Il burkini è da disapprovare ma non dobbiamo vietarlo, di Angelo Panebianco

Ci sono usi e costumi che vanno proibiti e basta, come il burka o la poligamia, altri invece vanno permessi e rispettati: ci sono poi quelli che vanno consentiti ma pubblicamente censurati se vanno contro i valori liberali e rappresentano la sudditanza della donna.

 

La confusa diatriba sul burkini, l’abito indossato dalle donne musulmane per andare in spiaggia (vietarlo? permetterlo?) mostra quanto sia complicato fare i conti con la «società multiculturale». Società multiculturale è espressione che «piace alla gente che piace», a coloro che per reddito, stili di vita, quartieri in cui risiedono, non devono stare ogni giorno fianco a fianco, gomito a gomito, con le culture altre. Di tale società essi danno spesso una descrizione idilliaca, non capiscono che le caratteristiche delle società multiculturali dipendono dai rapporti di forza fra i diversi gruppi. Quali comportamenti gli europei dovrebbero pretendere da chi viene da altre culture? Alle prese con i costumi altrui importati in Europa, essi dovrebbero operare una triplice distinzione. Ci sono usi che vanno proibiti e basta. Ci sono poi usi che vanno permessi e anche rispettati. Ci sono, infine, usi che vanno permessi ma pubblicamente censurati.

Alla prima categoria appartengono cose come il burka (che comporta la copertura totale del volto della donna) oppure la poligamia. Il burka è quanto di più antitetico si possa concepire rispetto al mondo occidentale contemporaneo. Questo mondo si regge sul principio della responsabilità individuale (è la ragione per cui dobbiamo essere riconoscibili, a volto scoperto). Il burka è espressione di una cultura altra, anzi aliena, nella quale la responsabilità degli atti di alcuni (nel caso specifico, le donne) non appartiene a loro ma alla comunità o al capo famiglia. Come il burka, anche la poligamia (fondata sul principio della disuguaglianza fra uomini e donne) è incompatibile con noi e deve restare illegale. Poi ci sono gli usi, né offensivi né dannosi, che vanno senz’altro permessi, usi che non sono in conflitto con i nostri principi: riti religiosi, tipi di abbigliamento che hanno un legittimo valore identitario, certe abitudini alimentari (anche se non tutte). Vanno accettati con il rispetto che si deve a chi, semplicemente, è stato allevato sotto un diverso cielo culturale.

C’è infine una terza categoria di comportamenti, i quali dovrebbero essere consentiti ma anche pubblicamente disapprovati. Mi sembra che questo sia il caso del burkini. Vietarlo non ha senso per società che si dicono liberali. Qui non stiamo parlando del burka che, come si è visto, è un’altra storia. Solo gli stati autoritari pretendono di dettare l’abbigliamento delle persone (lo hanno sempre fatto: ricordate la Cina di Mao?). Gli stati (sedicenti) liberali non possono permetterselo. Dunque, il burkini non va messo fuori legge. Ma ciò non significa che lo si debba anche approvare. Il burkini non è un capo di abbigliamento come un altro. Testimonia di una sudditanza culturale, di una subordinazione alla comunità che, alla luce dei nostri principi, va stigmatizzata. Devo accettare che il burkini sia legale ma non devo solo per questo manifestare un rispetto che non provo per un’usanza che non mi piace. È insensato, in nome di un’acritica difesa della società multiculturale, osservare che il burkini ricorda gli abiti con cui le nostre trisavole andavano in spiaggia. A meno che chi fa la suddetta osservazione non stia anche sottintendendo che dovremmo ritornare a quei tempi. Una donna che si metta a seno nudo in una spiaggia affollata può anche essere considerata volgare ma sta facendo comunque una libera scelta. A differenza della donna in burkini. Vietare no, disapprovare sì. La pubblica riprovazione non sarebbe fine a se stessa. Servirebbe a spronare, a incoraggiare, col tempo, l’emancipazione individuale, l’allentamento del controllo comunitario sull’individuo.

Ma c’è un ma. Se governare una società multiculturale in formazione richiederebbe di fare la suddetta triplice distinzione (cose da vietare, cose da permettere e da rispettare, cose da permettere e da disapprovare), attenersi a questa linea di comportamento è difficilissimo. A causa di una forma di degenerazione culturale che ci ha colpito da tempo. Mi riferisco alla diffusa convinzione secondo cui legalità e moralità sarebbero sinonimi: la tendenza a pensare che se qualcosa è legale allora sia anche moralmente rispettabile e che, per converso, se qualcosa è illegale allora sia anche, necessariamente, immorale. Ma moralità e legalità a volte convergono e a volte no. Ci sono comportamenti legali che non meritano alcun rispetto. Ci sono anche talvolta violazioni di leggi stupide (che consideriamo stupide). Sono violazioni che vanno comunque sanzionate, in coerenza con quell’ideale di “certezza del diritto” il cui scopo è dare un minimo di prevedibilità ai rapporti umani. Ma in questi casi non c’è proprio alcun bisogno di pronunciare anche condanne morali.

La distinzione fra legalità e moralità è scomparsa dalla mente di tante persone. E’ un male in sé. Ma è anche un male quando si tratta di gestire la società multiculturale. Perché c’è il rischio che si finisca per considerare moralmente rispettabile un qualsivoglia comportamento solo perché legale. Verrebbe meno quella pressione sociale — la riprovazione collettiva di certe pratiche — che può favorire l’emancipazione individuale di cui si è detto. È l’evoluzione dei rapporti di forza fra i gruppi a decidere quale fisionomia assumerà la società multiculturale. Nei rapporti di forza contano sia la quantità che la qualità. Il gruppo culturale numericamente più forte può anche risultare, alla distanza, politicamente debole. Il che accade, ad esempio, se la maggioranza di tale gruppo è in parte indifferente o distratta e in parte divisa sulle scelte da fare, e se, inoltre, essa deve vedersela con una minoranza culturale sostenuta da una forte identità religiosa. Per evitare che prima o poi (a occhio, più prima che poi) le «società parallele» che a causa della nostra dabbenaggine si sono già costituite in Europa, vengano allo scoperto con tutte le loro pratiche, anche quelle per noi inaccettabili, innescando così conflitti ingovernabili, conviene che gli europei imparino in fretta l’arte della distinzione: questo sì, questo no, questo sì ma senza alcuna approvazione da parte nostra.

Il corriere della sera, 29 agosto 2016

 

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