«Sufficit tibi gratia mea», per i 70 anni di padre Salvatore Morittu, di Gianfranco Murtas
Nella cattedrale bergamasca di Sant’Alessandro che fu cara a Giovanni XXIII, ed in una cornice ecumenica, presenti dignitari melchiti e maroniti, rappresentanti greco ortodossi di Gerusalemme, vescovi latini di trincea e diplomatici delle nunziature di tutta la fascia complessa del Vicino Oriente – dalla Turchia alla Giordania, da Israele all’Iraq, dal Barhein al Libano alla Palestina – ma anche di Cuba, Canada e Singapore, qualche centinaio di frati, e quanti altri franchi entusiasti o nicodemici, è stato consacrato all’episcopato (col rango di arcivescovo), nei giorni scorsi, fra Pierbattista Pizzaballa. Giovane biblista francescano, a lungo, nonostante l’età, Custode della Terra Santa e Guardiano del Monte Sion (il 167° della lunga serie storica), egli è stato ora nominato amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme data la vacanza patriarcale. Una personalità magna, per dottrina ed esperienza, oltreché per virtù personale s’intende, del mondo cattolico, destinato a sviluppare ancor più e meglio il ministero pacificatore che l’ Ordo Fratrum Minorum si è dato fin dal suo sorgere, di fianco e di seguito al suo fondatore.
Mi è venuto di pensare a questo evento recente, forse non raccontato dai media come pur avrebbe meritato, scorgendo nel calendario di casa l’imminenza di un giubileo anagrafico che molto onora la Sardegna e non soltanto la famiglia francescana: sono i 70 anni di età che il 29 di questo stesso settembre il Custode dell’Ordo francescano sardo – padre Salvatore Morittu – compirà, saldando nei suoi (sempre provvisori) consuntivi di vita le esperienze sul fronte strettamente religioso e quelle delle complicate e sovente dolorose vie del sociale, tanto più giovanile, da lui maturate e sofferte sempre con partecipazione.
Il 29 e per alcuni giorni egli sarà impegnato, fra Assisi e Roma, in lavori delle gerarchie capitolari, e dovrà rinviare di godersi la festa che, al solito, gli sarà fatta, in comunione di affetto, dai ragazzi della sua comunità di S’Aspru, in agro di Siligo – ultima rimasta delle quattro d’un tempo rimasto scolpito nella storia sarda – , e dagli altri ospiti comunitari della casa-famiglia di Sassari intitolata a Sant’Antonio abate.
Un saio per il mondo
«Costretto a fondere un’esperienza individuale, illuminata e samaritana, con quella, dai riporti più travagliati, di mille ragazzi, quanti sono coloro che, in questi ultimi diciotto anni, dalle nostre famiglie si sono rivolti alle comunità sarde di Mondo X: per liberarsi dalle catene della droga e, più ancora, per trovare una ragione capace di giustificare, senza bluff, la fatica dell’esistere…». Parole di cronaca e insieme di riflessione. Così mi veniva di scrivere giusto vent’anni fa, su L’Unione Sarda, per celebrare pubblicamente la figura civica, umanitaria e pedagogica di Salvatore Morittu, minore osservante, fondatore nel 1980 della prima comunità “di vita” – così era qualificata – volta al recupero dei ragazzi tossicodipendenti di Cagliari e della Sardegna. Né soltanto – si vide da subito – della Sardegna, perché nostri ragazzi erano stati accolti, prima e durante, nelle strutture comunitarie operanti sul continente, in specie in quelle attrezzate da padre Eligio Gelmini, francescano pure lui, e pareva giusto che le nostre sarde accogliessero esse, valutando opportunità di diversa natura, ragazzi della Puglia o della Lombardia…
Verrà il tempo dei biografi e se un consiglio potessi loro dare, con questo anticipo d’un secolo, sarebbe di inquadrare la personalità di padre Salvatore all’interno della sua comunità di nascita e prima formazione: a Bonorva cioè, la patria di Paulicu Mossa il grande poeta della fine dell’Ottocento, o di Salvatore Testoni (Barore Testone), cantadore telentuosissimo vissuto a cavallo fra i due secoli, la patria cui anche io idealmente aderisco, ora soprattutto per Antonio Sanna il professore di linguistica sarda sempre compianto e padre di amici miei cari, o per Anzelu Dettori l’eroico fondatore di S’ischiglia, o per don Enea Selis, vescovo e arcivescovo di grande storia non soltanto sarda (investendo anche la FUCI nazionale e l’Università cattolica di Milano o l’archidiocesi di Cosenza), e per quant’altre eminenti figure si sono presentate sulla scena pubblica, editori e uomini della politica o dell’amministrazione e della cultura accademica come di quella popolare…
C’era un seminario francescano a Bonorva un tempo, lì studiò negli anni del ginnasio anche Armando Corona, futuro medico ed esponente politico e delle istituzioni autonomistiche, nonché, in ultimo, gran maestro della Massoneria italiana. Salvatore Morittu nacque quando erano passati pochi anni dacché si era tentato di “imprigionare” materialmente, e ideologicamente, dentro un saio marrone quel ragazzino studiosissimo originario del Sarrabus-Gerrei, che avrebbe continuato bazzicando a Cagliari fra i sai bianchi e neri dei domenicani, divenendo poi molte cose tutte importanti. Lui, padre Salvatore, per le strane circostanze dell’esistenza, sarebbe stato lì presente, nella basilica di Bonaria, chiamato a celebrare i funerali, passata la lunga vita, nell’aprile 2009, di quel suo predecessore d’elezione bonorvese fattosi grande nei ruoli pubblici e conosciuto nel mondo…
Ma chissà se davvero sarebbe stato una prigione il saio dei francescani. A guardare il padre Morittu si direbbe che saio più aperto ai bisogni e alle meraviglie del mondo non ce ne sia. Né per nulla tante volte, raccontandosi in confidenza, egli ha detto che il suo primo e maggiore obiettivo religioso non era stata l’ordinazione sacra, il sacerdozio cioè, ma il francescanesimo paritario, orizzontale. Così nelle lunghe stagioni dello studio, della pratica di relazione, umana prima che spirituale, in Toscana ed a Gerusalemme, infine a Roma. Insomma la dimensione della fraternità invece di quella della paternità: venuta dopo, quasi di conseguenza, declinata a suo modo, originale, rispettosa e signorile sempre.
Lavorando ai fondamentali d’una vita
Bonorva e Gerusalemme, La Verna e Pescia, Fiesole e Roma, Sassari e Cagliari, questo è il variegato mondo della semina e del raccolto di una personalità che s’è conquistato un posto nei libri che diranno ai futuri della storia sociale nostra di sardi di questo ultimo mezzo secolo, a cavallo di millennio. In tanti volumi, tanto più nella lunga collana di Partenia in Callari – omaggio alla libertà comunionale degli anticlericali, preti e vescovi (illuminati) inclusi, omaggio al popolo che ha dato senso e colore alla vita dei samaritani pronti all’opera – ho cercato di fissare l’identikit del frate-padre per come egli si presentava a noi, a me, nell’ordinario.
Scorro alcune delle sue battute: «Sono un figlio non programmato, come si direbbe oggi, ultimo di quattro, nato a sette anni di distanza dalla mia ultima sorella (suora francescana). La mia è una tipica famiglia di pastori. Allora si era pastori e contadini insieme… una famiglia benestante, in grado di raggiungere ciò di cui si necessitava… Ho frequentato l’asilo, presso le Suore della Carità, e ricordo che la retta consisteva in un paio di corbule di grano l’anno ed in qualche pecora a Natale e Pasqua»…
Della sua infanzia nel paese ricordava, il frate-padre, una maestra di sentimento socialista («in tempi in cui socialismo ed ateismo erano sinonimi») la quale sollecitava la famiglia a sostenere l’attitudine allo studio di quel piccolo di casa, senza spegnerla fra le urgenze della campagna e degli ovili. Ricordava un giovane religioso («intraprendente, entusiasta») che teneva corsi serali per pastori e contadini, avviando anche la costruzione di una nuova grande chiesa: colui che lo iniziò fra i paggetti e poi fra gli araldini, che erano corpi autonomi, quasi alternativi a quelli dell’Azione Cattolica, nei primissimi anni ’50 tutti pacelliani. Con spadino e baschetto poteva vestire similandosi ad una michelangiolesca guardia svizzera, il giorno di Sant’Antonio da Padova, il 13 giugno. Le medie al seminario francescano di Bonorva, il ginnasio a Sassari, una dozzina le classi, trenta ragazzi in ogni classe, meno di quattrocento in tutto.
Anni difficili. «Padre Dario Pili venne improvvisamente trasferito. In seguito seppi che era per via delle sue idee troppo innovative. Non disse niente a noi ragazzi e io per caso lo vidi una mattina, alle cinque e mezza, valigia in mano, mentre lasciava il convento per andare a Roma. Istintivamente andai ad abbracciarlo: un gesto di affetto per quanto aveva fatto per me, premonitore di ciò che avrebbe fatto per me nella scelta dei tossicodipendenti».
Il noviziato al convento sul monte toscano della Verna, cinque i sardi e dodici i locali: «Mi sentivo un puledro selvaggio…». Un anno soltanto, poi il programma sarebbe stato di rimpatriare, rimpatriare a Bonorva. E invece… «La proposta di vita che si svolgeva a la Verna rappresentò per me un autentico shock. Ogni notte, all’una, ci si alzava per andare a pregare nel grande coro della chiesa e poi, in processione, fino alla cappella dove San Francesco ricevette le stigmate. D’inverno c’era sempre la neve: nelle notti d’inverno il sibilo entrava in quella cappella a rompere il silenzio immenso. L’acqua benedetta nella pila era sempre gelata. Bisognava vestire il saio senza abiti civili sotto… Non dovevo mai alzare gli occhi quando attraversavo il corridoio. Ma l’esperienza più difficile per me era quella di dover colloquiare col direttore spirituale. Io non avevo il coraggio di parlare: mi scrivevo tutto e, nel colloquio, leggevo i miei appunti. Però accettavo tutto quello che mi comandavano di fare: anzi, direi che più erano esigenti, più io accettavo con rispetto e devozione».
Ecco poi la vestizione: il “caperone” pendente dal cappuccio nella parte anteriore del saio era il simbolo del cammino in corso. Un tempo si doveva cambiare pure il proprio nome, come per il papa o come fanno ancora, in molte congregazioni, le suore. Nella cella un letto, un tavolino con un piccolo scaffale, una minuscola cassapanca per la biancheria e un lavamano con la brocca in metallo. Così passava la giornata: fra preghiera e lavoro all’orto o nella casa, magari nella tipografia o nella legatoria da cui usciva il giornale La Voce della Verna.
La verifica trimestrale, per capire se proseguire o fermarsi: il giudizio sui candidati affidato ai frati che si esprimevano deponendo in un grande calice il fagiolo bianco o quello nero. Funzionava periodicamente anche la “disciplina”, strumentello di penitenza («una piccola funicella con in cima un triangolo in fil di ferro da cui pendevano tre o quattro campanelle pure in fil di ferro»): ognuno faceva da sé, nell’intimità della propria cella obbedendo alla chiamata: «il frate responsabile della nostra formazione proclamava, dal fondo del corridoio, con voce alta e solenne, il salmo 50, il Miserere, accompagnando in tal modo questa nostra penitenza. Non c’erano altri occhi che controllassero questo adempimento se non quelli della nostra coscienza».
Che pensarne? «Sapevo che tutte le prove sarebbero durate un anno, sapevo che stavo facendo qualcosa di strano ma pure estremamente importante e decisiva per la mia vita…Io oggi la paragono a quando un drogato cerca di superare la crisi di astinenza senza farmaci. Certamente soffre; ma psicologicamente la sofferenza quanto più è forte tanto più da la sensazione di fare qualcosa di decisivo, come superare un fiume per raggiungere l’altra parte. Il pericolo oggi è che stiamo talmente annacquando le proposte che il ragazzo passa dall’adolescenza alla giovinezza e poi alla maturità senza una percezione chiara e precisa di quello che sta avvenendo nella sua vita».
Dopo il noviziato il liceo (detto “filosofia”), nel convento di Pescia, vicino a Montecatini, fra Lucca e Pistoia. I professori tutti frati dotti ed esperti. Il Concilio giovanneo e paolino si era concluso da poco, tutta la Chiesa era in effervescenza, fra timori ed entusiasmi. «Il convento era il punto di riferimento di gruppi giovanili e il contatto con loro mi ha posto seri problemi per una crescita equilibrata fra la mia identità di giovane come loro e l’altra di religioso consacrato. Allora, per la prima volta, mi si è presentato anche il problema di come vivere il rapporto con le ragazze, quasi che fossi uscito da una lunghissima fase di latenza».
Collaborava con una parrocchia, faceva teatro e giornalismo, partecipava alla corale, studiava pianoforte, superava la naturale introversione.
Nel 1967 era al convento di Fiesole iscrivendosi all’ateneo fiorentino, eletto rappresentante del primo corso di teologia. A Firenze scoppiò allora il caso dell’Isolotto di don Enzo Mazzi, interdetto dal cardinale Florit, un reazionario. «Per la prima volta vi fu uno sciopero degli studenti di teologia: ci rifiutammo di partecipare alle lezioni. Anche alla Statale si verificavano scioperi e scontri con la polizia: ma non esisteva nessun collegamento fra noi e questi movimenti. Firenze viveva l’eredità di La Pira e di don Milani ed era sferzata dalle proposte di padre Balducci e di Gozzini: laici e preti che ci aiutavano ad abbattere le mura della cittadella del clericalismo e del laicismo per ritrovare la comunità degli uomini, dove fede e socialità potessero convivere entrambe più purificate e coerenti». Si sentiva interessato all’ «uomo comune, con le sue pene e i suoi sfruttamenti». Restò colpito dalla testimonianza di quattro frati-professori che lasciarono il convento per sistemarsi in un appartamento di Livorno ed occuparsi come operai in fabbrica.
Nel 1968 trascorse una vacanza in Francia, lavorando come manovale e ripeté l’esperienza l’anno successivo, fra Belgio ed Olanda – «salario zero ma vitto e alloggio assicurati» – prenotandosi per la Germania. Alla vigilia della professione solenne dei voti – il 12 luglio 1970 – stese, con altri, un progetto provocatorio dal titolo “Reinventiamo la vita religiosa”, che cercava di riscoprire la laicità di San Francesco nella radicalità evangelica che lo ispirava: «mentre avevo affrontato con serenità la scelta di essere frate per tutta la vita, si era prodotta in me una forte lacerazione circa la scelta del sacerdozio. Con questo sarei entrato in una casta che mi avrebbe reso sempre più estraneo alla vita degli uomini».
A Gerusalemme, e a Bonorva, «senza paura di perdere la laicità»
Gli giunse la proposta di specializzarsi all’istituto Biblico di Gerusalemme. E’ lì che sperava di far chiarezza dentro di sé: soltanto frate, frate laico cioè, o anche frate che dice messa, che consacra l’ostia, che assolve dai peccati: «riflettere nel silenzio e nel mistero della Terra Santa»… Girava e rigirava attorno all’orto del Getsemani, ai luoghi dell’agonia di Gesù. E’ là che incontrò una volta padre Emanuele Testa, un biblista di fama mondiale, il quale gli sarebbe stato presto guida in quella ricerca travagliata.
Da Gerusalemme, autentico crocevia di cristiani, ebrei e musulmani, «a contatto con situazioni umane e sociali a forti tinte», si allargò al Sinai e al Negev, nella Giudea e nella Galilea. Affascinato dall’Islam, strinse rapporti fecondi con gli arabi (nel 1971 e 1972 passò vari mesi a Beirut, e poi si sarebbe dichiarato favorevole alla causa del popolo palestinese) e rapporti altrettanto positivi con cittadini ebrei. Si iscrisse alla scuola per apprendere l’ebraico e fu un assiduo della domenicana “maison d’Abram”, «dove tutto si svolgeva in lingua ebraica, utilizzando riti ebraici», e della “tenda della Pace” del padre Hasserl, sempre affollata da ebrei, musulmani e cristiani.
Quel pluralismo vissuto anche da suore e frati cattolici contribuì a fargli maturare la decisione di diventare sacerdote «senza paura di perdere la laicità». Venne ammesso al diaconato dal patriarca di Gerusalemme nel santuario della Vestizione a Ain-Karem, patria di Giovanni Battista, e qualche mese dopo, il 26 agosto 1972, nel… natio borgo selvaggio, a Bonorva la cara, fu ordinato da monsignor Paolo Carta, arcivescovo di Sassari. Il quale – val la pena di saltare nel calendario dieci anni giusti – prima di andare in pensione avrebbe firmato un decreto di concessione trentennale del podere diocesano di S’Aspru ai francescani sardi per le necessità comunitarie di Mondo X…
Un anno sabbatico, fra 1972 e 1973 nel convento distante appena cinquanta metri da casa dei suoi, partì poi per Roma, destinazione l’Antonianum, l’università francescana. Ma in parallelo frequentò la Statale, facoltà di Psicologia. E intanto lavorò al centro di igiene mentale della capitale.
Nel 1978 si laureò in psicologia con indirizzo clinico, specializzandosi come operatore psicologo per i consultori familiari. Rientrò in Sardegna, «frantumato dentro», motivato però a scoprire una nuova identità di «frate inserito».
Padre Dario il profeta
Non tardò a venire una nuova svolta. «Nel novembre 1978 padre Dario Pili partecipò al raduno di tutti i provinciali francescani d’Italia. In quella sede ebbe un incontro con padre Eligio Gelmini, il famoso padre Eligio di Rivera… che già nel 1974 aveva fondato la prima comunità per tossicodipendenti. Padre Eligio, parlando a tutti i provinciali, affermò che la droga sarebbe stato il problema “storico” e che i frati avrebbero dovuto prendere posizione: i tanti conventi vuoti dell’Italia avrebbero dovuto rinascere ospitando i giovani drogati. Padre Dario ritornò nell’Isola toccato da questa proposta e da un interrogativo: “Per i drogati possiamo fare qualcosa in Sardegna?”. E mi lanciò un plico con un programma da studiare… Invece di rispondere a voce a padre Dario, gli inviai una lettera. Sì, una lettera, anche se a separarci erano solo le pareti di una stanza. Gli scrissi che, nonostante non avessi avuto esperienze dirette con giovani drogati, nel caso in cui fossi stato ritenuto idoneo per questo compito, ero disponile a farmene carico».
La storia a seguire è lunga, se ne conoscono, anche dalle cronache di stampa, i passaggi almeno quelli principali. Sono contento anch’io di aver potuto, negli anni della salute e delle energie, dato tutto me stesso, con trasparenza e animo puro, alla causa che ha coinvolto molti, moltissimi anzi, ciascuno con il suo specifico di umanità, di esperienza, di ideali e visione del mondo, in una convergenza che è stata un sogno, un sogno della storia, appunto della lunga storia.
Il carisma della strada
Celebrai – meglio, celebrammo – padre Morittu nell’occasione del suo cinquantesimo compleanno. Oggi possiamo o dobbiamo replicare. Gli anni, ho scritto, sono diventati 70, e dal 1980 ad oggi le fatiche dell’evergreen francescano sardo-bonorvese, formatosi culturalmente in Toscana, a Gerusalemme ed a Roma, psicologo di professione (professione, s’intende, combinata alla vocazione religiosa e all’esercizio ordinario del ministero), sono misurate in 36, 37 anni. E l’INPS e la quiescenza credo non sappia neppure cosa siano, almeno per quanto riguarda la sua posizione personale, padre Salvatore. Perché la sua storia professionale/vocazionale continua ad identificarsi con quella del bisogno sociale, che , per sua stessa natura, non ha scadenze ma ritmi di quotidianità, mai paga ed invece evolutiva. Una storia gemellata, va ripetuto, a quella di molti dei suoi valorosi, eccellenti collaboratori. Ma gemellata anche a quella di chi i samaritani incontrano – fortuna dei samaritani! – offrendo loro l’occasione e il modo di dispiegare l’umanità covata. E’ un quadro che tutti ci comprende nell’interazione continuativa, singoli e collettività. Dato che ogni generazione che passa, salvata oppure no, lascia il testimone di una umanità comunque debole, debole come per statuto, alla successiva, e i samaritani di oggi a quelli di domani, miscelando talvolta i ruoli, rovesciandoli per insaporire la scena. Così sempre è nella storia.
Conclusione: scrivere di padre Salvatore Morittu è scrivere del suo lavoro, della sua passione, del suo francescanesimo militante – applicazione di un cristianesimo vissuto come provvidenza talvolta paziente talaltra imperiosa, ora rilassata e anche divertita ora scrupolosa ed esigente, ma sempre… sul pezzo, e senza però istanze miracolistiche, ma laicamente materializzata e cadenzata dal senso del dovere e dal lavoro metodico.
Campidoctor e la sua testimonianza infelice
Scrivo queste prime righe nel giorno in cui apprendo della morte di un ragazzo, un ex ragazzo classe 1959, nato nel giorno di San Marco evangelista – padre di tre figli –, che io stesso accompagnai, dalle sale della divisione Infettivi dell’ospedale di Is Mirrionis, e dopo una sosta di qualche giorno a casa mia, in comunità, a San Mauro. E che, secondo promessa, riaccolsi in casa per non breve tempo (e anche dopo, quello felice e progettuale dello sboccio del suo nuovo amore e della sua nuova famiglia), a conclusione del proprio percorso comunitario – durato tre anni circa –, nell’estate 1996.
Preciso questo proprio perché non mi viene possibile immaginare la vita faticata di padre Morittu senza quella dei ragazzi ai quali egli ha donato, con le opportunità di riscatto, la sua stessa persona, il tempo e le energie, la sapienza pedagogica e le norme disciplinari, di rigore disciplinare, l’incoraggiamento e la correzione, l’esempio, in tutto e sempre l’accoglienza del cuore. E penso dunque alle vicende di vita (e di morte) anche di questo figlio-fratello accolto e coltivato, salvato e restituito alla pienezza – se mai pienezza ci sia veramente nella nostra vita – dei suoi piani ora affettivi, ora lavorativi, ora sociali.
Penso alla sua nidiata, oltre che agli amori intensi che ne hanno appagato, nelle diverse stagioni di vita, il bisogno di integrazione in quel meraviglioso “noi” che è tutto della natura, e dunque almeno ai fotogrammi felici dei molti film girati nel tempo. Penso a David che è un artista di valore oggi che sta raggiungendo anche lui i 30, e ai piccoli con le loro inquietudini d’adolescenti. Penso ad una grande nonna di questi minori, protettrice come forse soltanto le insegnanti di un tempo, educatrici anch’esse per vocazione prima che per professione, sapevano esserlo. Penso alle complicazioni presentatesi ora forse inevitabili, date le premesse, altre volte impreviste e impensabili addirittura, critiche e dolorose, e agli atti di fiducia comunque ricevuti per i superamenti, insomma come per dire alla palude della inutilità dei suoi agguati.
Mi consegnò una volta, Campidoctor, il figlio-fratello di Salvatore Morittu e mio – datata da Cagliari il 10 marzo 1993 – una nota di testimonianza, che mi sentirei di tradurre, senza allargare artificiosamente, in nota insieme biografica e di riflessione, lunga sei fittissime pagine. Si riferisce ad alcuni dei giorni di sofferenza e di ricovero, nella divisione Infettivi del grande ospedale di Is Mirrionis, dove s’era confinato e dato già per sconfitto, perduto a ogni speranza o sogno di risalita: vigilia di morte, fra morti e morti giovani, ogni settimana due, tre, quattro, e non voleva sentirne parlare di padre Morittu e delle sue comunità. Gli aveva scritto anni prima da una cella di Buoncammino, chiedendogli di incontrarlo, vagheggiando – lui che allora era neopapà – di affidarsi per una volta al cuore e alla valentia di chi poteva strapparlo alle esperienze di piazza nelle periferie di Cagliari e restituirlo, con nuove ragioni di vita, alla famiglia, a suo figlio. Non aveva ricevuto risposta – forse per qualche disguido nello smistamento, certamente non per distrazione del destinatario – e gli erano montate dentro rabbia e delusione, e frustrazione, e s’era così rafforzato in lui un sentimento di avversione al vasto mondo, tanto più a quello sedicente benefico, incapace di comprendere il suo micromondo. Quel micromondo che costituiva per lui, con le sue dinamiche, un assoluto, il suo tutto.
Come sempre ho fatto, non avevo insistito circa le opportunità offerte da una ripresa di quei contatti cercati e subito, chissà perché, caduti, preferendo lasciar sedimentare, nella libera riflessione personale delle lunghe ore solitarie trascorse in corsia, ogni giudizio sulla possibilità di una soluzione, non certo la garanzia di una riuscita. Ma una possibilità, o probabilità, comunque reale, sperimentata nel concreto decine e decine di volte, a San Mauro dal 1980, a S’Aspru dal 1982, a Campu’e Luas dal 1985. Qualcuno di quei tanti che pur da lui conosciuti nei travagli, nei negozi clandestini e illusori della piazza, degli angoli bui dei palazzi, delle gradinate delle chiese ignorate nei quartieri del centro o delle frazioni di Cagliari, del CEP o dell’hinterland, lo aveva saputo rifugiato in comunità: era una prospettiva che almeno schiariva il nero pesto del presente.
Erano arrivati, in quel 1993 delle nuove ed ora più paurose cadute, nell’ospedale malamente servito – e per averlo detto io finii addirittura in tribunale, otto sedute davanti al giudice e sempre, per scelta, senza avvocato, poi la querela fu spontaneamente ritirata e Giorgio Pisano poté raccogliere qualche battuta per un articolo dei suoi –, erano arrivati forse a cento, centoventi i ragazzi delle quattro comunità (due insediate all’ex ENAOLI di Macchiareddu) del circuito di Mondo X Sardegna, ispirate dal maggior sistema, anziano già quasi due decenni, di padre Eligio e sostenuto dalla grande famiglia dei francescani sardi, da padre Dario Pili provinciale in primis.
Se è capitato a me – in una certa stagione di vita durata svariati anni – di aver accompagnato al congedo estremo, in un obitorio di marmi freddi e nudi, quattrocento giovani colpiti dalla infezione dell’hiv, molti dei quali venivano proprio dalla esperienza, moralmente ricostituente ma purtroppo tardiva per i dati sanitari, della comunità, m’immagino quanti di più siano entrati nella esperienza personale di padre Morittu, che a S’Aspru, nel 1985, ebbe a confrontarsi con il primo, primissimo tempo di una tragedia sociale che avrebbe coinvolto nella sconfitta, in tutta l’Isola, da allora ad oggi, forse tremila giovani, e le loro famiglie. E quanti altri – nonostante le cure apprestate – si siano poi perduti di nuovo, segnando nel calendario una sconfitta di più. Ma penso anche a quanta vita gli sforzi suoi e dei suoi più stretti collaboratori abbiano restituito al mondo, alle relazioni sociali e professionali, a quanti sbocci naturali negli affetti siano venuti dal genio cordis del frate-padre oggi festeggiato per i suoi 70 compleanni.
Quelle volte al Reparto Infettivi
Riprendo in mano quei fogli datati 10 marzo 1993, dentro una storia lontana ora è già un quarto di secolo, scritti, per me e per il tribunale dei diritti del malato, su un letto d’ospedale, e firmati da chi non c’è più ormai, dopo la riconquista migliore e dopo anche nuove afflizioni. Riprendo le carte e, ripeto, attribuisco ad esse soltanto il valore di testimonianza di vita di un giovane, allora 34enne, che lasciava l’ospedale dove avrebbe voluto morire, per essersi convinto che nella comunità di San Mauro avrebbe conosciuto ragioni inaspettate di vita. Se tagli ci saranno da questo testo, saranno dettati soltanto da evidenti ragioni di opportunità generale:
«Durante la mia permanenza presso l’Ospedale SS. Trinità, che solo il nome dovrebbe dare una immagine di luogo di cura passionale, dal punto di vista umanitario, parlo in particolare del reparto malattie tropicali virali 2° piano, ritengo che la mia testimonianza come paziente e come persona soprattutto possa far cambiare qualcosa in tale reparto.
«L’assoluta mancanza di dialogo tra medici e para, pazienti trattati come un numero, o come un organo da curare, e senza considerare il fatto che soprattutto siano persone, forse è tale il loro atteggiamento perché la maggiore parte di tali persone ricoverate siano tossicomani o ex. Ma ritengo non sia una attenuante, dato il giuramento fatto dai Medici prima di operare come tali. Secondo l’impressione che ho avuto durante la degenza, in cose realmente accadute in momenti terribili dove la presenza di personale con dovute attitudini professionali avrebbero come minimo limitato molti decessi – è che il personale infermieristico prova un terrore immenso per il contagio da hiv, cosa che secondo me non dovrebbe succedere se tali elementi fossero veramente dei professionisti. Uno di questi momenti terribili che potrebbero in determinate persone far perdere l’equilibrio psichico con la stessa patologia, dico l’ho vissuto personalmente, era circa il 27 febbraio, e un paziente, tale P. Massimo in cura (se così si può chiamare) per una infezione opportunistica a tale virus encefalite toxoplasmosi, quindi non molto consapevole dei propri movimenti, si trovava allettato in gergo infermieristico, una persona che è perennemente a letto, dunque una persona che ha bisogno di assistenza in più rispetto agli altri. Specialmente sotto fleboclisi come era lui. Non vorrei essere interpretato come temerario ma bensì uomo consapevole che un altro aveva bisogno di assistenza, e non metterò neanche i nomi di certe infermiere perché capisco passerebbero guai seri. Preciso che io facevo parte della stessa camera (se così si può chiamare, va bè questo è un altro discorso). Entrai e vidi Massimo che era incosciente nel letto e in terra una pozzanghera di sangue. D’istinto cosa che tutti farebbero suonai il campanello, perché intervenisse il personale, pensando fosse la cosa migliore, ma constatai che forse non avevo visto giusto, appena arrivò una sola infermiera le vidi il terrore negli occhi. Preciso che Massimo aveva un ago cannula quindi, sraccordandosi dalla flebo, rimase solo l’ago attaccato al braccio, vi lascio immaginare il flusso del sangue, tale che secondo me se non avesse agito istantaneamente sarebbe stato fatale per lui, ma purtroppo come immaginavo, nonostante lei avesse i guanti in lattice che dovrebbero garantire di non avere contagi cercò di tamponare il flusso o schizzo di sangue. Le feci notare che se non gli avesse legato tale ago cannula il sangue sarebbe continuato a venire fuori, in quel momento ricordo che le dissi – guarda che con i guanti non hai problemi di contagio, sì rispose che forse era meglio che prima di intervenire doveva mettere oltre a quelli che già aveva un altro paio di guanti e scappò via, fu tale la sorpresa nel vedere che ancora il sangue usciva che levai l’ago e tamponai con mani nude cercando di non avere dei contatti diretti col sangue. Con del cotone che nel frattempo due allieve infermiere lì da due giorni portarono tempestivamente, quindi fui io paziente che pulì il sangue dalle mani e braccia di Massimo, preciso che quello che cadde sul pavimento lo pulirono gli ausiliari buttando via gli stracci con dei commenti che secondo me neanche loro anche se non sono personale paramedico avrebbero dovuto fare davanti a altri pazienti. Scrivo come ho sentito: fulianceddusu sinunca si piga sa cugurra. Poi tornò l’infermiera che fuggì, da lei ricevetti un grazie.
«Dopo due giorni circa un altro fatto dove io e un altro paziente Adriano di Carbonia che è stato l’unico a darmi una mano, tale Alessandro M. ricoverato circa da 5 minuti, si recò verso il telefono per tranquillizzare i genitori, penso che avesse già avvisato il medico che la mattina aveva avuto una titanizzazione o attacco epilettico, appena riuscì ad avere la comunicazione riversò verso il pavimento con un rumore d’ossi e denti rotti, in quel momento mi trovavo nella stanza di Roberto, che ha la stessa infezione di Massimo, si trovava lì anche il fratello Francesco. Ricordo che schizzai fuori per quel rumore inconfondibile d’ossa rotte e per rendermi conto di cosa realmente accadeva, consapevole che nella più drammatica ipotesi, vista la precedente esperienza, non ci sarebbe stata alcuna collaborazione da parte del personale. Nonostante una di queste infermiere teneva di far sapere che aveva 20 anni di esperienza. Sovente – nel momento vide me, essendo la guardiola dove si trovava lei molto più vicino alla persona bisognosa di cure rispetto alla stanza dove mi trovavo io, come minimo sarebbe dovuta avvicinarsi lei per prima, ma visto che c’ero già io, e non essendo certa che avessi potuto dargli la migliore assistenza, rimase dentro la guardiola e mi urlò preparo un valium. Ma quei momenti per me sono stati terribili. Appena girai Alessando rigido come una tavola mi resi conto che non era il caso di attendere l’arrivo del valium, perché aveva un colore paonazzo in viso, mi accorsi che non respirava perché la lingua stava andando giù, in quel momento gli comprisi il torace malgrado il mio rozzo intervento credo ottenni che la lingua venne fuori, ma tanto che la mise in mezzo ai denti e cercai di tenergli le mascelle, facendo sì che non si tagliasse la lingua, anche se ero quasi certo l’avesse già rotta per il sangue che veniva fuori, e il valium? bo!
«Ricordo un particolare, in quei momenti un ausiliario protagonista del commento prima elencato si fermò dinanzi a me e disse con aria professionale: questo è un caso di overdose. Non commento ciò che gli dissi in quel momento poi come d’incanto dopo varie urla mie e non solo, del tipo sta morendo, mi passò una allieva un pezzetto di legno che con l’aiuto di Adriano misi fra i denti di Alessandro impedendo che succedesse il peggio, subito dopo Alessandro risvegliandosi e vedendomi riverso verso lui che ancora era disteso, pensò che invece di assisterlo gli avevo fatto del male e cercò di colpirmi con dei pugni poi dopo un paio d’ore non si ricordava più nulla e diceva, solo, e si notava che aveva dei dolori alle mascelle al naso alla lingua e gli muovevano i denti, uno lo ha perso nella caduta faccia a terra. Nel frattempo il padre che era ancora al telefono aveva sentito tutto, mi disse la stessa che si vantava dei 20 anni d’esperienza, di evitare commenti, e ricordo che richiamavano anche l’allieva che mi passò il legno e che mi espresse la sua “solidarietà” dicendomi anche se da poco era nel reparto non accettava tali omisssioni di soccorso da parte di suoi quasi colleghi.
«Non citerò altre storie successe RiP. Marcello C. credo che i fratelli presenti al momento del trapasso possano meglio di me esporre i fatti accaduti.
«Diventicavo: in altri reparti o ospedali tipo oncologico, grazie alla professionalità del personale i pazienti così detti allettati non si riempiono di piaghe da decubito come in questo reparto MTV.
«NB. Non ho niente di personale con medici e para»
Gavinantonio e le sue riflessioni
Di un altro figlio-fratello di Salvatore Morittu, ho scritto un anno fa, dolentissimo, in mortem. A casa mia rimase otto mesi, dopo la conclusione del lungo percorso comunitario iniziato a S’Aspru e proseguito a San Mauro e Campu’e Luas. Era il 2000. Una parete di sostegno della parte “sociale” della ormai vasta biblioteca porta i quadri da lui ricevuti, e giratimi in custodia o anzi in dono di fraternità, negli anni di permanenza a Mondo X Sardegna. Mi lasciò anche diverse sue carte, e i testi di una rappresentazione teatrale che scrissi allora ed in cui lui doveva aver parte, in onore di Baingio Piras che compiva gli anni. Ne recupero una, delle sue carte comunitarie, due pagine liete, ora che siamo alla vigilia anche del primo anno della sua improvvisa, dolorosa, perdita. Il giorno della sua morte ha coinciso con quello del compleanno del fondatore e animatore del circuito comunitario nato francescano, laico e pedagogico, nella capitale dell’Isola, riferimento nobile di altre esperienze diffuse, grazie a don Angelo Pittau ed altri della sua stoffa, anche a Morgongiori e Pimpisu di Serramanna e a Sanluri stato e altrove nel medio Campidano, e poi anche a Olbia e Alghero, e Sant’Antioco, ecc.
Un infarto che si sapeva essere in agguato, tant’è che s’era già fissato, a Sassari, un intervento importante a correzione di un difetto pericoloso, ha messo fine a un’esistenza gentile e sorridente, nonostante tutto. A un’esistenza sofferta ma risolta lietamente nelle ripartenze, certificata aperta e generosa, dignitosa e positiva. Gavinantonio mi ha dimostrato, lui come gli altri ma diversamente dagli altri, la virtù del saper tornare sui suoi passi, del chiedere scusa, del ripartire con un surplus di lealtà. Lo presentai all’arcivescovo Alberti, nell’anno tribolato del mio rapporto con lui – la tempesta prima della bonaccia –, e ci accompagnò – don Ottorino e me – alla Collina di don Ettore Cannavera per una missione che fece storia, storia morale in quell’altra comunità, ai primi del 2001.
Alla Collina lui stesso aveva preso ad andare, magari per le lezioni di yoga guidate da Simonetta, ed aveva teso la sua rete di giovane in riciclo positivo, scaricando magari lì la fatica del lavoro capitatogli occasionale ma cui si era dedicato con tutto impegno, ora nell’assistenza di un disabile grave ora nel servizio di un ristorante-pizzeria. Poi aveva proseguito, lontano da Cagliari, in Costa, e aveva trovato nuovi e stabili motivi di vita felice, affetti saldi, prospettive incoraggianti.
Ma davvero è tutto finito? Non può essere, e ricordarne e scriverne è come riportare in vita. Il testo che qui presento, soltanto all’apparenza modesto, è tutto interno al processo pedagogico nella impostazione di Mondo X Sardegna. Dopo il primo anno di comunità iniziano le sperimentazioni, fra cui il ritorno in famiglia per alcuni giorni. E di tanto deve restare il documento di consuntivo e riflessione. Così scrisse, umanità spoglia e prodiga, Gavintantonio (“Riflessione sulla mia ultima andata a casa”):
«Sono appena rientrato da casa e sto rientrando a pieno nei ritmi comunitari a me noti, nei quali sono oramai di casa più di quanto non mi sia sentito nella mia vera casa.
«Sono stati dei bei giorni dove ho potuto gioire con le mie persone care e riposarmi.
«I primi tre li ho passati con mia moglie in una casa in campagna, immersi nella solitudine e nella pace della macchia mediterranea.
«Abbiamo avuto la possibilità dopo esserci riconosciuti (tra l’altro molto in fretta) di dialogare e amarci in libertà.
«Dialogare di noi, della nostra vita di questi due anni, dei sacrifici e delle soddisfazioni che ci stiamo togliendo, frutto di questo lavoro. Parte l’impatto iniziale, dove ero un pò timoroso, mi sono rilassato subito dopo e sono riuscito a dedicarmi completamente a lei e a far in modo che questi giorni passassero il meglio possibile, e così è stato.
«Ci siamo scambiati molte tenerezze e attenzioni, quasi a ritornare indietro col tempo. Ho ricevuto in dono un orsacchiotto e le coccole ce le siamo fatte quasi come dei ragazzini. In fondo abbiamo molti problemi personali ma sappiano che siamo qui per questo e che risolverli ci aiuterà a stare meglio insieme. I propositi che ci siamo posti sono buoni, finalizzati alla nostra crescita e a quella di una futura famiglia. Certo di queste cose si è giusto accennato, il futuro lo sa solo Dio cosa ci riserberà, ma i presupposti miei sono questi e credo anche quelli [suoi].
«I tre giorni seguenti, li ho passati a Sassari dai miei genitori, dove l’atmosfera era veramente familiare, tavola, TV e qualche chiacchierata. I miei genitori sono stati molto contenti di vedermi sereno e tranquillo. Io altrettanto, e ho gioito del loro stare bene per me. Erano, mia mamma contenta di cucinare e assistermi nei miei bisogni, e mio padre di consigliarla ricordando i miei gusti. E nello vederli così nonostante i problemi che hanno vissuto e quelli che stanno vivendo, primo: mia sorella A. che uscita dal carcere sta per rientrare nel medesimo giro che ha lasciato e che i miei genitori dopo averla assistita in carcere speravano di recuperare. Chi lo sa come andrà a finire. Ho avuto modo di parlarci e mi ha detto che sarebbe entrata in comunità.
«Un’altra cosa bella che ho vissuto è la compagnia di mia nipote, unica compagnia nelle uscite per la città. Sono giusto andato ad accompagnarla in palestra e far compere.
«Tutto sommato sono contento di come ho vissuto questi giorni con i miei genitori anche se aver vissuto i giorni precedenti con mia moglie mi ha creato un risveglio delle emozioni e dei miei desideri, ed ho fatto molta difficoltà a controllarli nei giorni seguenti.
«Riparto con slancio, e più mi guardo attorno e più vedo cose che non vorrei vedere, errori umani di tutti i giorni che solo il mio impegno costante potrà far in modo che se ne prenda coscienza per aiutarci a risolverli».
Ecco, padre Salvatore Morittu del quale festeggiamo i 70 anni – fra poche settimane egli sarà anche presso gli ex allievi Salesiani di Cagliari, che gli hanno preparato un incontro con i fiocchi – resta impresso nella vita morale più intima dei suoi. Onorarlo attraverso le storie dei suoi figli-fratelli credo sia stato, oltreché bello, giusto. Oltreché giusto, bello.