Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus. Un racconto lungo di Gianfranco Murtas (Quarta parte)

L’alcova, sobria quanto di più non era dato immaginare, conteneva appoggiato alla parete di destra (entrando dall’andito) il letto a due piazze, di solido ferro, con le due spalliere nere, istoriate – erano disegni a fiori – e ondulate nei bordi, di buona mano artigiana; incassata nel muro giusto di fronte alla porta era una credenza con antine in legno, ed alla sinistra della stessa porta un grande tavolo con dodici sedie che ne nascondeva, a mo’ di canguro, un altro più piccolo. Poco oltre, una finestra dava luce alla stanza prendendola da s’otixeddu.

 

La camera e il solaio

Giustamente riposto nella più appartata delle camere era uno degli oggetti di maggior pregio custoditi nella casa di via Mazzini: il fucile calibro 12 a due canne e retrocarica. Giovanni Aru lo portava, a tracolla, con qualche frequenza non per caccia però, ma perché quello era l’uso, come silenzioso messaggio di rispetto e come, se così può dirsi, status symbol del giovane ceto dei piccoli proprietari (il nuovo soggetto sociale candidato alla guida della politica, oltre il tradizionale notabilato).

Al piano superiore le camere, col pavimento in legno ed il soffitto in canne e copertura in tegole, erano due. Quella soprastante la cucina, raggiunta direttamente dalla scala, con una volta piuttosto bassa, alloggiava gli ospiti. Per svariati anni “gli ospiti” non erano altri che i tre fratelli del capofamiglia che li aveva voluti con sé, unitamente all’anziano padre (il quale preferiva però la casa campestre di Baratzu), dopo la vedovanza di questi, e fino a che ciascuno non avesse preso moglie e costruito la sua autonomia.

Non molto discoste dai loro letti, tutti in legno, erano le provviste alimentari provenienti dagli appezzamenti coltivati di Baratzu e di Sant’Antiogu, di S’Attarau e di Caddaxius, almeno quelle orticole e frutticole, dalle patate alle mele e alle pere ed all’uva, ma non escluso il grano ancora da macinare o la farina del cui acquisto si occupava personalmente Severa Aru che sapeva scegliere, a seconda delle necessità, fra il tipo zero, il “fiore” e la semola.

L’altra camera, sopra quella matrimoniale e l’andito, era forse la più grande di tutte: lungo la parete che dava verso il cortile retrostante, sul quale s’affacciava una finestra, era accostato il lettino di Derigna e un po’  più in là era il secondo, doppio però, esso pure tutto in legno, in cui dormivano, dopo aver recitato le preghiere (in sardo) con la nonna o la mamma, Clelia, Idina e Gesuina. Quasi attaccato era un comodino che nella mensoletta reggeva la bottiglia dell’acqua col bicchiere per l’eventuale sorsata notturna e all’interno l’orinale smaltato. Nella parete opposta, dove s’apriva la porta di collegamento con la stanza degli ospiti, un grande tavolo raccoglieva una certa quantità di cestini colmi di frutta secca, mentre un secondo meno capiente era lo stabile deposito del pane che d’estate veniva cucinato ogni due settimane e d’inverno ogni tre. Si trattava di una sorta di civraxiu integrale e di grandi focacce ricavate dalla pasta lievitata. Esse erano spaccate a metà per la nuova breve infornata che le rendeva croccanti come un biscotto e, prima di essere consumate, dovevano essere rammollite e condite, a seconda della stagione, col pomodoro, l’olio o la ricotta.

 

Il forno domestico

La panificazione richiedeva mano – a sua volta risultato dell’esercizio – e spirito di sacrificio non comune, perché era un’arte senz’altro faticosa. Con l’aiuto di alcune donne, prime fra tutte sua madre, la cugina Assunta ed Elvira Cirina (cui si sarebbe aggiunta una giovanissima, tale Filomena, destinata al convento), Severa Aru si accingeva al confezionamento del civraxiu, delle focacce o di sa moddixi, il pane bianco, come a un rito sacro.  Impastava la farina del tipo giusto: scura e meno pregiata quella necessaria al civraxiu, di cui preparava pezzi da due chilogrammi, bianca quella di sa moddixi, in pezzature voluminose ma di minor peso (di un chilogrammo circa); la lavorava con l’acqua tiepida e il lievito, dopo essersi segnata con devozione, e lasciava quindi fermentare la pasta coprendola con alcune tialas, e dopo svariate ore infornava.

Un’abilità non minore era quella che si richiedeva per preparare la pasta e, più particolarmente, le tagliatelle. Perché, se gli spaghetti li si trovavano già bell’e confezionati in qualche pastificio a mezzo fra l’artigiano e l’industriale, le lasagne no, quelle bisognava farsele in casa, anche per il godimento delle bambine, un po’ spettatrici e un po’ aiutanti. Esaurite tutte le fasi iniziali dell’impasto e della manipolazione, Severa Aru, sempre con l’aiuto della madre, metteva ad asciugare, proprio in casa di quest’ultima, la fettuccia morbida e fragile, sistemandola a cavallo di lunghe canne.

Su stabi, ovverossia la “camera del forno” – dove si cuoceva il pane e dove pure trovava posto la legnaia per i bisogni tanto del forno quanto del camino – era collocato nel cortile d’ingresso – sa prazza -, poggiato sulla destra entrando dalla strada. Aveva i muri esterni di pietra nuda, fissati con il fango. Il gabinetto – un cesso alla turca con fossa settica – si nascondeva invece, per discrezione, nel retrostante otixeddu, ingentilito da un pergolato di uva moscatella. Qui, accosto al magazzino delle botti e delle riserve dell’olio nonché degli attrezzi per la lavorazione del legno, era stato allestito il pollaio, anche se è vero che galline e piccioni e anatre se la passavano tranquillamente (ignorando il proprio futuro) pure nell’altro cortile. Ciò a differenza dei maiali che, solitamente in abbinata, dovevano scontare il domicilio coatto al riparo dalle distrazioni e dalle pur soltanto ipotetiche minacce della strada. Per completare l’ingrasso, in autunno, stagione di fichi d’India, essi venivano tradotti in campagna. E già era tempo di macellazione, un rito che veniva vissuto come una festa perché occasione felice di nuovi approvvigionamenti di carne, lardo, strutto, ecc.

L’esperienza dei secoli suggeriva ancora le tecniche di conservazione degli alimenti. Il freeser naturale e senza costo era l’aria pungente della notte montana, specie nei lunghi mesi da settembre a tutto maggio. Anche il sale rispondeva all’esigenza specialmente delle carni. Il vino veniva invece rinfrescato, d’estate, in un secchio d’acqua fredda.

 

Per bene e lavarsi

Mancava il pozzo, ed era un guaio. Al pari della maggioranza delle famiglie locali, vi si ovviava con le riserve d’acqua. Questa era attinta alla pubblica fontana – su grifoi, che alcune tubazioni collegavano direttamente al primo acquedotto del paese – e trasferita a casa, in brocche e bacinelle metalliche.

Is marigas di buona terracotta costituivano, per il loro prezioso contenuto, una sorta di dotazione sacra. Esse erano poste, vicino all’ingresso, sopra una lastra di granito – sa muredda – che recava disegni incisi ed era attraversata da una scanalatura proprio per far gocciolare l’acqua in uscita dentro una scivedda e non perderne così neppure una stilla.

Pozzi ad uso collettivo si trovavano disseminati lungo tutto il centro abitato, perché Arbus, che è posizionata su alcune colline di granito, ad oltre 300 metri sul livello del mare, ma con punte montane assai più elevate, aveva un territorio – il  più esteso, dopo quello di Iglesias, dell’intera provincia comprensiva dell’Oristanese – ricco di falde imbrifere con acqua sempre purissima e sempre freschissima.

Certo senza mai… scialare, ci si poteva così lavare agevolmente ed era possibile tenere la casa sempre pulita. (All’eliminazione del pattume – foglie d’albero e residui comunque di legna, bucce di frutta, fondi di caffè, cartone e quant’altro – partecipavano un po’ tutti: il trasporto era al grande immondezzaio sito in periferia, presso una proprietà del medico del paese. In casa Aru-Aru esisteva, peraltro, un gran fosso, nell’area di s’otixeddu, che di norma si svuotava all’inizio dell’autunno oppure a primavera, quando se ne trasferiva il contenuto, come letame per concimare la terra, a Baratzu od a Sant’Antiogu).

Il bucato veniva eseguito, con l’utilizzo della cenere del camino o del forno del pane (di legna buona), preferibilmente in campagna, a Baratzu od a Sant’Antiogu, oppure al fiume, vicino al lotto verso Sibiri (a un’ora dall’abitato), da una delle donne che collaboravano con Severa Aru nei lavori domestici, incluse la cognata Filomena e la giovanissima Adelina Serra.

Preceduta da una insaponata soprattutto dove le macchie parevano più resistenti, la roba veniva lavata secondo il collaudato metodo dell’ebollizione della liscivia, dell’acqua cioè miscelata alla cenere: rimedio sicuro per ogni sporco, compreso quello di pentole e padelle, spiedi e piatti.

L’ordine dell’abbigliamento e la nettezza della biancheria costituivano un dovere inderogabile a cui anche le piccole erano tenute e ad esso venivano perciò opportunamente educate.

 

Moda Novecento

Della generazione dei venti-trentenni, anche ad Arbus, nessuno o quasi metteva  più l’abito della tradizione che restava appannaggio dei vecchi. Il Novecento, il secolo tecnologico e pratico per eccellenza, dettava le sue regole anche alle fogge degli abiti, senza escludere alcuno, né periferico né rurale che fosse. Senza dire poi che uno come Giovanni Aru poteva in tutto e per tutto assimilarsi ormai al proletariato industriale-minerario che ignorava tutto quanto, dalla berritta alle uose, aveva caratterizzato i mille anni della stagnante moda sarda. Così sua moglie, che al motivo più generale sommava quello suo personale di cucitrice e anche, pur in tutta modestia, di stilista.

Cessato l’uso del costume paesano, Giovanni Aru vestiva stile Novecento, adattando panni e fogge: se doveva sporcarsi o sudare – in miniera o in campagna era eguale – indossava camicie senza colletto e pantalonacci pronti a ogni battaglia, e calzava scarponi grossi e protettivi; se doveva partecipare alle riunioni della giunta di cui era il vicecapo, in municipio, eccolo apparire allora con la camicia bianca impeccabile e la cravatta, il gilet con tanto di orologio al taschino e, sopra, la giacca dell’abito buono di velluto. Le scarpe di capretto, morbide, erano sempre lucidatissime e facevano anch’esse un certo effetto… In quelle occasioni metteva di frequente, in capo, anche il borsalino, con la mise elegante; se era giorno di lavoro, al contrario, sceglieva la coppola, sa bicicletta.  D’inverno, poi, era solito intabarrarsi con un capottone d’orbace ed una mantella di lana di tipo militare.

Così l’uomo. Di Severa Aru si ammirava invece la distinzione naturale, il gusto nel taglio di gonne e vestiti degni dei complimenti di una gran sartoria di città. Con sobrietà “modernista” portava l’abito lungo e moderatamente svasato e infilava qualche piccolo gioiello non prezioso e però di stile apprezzabile, l’anello e gli orecchini, e sul corpetto una spilla.

Era forse l’aspetto che più colpiva, e comunque, evidentemente, il primo che segnava l’impatto con lei, questa parca eleganza mai dismessa neppure in casa, questa accuratezza garbata, per non dire delle raffinatezze festive, che tutti lodavano perché non ostentate, per esempio dello scialle di lana che portava nella stagione fredda, magari per andare in chiesa, o di quell’altro che indossava nelle grandi occasioni e che recava un bellissimo disegno ricamato esso pure a mano. Il suo guardaroba era, pressoché tutto, risultato del suo lavoro e del talento che possedeva innato.

Di gusto ed accurata fattura erano anche le polacchine che calzava un po’ in tutte le stagioni. Alte, coi lacci immancabilmente scuri, erano il tipo di scarpa da lei preferito. Ne ordinava un paio ogni volta che partoriva… La scarpiera, ad un certo punto, s’era fatta piena.

E le bambine? La pulizia personale era, intanto, segno di buona educazione. Nel vano di cucina, il più caldo di tutti, e con la porta rigorosamente chiusa, ogni settimana esse venivano “striggiolate” alla grande da mamma e nonna in cooperativa.   Assai curato era pure il loro abbigliamento, pur nella modestia effettiva del pannolano. I loro vestitini erano in cotone o in lana, a seconda della stagione: bluse e gonne arrivavano immancabilmente al polpaccio, sempre stirate e, soprattutto, sempre pulite. L’occhio controllore della madre, che anche di quei capi era la materiale autrice, avrebbe vigilato.

La domenica e le altre feste comandate obbligavano a una “divisa” che doveva segnalare quel qualcosa di ancor più importante da compiersi in quel giorno (ed era una “divisa” puntualmente riposta, dopo l’uso, nell’armadio). Tutte calzavano scarpette o stivaletti fatti su misura (così come avveniva anche per gli adulti della famiglia) da pelli di capretto precedentemente conciate.

 

Il gioco delle ombre e gli altri

Le piccole vivevano la loro età indirizzate, è ovvio, soprattutto dalla personalità materna, dal temperamento schivo e quasi austero di Severa Aru. I giochi, l’aiuto domestico, lo studio scolastico, il catechismo parrocchiale, come già l’ordine e la pulizia dell’abbigliamento, tutto rifletteva un input di serietà che veniva spontaneo dall’esempio e dall’educazione di Severa Aru.

Il gioco preferito era quello delle ombre, ma a concorrere per il massimo gradimento erano anche le acrobazie di su pincareddu (o pilastra cioè “pietra piatta”) o del salto della fune, gli alambicchi dell’occultamento del fazzoletto negli interstizi dei muri di pietra, i giri forzati della trottola o di su barrallicu, oppure ancora la simulazione un po’ ripetitiva di sa butega o di sa domu, in cui i ruoli preferiti erano quelli della madre-e-massaia. Negli anni della scuola si sarebbero via via aggiunti passatempi più “intellettuali”, come per esempio potevano essere gli indovinelli dell’“impiccagione”.

Alla luce delle lampade a petrolio o a carburo che erano in casa per rischiarare la sera, le protagoniste si divertivano a formare delle figure sui muri e a muoverle come al cinema (ancora sconosciuto ad Arbus). Così anche quel certo giorno, l’anno sarà stato il 1910 o il 1911: offesa, poverina, alle gambette dalla poliomielite, al pari di tanti altri bambini del paese, la piccola Iolanda, cinque anni soltanto, è comoda su una sedia accanto alla madre; la sorellina minore Derigna, che sta appena imparando a parlare, balbetta qualcosa come a voler richiamare l’attenzione della madre, ma l’altra la zittisce subito, gelosa e possessiva per necessità di compensazione: «Custa è mamma mia», s’intromette seccata, toccando quella vera, in carne ed ossa, «cussa è sa tua!», soggiunge indicando l’ombra sul muro.

(continua)

 

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