La lunga marcia dei volontari, di ROBERTO SAVIANO
I cittadini che scavano con le pale o a mani nude sono la parte migliore dell’Italia. Da La Repubblica 25 agosto 2016
CHE non sembri scontato, mai. Non sembri che così debbano andare naturalmente le cose. L’aiuto che sta partendo dalla Sicilia al Piemonte, da italiani e immigrati, verso le zone terremotate dell’Italia centrale è la dimostrazione di un immenso slancio umano.
Quell’immenso slancio umano che ancora contraddistingue il nostro Paese. Non accade così ovunque, non accade con così forte istinto. È il nostro patrimonio più prezioso.
Nello straziante scenario fatto di macerie e paura, volontari, poliziotti, vigili del fuoco, ragazzi del servizio civile, semplici cittadini che con pale o a mani nude, senza sosta, con gli occhi e la bocca impastati di polvere, scavano e lottano per la vita sono l’incarnazione della parte migliore dell’Italia. Hanno lasciato il loro posto sicuro per andare a scavare dove ancora ci sono scosse, dove non c’è alcuna sicurezza, dove le loro vite sono in pericolo, perché hanno iniziato a scavare mentre le scosse ancora avvenivano, e tra edifici pericolanti. E non si sentono invincibili, no. E non hanno in spregio le proprie vite, ma così bisogna fare per difendere vite, rischiare, e così stanno facendo. Queste persone rappresentano ciò che siamo e offrono un battito vigoroso al cuore del nostro Paese perduto, spezzato, incapace di dialogare, colmo d’insulti e di sotterfugi, di imbrogli e di imbroglioni. Un Paese che quando è ferito a morte, però, silenzia quasi per miracolo le voci inutili e illumina senza far rumore quelle azioni fondamentali di chi lontano da ogni pubblicità o ricompensa, da ogni tornaconto o calcolo sa mostrare un animo generoso e pieno di empatia. Essere presente, farsi carico dell’emergenza, tendere una mano.
Quando la terra si muove così, tutto cade: crollano i piccoli palazzi e crollano i centri medievali. E di fronte alla tragedia e alla paura, la prima reazione, irrazionale, è puntare subito il dito verso responsabili reali o presunti. Si fanno paragoni, si fanno congetture. Un sisma di magnitudo 6 nel resto d’Europa non avrebbe portato una tale distruzione, dicono, ma forse borghi così antichi anche in Francia o in Grecia o in Spagna sarebbero crollati, anche lì si sarebbero accartocciati come costruzioni di cartapesta. Oppure, allo stesso tempo, guardando i campanili superstiti si potrebbe pensare che siano ancora in piedi perché costruiti con maestria, simboli che attestano quanto fragile sia il cemento armato, quanto fragili siano le autorizzazioni edilizie date in questi paesi, quanto fragili siano le case moderne, quante modifiche siano state apportate ai borghi crollati rispetto alla loro struttura originaria. E prima ancora di aver contato i morti, prima ancora di essere riusciti a estrarre dalle macerie chi ancora respira, si fanno i conti con i danni e si abbandona ogni cautela nell’analisi, lamentando — di pancia — il ritardo nell’arrivo dei soccorsi, la mancanza di preparazione.
Ebbene, è probabile che in fondo sia così: l’Italia è costellata di zone a forte rischio sismico, e forse non ha a disposizione sufficienti risorse per far fronte a qualsiasi terremoto. Eppure è una terra in grado di affrontarli con lo slancio della solidarietà, come è successo in Irpinia, a L’Aquila, in Emilia. La nonna di Arquata che salva i due nipotini portandoli con sé sotto il letto, i racconti di chi si è salvato sotto muri portanti, ci dicono che generazioni e generazioni di italiani hanno saputo colmare la mancanza di mezzi, a volte anche di risorse e di addestramento, con la conoscenza mutuata da altre tragedie e con il gesto volontario. Io vengo dal Sud, una delle tante zone sismiche d’Italia, e so bene che il terremoto uccide due volte: quando devasta il paese portando via vite e storia, e quando devasta l’economia portando finanziamenti, sì, ma troppo spesso tanta corruzione.
Sono tante, quindi, le ragioni per allarmarsi di fronte a un centro Italia completamente trascurato, e di fronte alla consapevolezza che ormai il Belpaese sia esposto non solo ai rischi sismici, ma alla totale mancanza di controllo sulle costruzioni, su quelle esistenti e su quelle di nuova generazione.
Il primo ministro Matteo Renzi si è recato sui luoghi della tragedia, ma è importante che alla presenza istituzionale e di circostanza faccia seguito un’attenzione a quelle terre, che meritano investimenti mirati, e che restano la vera ossatura del nostro Paese. La visita di Silvio Berlusconi a L’Aquila fu una messa in scena corredata da un gran dispendio di risorse: la sua presenza tra i superstiti e le macerie era necessaria per mostrare la vicinanza dello Stato — che nella sostanza si limitò ad osservare la tragedia — ma il risultato non fu altro più che mera propaganda. A oggi, L’Aquila e l’Abruzzo continuano a essere in ginocchio: e le rassicurazioni, le carezze ai pensionati e ai bambini che avevano perso tutto oggi suonano come pugnalate inferte con la lama intinta nel miele.
Quando nel 1980 il presidente Sandro Pertini visitò l’Irpinia a seguito del terremoto che l’aveva devastata e che avrebbe lasciato in eredità un macabro cancro di corruzione, disse: «Qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana. Tutte le italiane e gli italiani devono sentirsi mobilitati per andare in aiuto a questi fratelli colpiti dalla sciagura, perché credetemi: il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi». Ecco, la solidarietà che scorre nelle vene di chi sta in fila per donare il sangue, che spinge i volontari a partire per terre che non hanno mai visto o che hanno visto ma in entrambi i casi riconoscono proprie, perché è proprio l’umanità in sofferenza che vogliono aiutare. Questa è l’energia che non fa mancare le forze a chi — l’ha detto anche Renzi — scava da prima dell’alba a mani nude. Ogni persona estratta viva dalle macerie, ogni sfollato ospitato, ogni casa ricostruita è una vittoria italiana. Pronuncio questa parola con pudore e imbarazzo perché rischia un riverbero nazionalista. Eppure lo slancio umano e generoso che ci fu durante il terremoto d’Irpinia, e poi in Abruzzo, prima ancora Sarno e poi ancor prima il Belice, sono tracce che ci ridanno piena cittadinanza italiana. Si è cittadini italiani per attestazione burocratica ma invece ci si sente cittadini italiani quando si partecipa nei gesti e in un percorso di giustizia. L’empatia e lo sforzo solidale in questo momento sono le caratteristiche di questo popolo che aiuta un gruppo fitto di volontari che affronta la sofferenza.
E la tragedia, questa tragedia, fa pensare più forte, con più desiderio e necessità alla felicità. Una felicità che non può sempre essere quella di un momento, quella delle piccole e piccolissime cose (una cena in famiglia, il rosicchiare la crosta di formaggio o una festa sulla spiaggia) ma che deve diventare la felicità di uno sguardo diverso sulle cose, di una spinta diversa ad agire, del puntare a grandi valori, a grandi realizzazioni. Sapere che, ancor prima che si organizzassero gli aiuti, nei Comuni colpiti dal sisma c’erano già volontari pronti ad aiutare, mi fa pensare che, nonostante tutto, esiste ancora una possibilità di giustizia, che viene dalla generosità di queste persone pronte a sopperire agli errori, alle ruberie, alle mancanze, agli abusi e le dimenticanze di decenni di amministrazioni locali e nazionali incapaci e furbe. Ce la faremo, anche stavolta ce la faremo: ce lo stanno insegnando questi uomini e queste donne.