Non è vicino il declino americano, di Angelo Panebianco

L’introduzione di Angelo Panebianco al saggio di Joseph Nye «Fine del secolo americano?» (il Mulino) che smentisce la tesi di un tramonto dell’egemonia Usa.

Il libro di Joseph Nye Fine del secolo americano? (il Mulino) fa a pezzi, usando solidi e assai persuasivi argomenti, la generale credenza, la vulgata che si è ormai affermata, sull’inesorabile, inevitabile, declino americano, sull’eclisse ormai in atto della potenza americana. Non è un libro scritto per essere letto e commentato solo dagli specialisti. La rilevanza del tema ha spinto l’autore a rivolgersi a chiunque voglia comprendere, in America, in Europa e in qualunque altra parte del mondo, che cosa ci stia accadendo intorno. Poiché è evidente che il destino di tutti noi sarà condizionato da ciò che accadrà alla potenza americana. Basti pensare a c0ome cambierebbe radicalmente la storia europea futura se la pax americana sotto il cui ombrello l’Europa, dopo il 1945, ha conosciuto pace, benessere e stabilità democratica, venisse meno. (…)

Joseph Nye, «Fine del secolo americano?» (Il Mulino, pp. 134, euro 13,00)

Nye esordisce in questo libro analizzando i punti di debolezza della copiosissima letteratura sul declino americano. Se si parla di «perdita di egemonia» bisogna definire con precisione che cosa si intende per «egemonia». I vari autori usano il termine con significati diversi. Nye mostra che né sotto il profilo della potenza economica né sotto quello della forza militare né, infine, sotto quello del soft power,si può negare, dati alla mano, che gli Stati Uniti siano ancora il Paese che mantiene un indiscutibile primato. Nessuno dei due confronti che si fanno abitualmente, con la Roma imperiale o con la Gran Bretagna, colgono nel segno. Roma si disgregò a causa delle sue divisioni interne. La Gran Bretagna, anche nel momento di sua massima potenza, non ebbe mai una posizione di preminenza (economica, militare e di soft power) paragonabile a quella degli Stati Uniti dopo il 1945.

Ma il declino americano, si dice, è un declino relativo, non dovuto tanto alla perdita di forza degli Stati Uniti quanto alla crescente affermazione di alcune potenze emergenti. Nye esamina punti di forza e di debolezza di tali potenze emergenti mostrando che nessuna di esse ha i numeri per svolgere, in un futuro prossimo, il ruolo che i teorici del declino assegnano loro. Nemmeno la Cina, sulla quale Nye si sofferma a lungo, può aspirare a sostituire gli Stati Uniti e nemmeno a concorrere (per ragioni che l’autore spiega efficacemente) alla formazione di un sistema bipolare Cina-Stati Uniti in grado di sostituire il bipolarismo Unione Sovietica-Stati Uniti dei tempi della Guerra fredda.

Il libro mostra che una «transizione di potenza» (il passaggio del testimone dagli Stati Uniti ad altre potenze) non è un’eventualità plausibile.

Ma potrebbe esserci invece un declino assoluto, anziché relativo, dovuto a cambiamenti della società americana che facciano venire meno i suoi punti di forza? Qui l’indagine si sposta dalla scena internazionale ai fattori di incipiente debolezza (ma anche di perdurante forza) degli Stati Uniti. Nye esamina i problemi che affliggono quella società e le sue istituzioni. Alcuni di essi sono gravi (le accresciute disuguaglianze sociali, i limiti del sistema di istruzione inferiore, le crescenti difficoltà di funzionamento delle istituzioni della democrazia americana). Nye sostiene però che quei gravi problemi non sono irrisolvibili e, inoltre, che sono bilanciati dalla perdurante vitalità di una società demograficamente giovane, con un sistema di istruzione superiore che resta eccellente, una società libera che continua a generare sviluppo e che dispone tuttora di grandi risorse morali e intellettuali. Il futuro è aperto e imprevedibile ma, osserva Nye, i pur gravi problemi della società americana, se confrontati con quelli che affliggono le altre società (Cina e altri Paesi emergenti), non sono di portata tale da renderne inevitabile il declino. Se la transizione di potenza immaginata dai teorici del declino è improbabile, ciò non significa però, secondo Nye, che la potenza internazionale degli Stati Uniti potrà esercitarsi anche in futuro nel modo in cui si è manifestata nei molti decenni che hanno seguito la fine della Seconda guerra mondiale. Non ci sarà transizione di potenza, ma è in atto una trasformazione della società internazionale che favorisce la «diffusione» della potenza. Nei vari Paesi, Stati Uniti compresi, le élite devono oggi fare i conti con opinioni pubbliche molto più esigenti e condizionanti di un tempo. Inoltre, la rivoluzione informatica ha messo a disposizione di una pluralità di gruppi, un tempo senza potere, le risorse per agire politicamente e influenzare il comportamento dei governi.

La rivoluzione tecnologica e l’interdipendenza economica e sociale, combinandosi, hanno generato una crescente complessità, hanno fatto emergere problemi che nessun governo (nemmeno gli Stati Uniti) è in grado di affrontare da solo: cambiamenti climatici, migrazioni, terrorismo, e altri problemi ancora, pongono sfide che i governi possono sperare di controllare solo cooperando. Pur non citandola, Nye adotta una concezione del potere simile a quella di Hannah Arendt quando osserva che molti problemi contemporanei, per essere affrontati, richiedono un esercizio del potere che non può limitarsi alla creazione di rapporti gerarchici (il potere esercitato da qualcuno su qualcun altro). Richiedono invece un «potere con», un potere condiviso che può essere alimentato solo mediante la collaborazione fra società e governi.

Gli Stati Uniti, presumibilmente, manterranno una rete di alleanze e continueranno ad animare network informali utili per fronteggiare i problemi transnazionali. A differenza delle antiche colonie, quelle alleanze e quei network sono assets, risorse e opportunità, non fattori di debolezza.

Non può sfuggire a nessuno l’importanza del tema sollevato da Nye. Se i declinisti hanno ragione, allora il mondo che ci si prospetta, guardato dal punto di vista di noi occidentali, è un mondo in cui sarà sempre più spiacevole vivere. Se i declinisti hanno ragione dobbiamo aspettarci una frantumazione della società internazionale in blocchi regionali tendenzialmente chiusi, ruotanti intorno alle varie potenze emergenti. Dobbiamo anche aspettarci un drammatico declino di quel soft power che, facendo leva sui valori e sul modo di vita occidentale, ha spinto molti Paesi extraoccidentali ad abbracciare la democrazia politica e l’economia di mercato. Altre potenze, in competizione con gli Stati Uniti, saranno in grado di proporre al resto del mondo soluzioni politiche ed economiche diverse (autocratiche per lo più) e il loro accresciuto soft power funzionerà da calamita, attirerà, nell’Africa subsahariana, in Medio Oriente o nel Caucaso, le élite di molti Paesi. Al declino degli Stati Uniti si accompagnerebbe un declino (economico, politico e infine anche militare) del mondo occidentale, Europa compresa, nel suo insieme. Crescerebbero alla fine anche i rischi di guerra tra le grandi potenze.

Se invece Nye ha ragione, ciò non basterà a rendere meno complesso il mondo né a impedire le sue molte tragedie ma, almeno, resterà la speranza che esso non vada totalmente fuori controllo. Se il primato americano non finirà, e se la pressione dei problemi costringerà i governi a cooperare, alcune delle più cupe profezie dei teorici del declino americano non si concretizzeranno.

Il Corriere della sera 23 agosto 2016

 

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