Il caso M5s, l’utopia che cade a Roma, di Antonio Polito
L’esperienza di Torino dimostra che il destino di Roma non è ineluttabile. Ma per risorgere, paradossalmente, il Movimento deve rinunciare alla sua pretesa anomalia e scendere con i piedi per terra.
Non sono gli avvisi di garanzia, le liti intestine, la guerra tra correnti, i veri problemi dei Cinque Stelle. Anche il Pd ne ha in abbondanza, e ciò non gli impedisce di essere al governo del Paese. Il vero grande problema dei Cinque Stelle si potrebbe definire esistenziale, ed è stato macroscopicamente confermato dalla crisi di Roma: il suo progetto iniziale, l’utopia rivoluzionaria su cui si fonda, gli impedisce di risolvere i problemi del far politica con gli strumenti della politica democratica. Questo avviene perché il M5S in fondo non crede nella politica. Crede solo in sé, come prefigurazione in nuce di una società ideale, e dunque unico soggetto capace di interpretare e applicare la «volontà generale» dei cittadini, che si esprime attraverso la Rete. Non a caso il software approntato dalla Casaleggio Associati si chiama Rousseau, non Montesquieu. Si nega così una visione laica della politica, basata sulla separazione liberale dei poteri. Coloro che sono eletti nelle istituzioni sono costretti alla schizofrenia di una doppia lealtà. Quella al Movimento e alle sue ferree ma mutevoli regole deve prevalere su quella agli elettori. Sembrerebbe impossibile che Virginia Raggi, eletta da 770 mila romani, possa dipendere dai 1.764 militanti che l’hanno scelta come candidata online. Eppure tra la sindaca e il suo immenso elettorato ci sono almeno quattro filtri di sovranità interna che la sovrastano: il Mini Direttorio locale, il Direttorio nazionale, il Super Direttorio della Casaleggio Associati e il Fondatore supremo.
Così, quando sa dell’indagine sull’assessore Muraro, la sindaca dice di aver subito informato «i vertici» del Movimento, (anche se non si capisce mai chi siano esattamente); ma si guarda bene dal dirlo agli elettori, con la gesuitica scusa secondo la quale tacere la verità non è mentire. Così i meccanismi interni diventano sempre più carbonari, altro che streaming. I capi si vedono a cena, si scambiano mail segrete, si azzuffano in lunghe riunioni le cui decisioni finali sembrano spesso «un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», come diceva Churchill della Russia sovietica.
C’è poi una seconda grave conseguenza dell’anomalia dei Cinque Stelle: il rifiuto delle competenze. Se l’eletto è il portavoce del popolo, a che serve infatti che sappia anche come si fa a governare? Tutti possono farlo, uno vale uno. Purtroppo, così non è. A Roma, di fronte alla complessità e all’enormità del compito, si stava tentando una via nuova. Il Movimento ha cercato al di fuori degli esperti, seppur selezionati in modi opachi, nel tentativo di dotarsi in fretta e furia di una classe dirigente che non ha. Tanto più disastroso è dunque l’esito: neanche tre mesi, e i «tecnici» sono stati sacrificati come capri espiatori sull’altare della lotta interna.
È dunque l’ala «governista», quella che credeva giunto il momento di cominciare a dimostrare una capacità di governo, a prendere il colpo più duro dalla vicenda romana. Già si sente fischiare il vento dei «movimentisti» che vorrebbero chiudere la vicenda con lo scalpo del candidato premier Di Maio. Ma come convinceranno poi gli italiani di poter trovare sedici ministri e quarantacinque sottosegretari in grado di guidare un Paese del G7?
Ciò che sta accadendo è un peccato. Un peccato per le centinaia di migliaia di romani che hanno fortissimamente sperato e ancora sperano nei Cinque Stelle per mettere fine alla maledizione del Campidoglio. Mentre qui, ottanta giorni dopo il voto, siamo ancora ai convulsi preliminari di un’azione amministrativa che non è mai cominciata, e non ha prodotto nemmeno la decisione più importante, sì o no alle Olimpiadi.
Ed è un peccato anche per la democrazia italiana, la quale ha bisogno che esista una alternativa di governo credibile, e che ora non sa più se ce l’ha. Il Movimento — mai come in queste ore orfano di Gianroberto Casaleggio — può ancora «ripartire», come ha auspicato ieri Beppe Grillo. L’esperienza di Torino dimostra che il destino di Roma non è ineluttabile. Ma per risorgere, paradossalmente, deve rinunciare alla sua pretesa anomalia e scendere con i piedi per terra. Ciò che tanti italiani chiedono ai Cinque Stelle è sì un governo degli onesti, ma innanzitutto un governo. Finora, nella prova più difficile, abbiamo visto solo improvvisazione, impreparazione, improntitudine.
Il corriere della sera, 6 settembre 2016