Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus. Un racconto lungo di Gianfranco Murtas (Quinta parte)
Tra la finzione e l’impegno volontaristico, soprattutto nell’età minima, erano le grandi ramazzate domestiche. Tutte c’erano passate, desiderose di rendersi utili, dalla maggiore alla più piccola. Iolanda, vivacissima, si trascinava nella casa e afferrando la scopa non la mollava più, se non dopo aver spazzato in lungo e in largo la stanza nella quale si trovava. Così si disponeva a raccogliere i panni sporchi delle sorelline, ammonticchiandoli alla bell’e meglio da qualche parte.
Idem Gesuina, per dire della minore. Amava indossare il grembiule e come neofita mer’e domu puliva superfici ed angoli, lucidava il piastrellato della cucina e soffiava sulle braci… Ma la commedia era assolutamente seria: lavava e riassettava, raccoglieva i fagioli e li cucinava per i suoi occasionali commensali o per le… figlie. E cioè per le bambole di straccio (con gli occhi ripassati dalla matita) realizzati in ardita economia a casa stessa.
Andava forte il gioco di sa butega. Con ingegno e fantasia le bambine si costruivano la bilancia: i piatti erano ricavati dai coperchietti delle scatole del lucido da scarpe, fra loro sapientemente legati con uno spago così da posizionarli in equilibrio. Come pesi venivano utilizzati sassi e sassolini di diversa grandezza. La merce in vendita era la più assortita: nel settore alimentare erano assai apprezzate le patate (rappresentate dalle loro bucce) e le angurie (o quanto restava di esse, che veniva tagliato in listarelle di varie dimensioni). Nel comparto della chincaglieria vincevano i tessuti colorati, le cui pezze in esposizione, diligentemente arrotolate, altro non erano che gli scampoli di stoffa e panno raccolti nella “sartoria” materna.
Si giocava dentro casa o, al massimo, al riparo del cortile. Spesso s’associavano Azeglio e Marta, Delia e Ines, i figli più grandi di Santina Onnis, la vicina che era la migliore amica di Severa Aru.
I giocattoli erano semplici, ma davvero più che di oggetti il gioco era fatto di azioni, gesti e parole. Comunque una volta, reduce dalla festa di Santa Vitalia svoltasi come tutti gli anni, fra graticole e arrosti di pesce, a Serrenti, Severa Aru – che vi si era recata con suo marito – aveva portato con sé una bambolina di pezza. Quella volta la beneficiata era stata Clelia, che meritava il premio per l’esemplare disciplina dimostrata lungo i giorni e i mesi. E sembra proprio che quel pupazzetto sia stato uno dei pochissimi balocchi mai entrati nella dotazione delle bambine.
Soprattutto il loro padre era poco propenso a spendere per questo scopo, credeva fosse meglio donare cose “utili”: perciò, coerente a se stesso, aveva derogato una sola volta, costruendo un carretto completamente in legno, che era servito un po’ a tutte le sue bambine e già forse a Iolanda che l’avrebbe preso per una sorta di girello. Per il resto non s’era mai “allargato”. Di veramente belli erano i quattro minitripodi per il caminetto, ch’egli aveva realizzato uno per ciascuna delle figlie. E secondo la medesima filosofia aveva anche prodotto quattro piccole zappe e palette – in scala seguendo l’età delle bambine – per insegnare loro, fra il diletto e l’impegno, a dare una mano in campagna. O anche – come s’era lasciato “scappare” in confidenza – perché entrassero nel corredo delle figlie quando sarebbe venuto il momento di metter su famiglia, auspicabilmente ad Arbus. Per questo aveva un valore doppio il suo artigianato: sfruttando gli intervalli fra i turni di lavoro, a Ingurtosu, s’era servito dei macchinari lì a sua disposizione, ricavandone un’utensileria domestica – non escluso il soffietto per sa giminera – tutta in ferro od in lucido ottone. Essa era conservata in una cassa apposita, che emanava un fascino speciale, forse più per quel tanto di futuro che anticipava che non per il pregio, che pure era reale, dei manufatti. Ma c’era anche un’altra cassa, nel sobariu, che custodiva mirabilie. Tutti belli ordinati lì erano raccolti i documenti che attestavano i passaggi di proprietà della casa e dei terreni così come il contratto di matrimonio e la progressiva implementazione della famiglia…
La partecipazione alle faccende domestiche veniva vissuto come il compimento di un’attività che emancipava, faceva riconoscere “grande” chi, per l’età, ancora non poteva annettersi i gradi in via ufficiale. Tutte collaboravano con la madre: c’era da rifare il letto, da portare qualche brocca d’acqua dalla fontana di piazza Mercato, limite massimo e invalicabile del territorio percorribile senza l’obbligo dell’accompagnamento di un grande effettivo… O ancora, c’era da recarsi presso questo o quel negoziante della zona per l’acquisto di alcune derrate – pasta, zucchero, sale, ecc. -, anche se va detto che il grosso delle commissioni era la nonna delle bambine, ormai trasferitasi, per sinergie e complementarità, nella casa attigua, a farle per conto della figlia: non c’era pubblico mercato, ad Arbus, e molti dei generi alimentari li si doveva comparare direttamente dal produttore, con il quale bisognava saper trattare.
Donnine massaie in prova
I maggiori empori, nel centro, erano quelli del signor Pisano, vicino proprio a piazza Mercato, e del signor Frongia, nella via Roma. Essi erano forniti di vini e liquori d’ogni specie, di dolci d’ogni gusto, di farina d’ogni tipo. Ma non solo alimentari, lì si trovava il sapone, l’amido, il lucido da scarpe e quant’altro.
Le bambine vi si recavano con le monete contate in mano e, concluso l’acquisto, s’incamminavano con le migliori intenzioni verso casa. Salvo a trovare qualche amichetta in strada ed attardarsi così, in beata e distratta compagnia, per un gioco improvvisato. Era allora nonna Atzeni ad uscire per cercare le disperse contro le quali, una volta rincasate, scattava, ineluttabile ed inappellabile, la punizione materna: a letto senza cena! Pena puntualmente disattesa, con spirito pragmatico, dalla sola Idina, che clandestinamente si riempiva la pancia sgranocchiando la frutta secca custodita in gran quantità nella stanza degli ospiti. (Lei, Idina, era un’autentica “gianburrasca”, lunga di mani per… picchiare i deboli, con qualche preferenza per sua sorella Clelia – invece pacifista ad oltranza – e, più ancora, per… rubare carne e salsicce, frutta ed altre bontà, naturalmente con destrezza e puntuale scarico di responsabilità).
A tavola ci si sedeva tutti assieme, adulti e bambine, ognuno col suo bravo scanno personale. Ma era festa vera soltanto il sabato sera e la domenica, perché c’era babai. Egli tornava dalla miniera, di norma, nel buio del sabato sera – dopo il turno in laveria – e se ne ripartiva, come detto, la domenica notte o all’alba del lunedì. La famigliola si riuniva, nel vano d’ingresso, attorno a su scannu’e tabas, il tavolo quadrato che veniva trasportato dalla “camera della scala”, dove stava abitualmente per essere utilizzato nella preparazione dei pasti.
Questi erano sempre caldi, cotti al fuoco del camino o su un fornello apposito che conteneva, al proprio interno, le braci ardenti ed era trasportabile qua e là. Il segno della croce era l’atto che, sempre puntuale, apriva il rito conviviale.
A tavola tutti assieme
Erano le grandi – Derigna e Clelia e anche Idina – ad avere l’incombenza di apparecchiare (e poi di sparecchiare). Tutto doveva esser compiuto con garbo e precisione. Se qualcosa mancava, un’occhiata silenziosa di babai era sufficiente perché si rimediasse.
Tutto era ordine. Anche e soprattutto a tavola la compostezza era un valore non barattabile. L’esempio veniva dall’alto. E per esempio, a differenza di molte altre case in paese, non era mai capitato che sullo scannu’e tabas degli Aru-Aru un solo piattone centrale fornisse ai commensali, privi del proprio piatto, i materiali delle forchettate fiondanti con… africana perizia.
La pastasciutta al sugo o condita con aglio e olio s’affacciava dal pentolone più d’una volta la settimana e sempre, comunque, la domenica, e gettonata era pure la minestra di verdura o più spesso ancora (la sera) di latte o di olio (con soffritto e pomodori freschi). Frequente era il minestrone di legumi, e molto apprezzata, in quanto ricca di sapori e valori nutritivi, era la carne di gallina, che regalava anche il brodo da sorbire col pane. I contorni erano il dono multicolore e multisapore dell’orto e si combinavano sempre benissimo con tutto quanto sembrava possibile ricavare da quell’autentica miniera di pietanze in nuce che era il maiale, compreso lo strutto, compreso il sanguinaccio.
Una volta all’anno, proprio in occasione dell’uccisione dei maiali, Severa Aru, che era un’abilissima cuoca, cucinava il riso: allora era festa doppia, e il riso arricchito di ciccioli o di pezzetti di pancetta simboleggiava ottimamente l’abbondanza.
In alternativa al maiale compariva sovente, il fine settimana, l’agnello che Giovanni Aru sapeva arrostire come pochi, secondo la tecnica sarda dello “sgocciolamento” del lardo sulla carne in cottura attraverso un piccolo imbuto di carta da pane.
Di tanto in tanto faceva capolino sulla tavola anche il pesce, che ad Arbus era portato, ma senza alcuna regolarità, da qualche pescatore del Cagliaritano o, magari, di Marceddì.
Assidui commensali per svariati anni – press’a poco dalla fine del 1910 sino alla loro partenza per la guerra – erano Loi, Bissenti e Antoi, i tre fratelli minori del capofamiglia, che avrebbero preso moglie poco tempo dopo il loro ritorno alla vita civile. Essi erano stati “imposti” – se così può dirsi – da Giovanni Aru a sua moglie, dopo che questa aveva decisamente respinto la sua ipotesi di emigrare in America. «Se parti non torni», gli aveva obiettato press’a poco, nella rapida parlata arburese. E allora lui, sentendosi rafforzato nel suo potere negoziale, aveva preteso che fossero accolti in casa i suoi fratelli. Doveva essere, appunto, il 1910, l’anno della morte della madre (Maria Figus Bellu se n’era andata ancora relativamente giovane, neppure sessantenne).
Si erano invece sposate giovani Catterianna e Filomena, le sorelle – rispettivamente classe 1883 e 1889 – che per età venivano fra Giovanni e Salvatore. La prima aveva concepito, prima ancora della benedizione delle sue nozze con il carbonaio Antonio Luigi Secchi, un bellissimo bambino, Pietro, alle cui cure s’erano dedicati anima e corpo proprio suo fratello e, più ancora, sua cognata. Anche lui, il piccolo Pietro, aveva dunque onorato la tavola dei doppi Aru neosposi, almeno fino a che i suoi genitori, che per svariati mesi avevano dovuto emigrare nella regione dove si estraeva e lavorava il sughero, non s’erano finalmente potuti sistemare, come coppia onorata, in tutta tranquillità.
Dal fronte dov’erano stati mandati, i tre fratelli si facevano vivi con i congiunti inviando brevi messaggi, cartoline postali e lettere contenute in buste dove talvolta infilavano una loro foto in divisa militare. Il pensiero dei parenti, allora, dal paese correva lì, al lontano fronte di fuoco, e la risposta era immediata, spesso accompagnata da un pacco-viveri.
Gli zii al fronte
Il primato dell’attivismo in questa corrispondenza materiale lo deteneva Assunta Desogus, cugina di Severa Aru e, in quanto fidanzata di Loi, sua prossima cognata. Complici nella buona opera, le due donne confezionavano abbondanti quantità di un certo tipo di gallette tonde e secche che bucherellavano con un punteruolo, così da mostrare che non contenevano nulla al loro interno, e le spedivano a quelle destinazioni dagli strani nomi del Tri-Veneto.
Assunta Desogus – giovane allora di poco più di vent’anni – era figlia di Angela Aru, stretta parente di Giovanni Maria Aru Schirru. Nonostante il suo essere minuto e dall’apparenza gracile e fragile, Assunta era una gran lavoratrice e perciò ormai da diverso tempo era stata chiamata da sua cugina, assieme ad altre, per aiutarla in varie faccende domestiche.
Il matrimonio con Loi l’avrebbe introdotta pienamente nell’intimità della grande famiglia, nella quale non mancavano, e non sarebbero mancati in futuro, i motivi di conflitto, che potevano assumere anche toni pesanti e, fra gli interessati, reciprocamente ultimativi. (Una pagina particolarmente difficile da scrivere sarebbe stata quella della sorda disputa di Giovanni Aru con i suoi due fratelli minori i quali – secondo taluno che però ne attribuiva la regia a un Jago esterno alla famiglia – avrebbero, un giorno, rivendicato spettanze per il duro e perfetto lavoro compiuto nel bellissimo terreno di Baratzu in vista di sfruttarne le risorse imbrifere che erano custodite, fin dall’alba della terra, in caverne rocciose interne al perimetro di quei quattro ettari di piccolo paradiso. Giovanni Aru avrebbe bollato come pretesa immotivata e manifestazione palese di ingratitudine la richiesta dei fratelli, da lui ospitati gratuitamente per anni. Non sarebbe mancato il tentativo di una definizione della vertenza, ma nel modo peggiore, certamente non coerente con il vivere pulito degli Aru, cresciuti tutti nell’etica del lavoro, dell’onestà e della buona pace. Conseguenza della rottura delle relazioni sarebbe stata la non ammissione in casa di Bissenti ed Antoi, perfino nel giorno della morte della loro cognata, che essi avevano così intensamente amato. Negli anni successivi si sarebbe pervenuti però, per grazia di Dio ed i buoni uffici rispettivamente di Caterina Vaccargiu, la moglie di Bissenti – un’autentica santa -, e di iaiu Pietro Aru, alla pacificazione. Con Antoi, che ancora giovane lasciava affrante nel bisogno moglie e tre bambine, addirittura in limine mortis…
(continua)