Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus. Un racconto lungo di Gianfranco Murtas (Terza parte).
Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus
(Terza parte)
La casa in cui Giovanni Aru era nato e cresciuto – nella strada che (tanto per restare nel mito) s’intitolava all’eroico capo sardo-pellito Amsicora – era nel quartiere basso di Arbus. Da lì era stato il primo a migrare ed aveva acquistato una casa antica forse di cento anni, a pochi passi dall’abitazione di Luigi Atzeni Racis, zio materno della sua sposa. L’anno successivo, esattamente il 20 maggio, quest’ultima aveva comprato, con la madre che ne avrebbe goduto l’usufrutto, l’abitazione gemella, al civico 61 della medesima strada intitolata al profeta dell’Unità.
Erano «due camere a piano terreno e un solaio soprastante, con corrispondente piazzale davanti e di dietro annesso», come si esprimeva l’atto di compravendita, coerenze Caddeo Lampis Raimondo, Pusceddu Luigia, Murtas Caddeo Raimondo e, appunto, Aru Giovanni Battista. Il prezzo convenuto e consacrato nel rogito del notaio Atzeni era stato di lire 300. Qui si era trasferita da subito, per essere più vicina alla figlia, Angela Atzeni con suo marito Luigi Altea ed il piccolo Battista. Il tempo avrebbe rivelato tutta la provvidenzialità di quella vicinanza: costretta a rimanere sola con la sua nidiata in continua implementazione, per l’intera settimana, Severa Aru aveva necessità di un’assidua presenza fiduciaria in casa e la madre gliela offriva, disinteressata, certamente al meglio.
Lafamiglia in boccio
Anno dopo anno la famiglia, ora soltanto in boccio, sarebbe fiorita del tutto nella gioia delle numerose nascite: una gioia, peraltro, rapsodicamente spezzata dalla mestizia per i parti sfortunati e per la morte di due piccole.
Il 3 agosto 1907 era nata Iolanda. Sarebbe vissuta soltanto cinque anni. Un violento attacco di poliomielite, che già l’aveva menomata da piccolissima, la spazzava via un brutto giorno di novembre del 1912. Allora il silenzio sconsolato in cui era piombata la casa fu attraversato, per lunghi giorni, soltanto dai discorsetti innocenti di Derigna – tre anni – e dal frignare leggero della piccola Clelia, che aveva sei mesi appena. Derigna era nata il 14 settembre 1909, Clelia il 20 maggio di quel 1912. Altri lampi di vita e altri mesti funerali con le bare bianche si erano susseguiti nella casa oltre sa Panca negli anni calamitosi del primo conflitto mondiale: il 21 settembre 1914 era nata Idina e il 27 febbraio 1917 Savina, che neppure sei mesi dopo, il 12 agosto, sarebbe stata stroncata anche lei da una malattia (forse una gastroenterite). Il 2 settembre 1919 aveva visto la luce Gesuina.
Nomi strani, inconsueti, quasi tutti. Ad iniziare da Derigna, raccolto proprio così come suona dall’onomastica familiare di uno stimato ingegnere dell’équipe di comando della miniera presso cui lavorava Giovanni Aru. Idem Idina – c’era una villa Idina a Pitzinurri, per ospitare il vice direttore della miniera di Gennemari-Ingurtosu –, nome che era capitato alla più irrequieta delle sorelle, con una voglia innata e indomabile di scappare ogni giorno da casa per potersene andare da Sua, la zia Giulia Dessì cioè (moglie di Salvatore Floris, cugino primo di Severa Aru), che abitava oltre il confine rionale di piazza Mercato. Sua non aveva figli propri e Idina l’aveva un po’ adottata, coccolandola tutte le volte – ed erano volte frequenti – che si recava nella casa di via Mazzini.
Pure Iolanda, come nome, era la ripresa della scelta compiuta da conoscenti amici che avevano chiamato così una loro figlia. Gesuina no, in quel caso era stata Severa che aveva voluto sdebitarsi con Nostro Signore del quale aveva invocato la protezione nei giorni conclusivi di quella gravidanza alquanto tribolata. Clelia – com’era stata battezzata (padrini il ricco notaio Michele Atzeni e sua moglie Maddalena) la più mansueta delle piccole – era invece il nome che Giovanni Aru aveva udito casualmente in strada, forse nelle stesse ore della nascita della bambina. Chissà, data la militanza socialista del neopapà, potrà aver giocato qui anche una certa simpatia garibaldina…
La casa di via Mazzini nella quale le piccole crescevano, rappresentava tutto quanto Giovanni Aru avesse portato come suo contributo al patrimonio familiare. Col tempo avrebbe aggiunto vari appezzamenti agricoli, da integrare nella proprietà recata in dote da sua moglie (oliveto, vigneto e capi di bestiame grosso e minuto).
Casa Aru-Aru – bisognerà chiamarla così – era a due piani. Una decina di metri la separava dalla strada: non c’era né portone né tanto meno cancello ed il cortile, appena appena rialzato sul livello del selciato stradale, era un tutt’uno con quelli adiacenti di altri proprietari. Simile, anche per la sua connotazione di aia popolata da volatili e da altri animali, era il cortile retrostante che, esso pure, non aveva muri di cinta per dividerlo da s’otu della casa a fianco.
Macello e latteria in prazza ’e domu
Il primo assemblava is tres prazzas delle case che, dopo quella ad angolo con la via Roma, incombevano sulla lieve altura della via Mazzini. In successione erano le abitazioni di Luigi Atzeni e di sua moglie Luigia (Luisa) Pusceddu (che a lui, zio materno di Severa Aru, sarebbe sopravvissuto fino a toccare i 103 anni); di Angela Atzeni ormai risposa di Luigi Altea, col quale viveva occupandosi in primis del piccolo Battista e quindi della famiglia di sua figlia; e infine, appunto, di Giovanni e Severa Aru e della loro nidiata.
L’ingresso era unico, pressoché in linea con la prima casa: una tettoia fatta di strisce di tavola proteggeva il cosiddetto “banco”, un grosso tronco d’albero cioè che era l’altare sacrificale delle povere bestie condotte al macello: pecore e capre ma pure, a partire dal 4 dicembre festa di Santa Barbara, maiali.
Erano in molti ad occuparsi dell’incombenza: iaiu Pietro Aru, babbo Altea e sovente lo stesso Giovanni Aru. Fatte allontanare le bambine, si celebrava il supplizio, con la sua crudeltà antica e necessaria. La carne entrava in parte nelle riserve alimentari della famiglia, in parte andava alla vendita della solita affezionata clientela.
In quello stesso punto giungeva ogni mattina la tinozza del latte appena munto. A quel trasporto provvedeva, con splendida puntualità, un gran cavallo che, liberato dal suo carro, veniva legato proprio all’ingresso della casa di Angela Atzeni. Era giusto suo marito il regista di tutta l’operazione. Le greggi e gli altri animali da latte lasciati da Giovanni Maria Aru Schirru tanti anni prima (o, più probabilmente, le loro figliate) pascolavano nelle campagne di proprietà sparse nell’agro, da Bidderdi ai dintorni di Santadi.
Tolto quanto occorreva in casa, il resto abbondante di quel buon latte caprino ancora caldo e invitante era per la mescita al pubblico. Venivano, col loro recipiente più o meno capace, le molte vicine della zona e toccava a Severa Aru prendere dalla conca poggiata sul tavolo e coperta da un panno anch’esso bianchissimo, e dosare col suo bravo misurino…
Naturalmente non tutta la distribuzione era a pagamento (moneta o baratto). Bisognava provvedere anche a qualche povero che non mancava di certo neppure nel parentado. In particolare c’era una anziana zia di Angela Atzeni che viveva ormai sola. Derigna aveva l’incarico quotidiano di portarle il latte in un bel tazzone di porcellana finissima, decorata con roselline rosse e bianche. Un brutto giorno era però rientrata di corsa e concitata: sa zia non aveva aperto né aveva risposto alla chiamata, sicché lei si era sporta per capire se fosse dentro e l’aveva infine veduta riversa a terra. Era morta.
Sa prazza avrebbe subìto, col tempo, modifiche progressive. E il primo sbarramento in solide pietre arburesi sarebbe stato proprio in direzione degli Atzeni-Pusceddu. Non per zia Luisa, no, ma per suo figlio Francesco.
Ziu Cicciu aveva rovinato il suo carattere dopo il fallimento del matrimonio da lui contratto già in età matura, quando s’era congedato dall’Arma di cui era distinto sottufficiale. Il suo comportamento, anche il suo linguaggio, tutto quello che lui faceva e diceva era l’esatto contrario di quanto Giovanni Aru apprezzava, dunque… Un altro muro, sarebbe stato costruito (anch’esso successivamente alla morte di Severa Aru) pure fra le ideali porzioni delle altre due prazzas. Altra storia…
Quella casa di conca ’e fraizus
Il vano d’ingresso, che funzionava anche da sala da pranzo (e, nell’area del camino, da cucina), era rialzato sul cortile, e vi si accedeva grazie a due bellissimi scalini di granito. Aveva il pavimento in cemento, a differenza degli altri locali del pian terreno tutti piastrellati, e recava nella successione delle pareti, in senso orario, un efficientissimo serracu (per il taglio dei tronchi d’albero) ed una sobria schironera, una ordinata fila di sedie basse alternate a scanni più capienti e dall’alto schienale, le brocche dell’acqua sempre fresca – is marigas –, un armadio angolare di legno tinto di verde scuro, una fornita “rastrelliera” – così veniva definita la sorta di piattaia che accoglieva soprattutto pentole – e, infine, sa giminera che sul ripiano esterno presentava in bella serie i barattoli del sale, dello zucchero e del caffè in chicchi (da macinare al momento del consumo).
Di lato alla rastrelliera, una porta introduceva alla cucina, chiamata anche “camera della scala” perché dal suo centro una scala in legno saliva al piano superiore, su sobariu. Entrando nella stanza, verso destra (in corrispondenza cioè a quella specie di parastagiu e a sa giminera) era, nascosto da una tenda, un grande armadio a muro funzionante da dispensa e da deposito di piatti e stoviglie, padelle e tegami in ferrosmalto, rame o terracotta; giusto di fronte era assembrato un numero considerevole di botti; nella parete di collegamento, dirimpetto alla scala, s’ergevano, umili, i fornelli (che sarebbero stati rinvigoriti successivamente); in mezzo un tavolo veniva utilizzato per impastare e panificare (sa mesa de fai pai); quasi nascosto sotto la scala, un canapè di color marrone completava l’arredamento. Lì riposava il vecchio Pietro Aru quando decideva di far sosta a casa del figlio.
Il terzo vano del piano di terra era rappresentato dalla camera nuziale. Vi si accedeva in punta di piedi, come al sancta sanctorum, dallo stretto corridoio originante dall’ingresso e sviluppantesi per una decina di metri in senso longitudinale verso il cortile retrostante. Esso ospitava un armadio da lavoro che costituiva la “sartoria” di Severa Aru: diviso a metà questo accoglieva, nella parte superiore, tutto l’occorrente per il cucito e il ricamo, dai ferri agli uncinetti, e naturalmente filo, lana, tessuti, ecc., e in quella inferiore la Singer che pressoché ogni giorno ella metteva in azione per soddisfare le esigenze familiari e le richieste della clientela paesana. Da quest’ultima ricavava un reddito che, arrotondando le altre entrate, consentiva alla famiglia perfino il “lusso” di qualche collaboratrice ad ore.
Sartoria Aru
Severa Aru era una sarta e ricamatrice provetta, esperta del punto croce per la confezione della biancheria cifrata, di gran moda in quegli anni, ma bravissima anche alla calza o a maneggiare gli uncinetti per ottenerne splendidi pizzi e centrini. E non disdegnava certo di insegnare l’arte alle bambine, che anzi lei stessa stimolava ad applicarsi nel gioco che un domani poteva diventare un lavoro. Per loro aveva accantonato prezioso filo di lino – intere matasse – che però, dopo la sua morte, nessuno era più riuscito a rintracciare.
Come sarta da uomo aveva tagliato e cucito un’infinità di abiti, di giacche, corpetti e calzoni, ma può dirsi che non c’era capo col quale non si fosse misurata. La sua specialità era però il ricamo: in esso poteva meglio esprimere il gusto, e non solo l’arte, che la distingueva: ed ecco perciò le decine e decine di lenzuola al cui ornamento s’era applicata con religiosa dedizione, o gli scialli ed i grembiuli che, impreziositi dalle sue mani, erano l’oggetto dell’ammirazione di tutti.
I proventi della sartoria erano effettivamente discreti. A darne la misura s’era provata, una volta, Santina Onnis. Aveva raccontato che, volendo far pace col proprio sposo dopo qualche giorno di muso, la sua amica Severa gli aveva proposto di uscire insieme. Erano i giorni di Ferragosto e in paese si festeggiava San Lussorio. Lui aveva rifiutato, dissimulando impedimenti non meglio specificati. Gli era invece che rientrava dall’aver appena versato a ziu Cicciu Pintus – il macellaio e sensale di mandorle e di cento altri prodotti che tempo addietro gli aveva prestato parte del denaro necessario all’acquisto di un gran bel terreno dell’agro arburese – quasi l’intera sua paga della settimana o del mese. L’imbarazzo era lì, nella tasca vuota: una situazione che sarebbe durata ancora a lungo e che già gli aveva consigliato di cambiare strada quando stava per imbattersi in amici e compari che non sarebbe stato in grado di cumbidare.
Ma Severa Aru aveva nella propria tasca la migliore soluzione ad imbarazzi e perplessità: vi aveva infilato la mano e subito portato fuori monete e biglietti. Secondo legge di… compensazione, aveva appena incassato per i lavori che le erano stati ordinati e che aveva consegnato appunto quel giorno. C’era il tanto, e anche di più, di quel che suo marito aveva restituito a ziu Cicciu.
(continua)