, ogni santa mattina, con la recita corale della preghiera. Quando si sgarrava partiva automatica la punizione corporale (o, ignominiosi ma più sopportabili, gli arresti dietro la lavagna). La pedagogia del tempo apprezzava i correttivi del bastone come un’autentica virtù. Religione, lingua, scrittura e lettura, calcolo erano le materie del grado inferiore (prima e seconda); nel biennio che seguiva e poi ancora in quinta il programma ministeriale aggiungeva nozioni di storia, geografia e scienze fisiche e naturali.
Linde e ordinate, con le loro morbide “caprette” ai piedi e gli abitini cuciti dalla madre (così come la biancheria intima alla quale giustamente si attribuiva un senso e un motivo di decenza non meno che di rispetto dell’igiene cui non era dato prescindere), le piccole si presentavano ogni mattina alla scuola: per Derigna l’esordio scolastico era avvenuto giusto nell’anno in cui l’Italia entrava in guerra e nelle case anche di Arbus erano iniziati ad arrivare i richiami di tutti gli uomini validi e in età; per Clelia il debutto era stato pressoché alla vigilia della conquista italiana di Trento e Trieste; per Idina (invero mai “linda e ordinata” per l’amore smodato che portava alle pozzanghere!) il primo giorno sui banchi si era associato temporalmente al definitivo ritorno dalle zone di guerra degli zii e, in paese, dei tanti zii-soldato che adesso dovevano riprendere le loro attività, chi nei campi e dietro gli animali, chi in miniera o nelle officine artigianali (ma ben 146 non sarebbero tornati e prei Lampis, il parroco, li avrebbe onorati parlando dal nuovo pergamo di San Sebastiano, dono del sindaco cav. Caddeo e della sua signora).
Promettevano bene, e Derigna – dopo la sesta – già si pensava di iscriverla al ginnasio di Cagliari. La situazione familiare, con la salute sempre più malferma di Severa Aru, aveva poi indotto a temporeggiare ed infine a rinunciare: occorreva un aiuto in casa e lei lo assicurava con continuità e zelo, combinandolo con un certo tirocinio di cucito cui s’era applicata presso una nipote di babbo Altea, sarta di professione.
E’ indubbio si trattasse di una scuola nozionistica, più che formativa, in linea con i moduli didattici imperanti. In tale quadro si poneva anche la questione della lingua: lo Stato, per l’esigenza che aveva ravvisato primaria, già all’indomani della faticata unità territoriale, di consolidare la società nazionale attorno ai valori di una medesima cultura, aveva emarginato e anzi estromesso dalle aule scolastiche le parlate locali ed i dialetti.
Parlate bilingue
Diverso era a casa, in tutte le case anche di Arbus come di tutta la Sardegna, compresa quella degli Aru-Aru: qui si parlava correntemente, anzi esclusivamente, la lingua materna e degli avi, il campidanese. L’italiano era la seconda lingua, la lingua riservata agli obblighi della scuola e, magari con qualche sconto, della parrocchia (perché prei Lampis continuava ad adoperare spesso, nelle sue omelie, il sardo. E sembrava curioso, a tal proposito, che oltre un secolo addietro fosse stato proprio un sacerdote ad istituire un legato, successivamente approvato dal papa Pio VI ed amministrato dal vescovo di Ales, per favorire l’insegnamento della lingua italiana al posto di quella spagnola nel quadro dell’“istruzione religiosa e civile” dei giovani locali, per il che si iniziò proprio nella chiesetta di San Lussorio!).
Non che mancasse, da parte di qualche insegnante, la proposta di introdurre nella scuola elementare lo studio della cultura popolare isolana, partendo proprio dalla lingua parlata. Le leggende tradizionali e le poesie dei grandi autori in versi non potevano restare assenti dal programma. Così un certo anno – doveva essere il 1920 o il 1921 – la maestra Tuveri, forse d’intesa col direttore e per sperimentazione didattica, s’era decisa a far acquistare dagli alunni un libro bilingue. Non se ne sarebbe fatto nulla. Impedimenti superiori? Chissà, forse era accaduto soltanto che, ad un certo punto, gli interessati avevano realizzato che una cosa è parlare e un’altra è leggere, scrivere o destreggiarsi fra grammatica e fonetica ortodosse. Si sarebbero comunque affacciate in classe, anni dopo, altri sussidiari, altre antologie con i testi sardo/italiano a fronte.
Messa e dottrina, le cose del Signore
Invece che dagli impegni scolastici, la domenica era assorbita dalle occupazioni dello spirito. Verso metà mattina si celebrava la speciale messa per i fanciulli e nel pomeriggio si svolgeva il catechismo in parrocchia.
Severa Aru dava l’esempio alle bambine, recandosi a San Sebastiano, come ogni giorno di buon mattino, a sentire la prima messa che era, di norma, affollata di donne. Assolto il precetto, esse potevano dedicare il resto della giornata alla famiglia, ed affaccendarsi, più ancora degli altri giorni, attorno ai fornelli o al camino per preparare un pranzo che, obbligatoriamente, doveva essere più ricco e succulento del consueto.
Certo assai meno lodevole – dal punto di vista strettamente religioso – era l’esempio che dava alla sua prole Giovanni Aru. Agnostico ed anticlericale: così poteva definirsi il suo atteggiamento piuttosto freddo con le cose del Signore e dei preti. Qualcuno, un giorno, avrebbe perfino raccontato – chissà se vero o soltanto immaginato (ma si propende per la diceria) – il rifiuto da lui opposto a prei Lampis che s’era recato a casa sua forse per amministrare l’estrema unzione alla moglie moribonda o forse soltanto per regalare una parola di conforto e di incoraggiamento.
Tante cose, dopo la scomparsa di Severa Aru, sarebbero cambiate anche nel suo animo. Avrebbe avuto un ripensamento radicale il cui primo merito si sarebbe attribuito a una Bibbia… cattiva, protestante cioè, che chissà chi gli aveva messo in mano. Poi non avrebbe mancato all’appuntamento in parrocchia con i predicatori che ad Arbus erano venuti per le periodiche missioni (itineranti per quartieri). Si sarebbe infine accostato alla confessione e all’eucarestia, e stavolta il merito l’avrebbe raccolto tutto intero il padre Petit – così rimaneva nell’orecchio il suo cognome -, il cesellatore di quella conversione a gradi. Gettata la Bibbia “eretica” tra le fiamme, Giovanni Aru si sarebbe da allora iscritto fra i praticanti di Santa Religione…
Il catechismo parrocchiale veniva insegnato da giovanissime tesserate all’Azione Cattolica. Ci si iscriveva al corso che aveva vincoli di frequenza e profitto, non di scrutini ed esami. Ogni classe era ospitata in una delle cappelle laterali di San Sebastiano. Ognuna di quelle cappelle aveva una lunga storia: aveva ospitato sepolture di benefattori che avevano pagato marmi, statue, addobbi e corredi ed acceso rendite per l’utile della cappella stessa, alla quale provvedeva altresì la confraternita “titolata”.
Ggli incantesimi di San Sebastiano
Quella consacrata all’Immacolata di Lourdes, la prima a sinistra dopo il battistero, era dominata dal “gruppo” Vergine-Bernardette ordinato nel 1889 dall’allora parroco don Murru e giunto ad Arbus direttamente da Napoli nel fragore dei canti mariani (nonché dello sparo di fucili e dello schiocco di mortaretti), con gli onori di confraternite, scolaresche e popolazione fedele; seguiva quella dei Santi associati Michele, Giuseppe, Anna e Francesco Saverio; alla sinistra immediata del presbiterio era quella del Rosario, con le tre nicchie ospitanti ciascuna una statua della Vergine (di diverse dimensioni) e, di lato, una canna per la raccolta delle offerte; e poi ancora, dirimpetto, ecco la cappella dedicata alla Madonna d’Itria; e in successione quella di Sant’Antonio abate, di fianco all’accesso laterale (noto come “ingresso degli uomini”), e quella, infine, delle Anime del Purgatorio, con l’annessa scala portante alla tribuna dell’organo ed al campanile.
Le confraternite maggiori, antiche ed attive, erano intitolate alla Vergine d’Itria – fondata addirittura nel 1608 presso gli agostiniani di Cagliari -, a Nostra Signora del Rosario ed alle Anime del Purgatorio. Ciascuna con il suo abito tradizionale che variava per i colori – bianco o rosso in prevalenza -, esse animavano le più affollate processioni patronali o del Corpus Domini (con tanto di baldacchino e stendardi), così come i funerali degli arburesi più devoti ed in vista.
La parrocchia viveva un periodo florido, non soltanto per la vasta ristrutturazione imposta all’edificio di culto, che ne aveva guadagnato in santa eleganza e funzionalità: nel 1909 era stato fondato, ad iniziativa della Società di carità e delle dame di San Vincenzo, l’asilo infantile che quattro anni dopo sarebbe proseguito nella formula cosiddetta della “Provvidenza”; nel 1912, promossa da don Pirri, era sorto il gruppo degli scout cattolici, con le classi dei lupetti, esploratori, ecc.
Il giorno di festa ci si svagava anche. I grandi erano soliti compiere o ricevere quelle visite che cementavano i rapporti di parentado o di amicizia. A casa Aru-Aru le bambine ascoltavano i discorsi dei grandi. Da loro, manco a dirlo, erano assai di più le visite ricevute che quelle fatte: venivano i parenti, qualche zio o cugino di mamai o babai od altri conoscenti coi quali si intrattenevano relazioni di intimità. Allora, fossero chiacchiere in confidenza o discorsi di maggiore pretesa, le parole erano bagnate da una buona tazzina di caffè fumante o, a seconda dei casi e dell’ora, da un bicchiere di vino generoso.
La sera, comunque, non faceva differenza fra giorni feriali e giorni festivi. All’imbrunire cominciavano le grandi manovre di chiusura del teatro quotidiano: dopo una cena frugale, le bambine dovevano ritirarsi a letto, con la buona notte. Ma anche i grandi non avrebbero tardato ad infilarsi fra le lenzuola.
(continua)