Ciao Giorgio, giornalista di sfondamento e bella scrittura, di Gianfranco Murtas
Con la testa confusa ripenso alla notizia triste che ieri mi ha girato Rita Grauso, ed oggi è ampiamente commentata dalla stampa scritta regionale, di Giorgio Pisano che se ne è andato.
Ha scritto tanto (e vorrei che un certo numero di pezzi singoli fossero riuniti, come a comporre un mobile pieno, in volume, soprattutto le sue interviste a tutta pagina, la domenica in prevalenza, per lunghi anni, a personaggi e personalità del nostro tempo coinvolti per il più, non sempre, con la nostra terra). Ha scritto tanto, articoli e libri. Ha scritto più volte anche dei suoi colleghi perduti. Fra le tante ricorderei le righe di lui, allora ancora giovane, dedicate a Ruggero Melis, figura originale, unica anzi, per modi e relazioni, al giornale, settore cronaca nera (e poi anche bianca). Ora scrivono e scriveranno di lui, di Giorgio.
Si dice che in queste circostanze si possono, o forse di debbono, portare, come i fiori al catafalco, le testimonianze. Testimonianze di umanità, della nostra condivisa umanità, dai colori e sapori diversi però, e la sua non fu una umanità senza punte, tanto più nel pieno svolgimento del mestiere: quelle punte ravvivavano ancor più il giornale che vantava allora – anni ’70 e ’80 soprattutto – molte belle penne, alcune sopraffine. Una umanità, quella di Giorgio, che, dico dal mio osservatorio, mi è sembrata sempre assimilabile ad un vento non adattabile: sapeva dove voleva arrivare, ora sfiorava ora colpiva gli ostacoli e procedeva. Spesso, vorrei dire sempre, egli aveva una sua opinione più o meno strutturata e di quella cercava soltanto conferme – conferme ad una intuizione anche, talvolta, azzarderei, a un teorema. Se conferme non arrivavano e la realtà trovata e provata lo induceva a sospensioni e rimandi, trovava nel suo vocabolario e nella sua grammatica il modo comunque di mettere il suo e mettere l’altro come a confronto, con riserva di ritornarci per altre verifiche e precisazione del giudizio, se giudizio doveva esserci. E diventava così interessante capire i perché e i come di quella opinione, di quella intuizione (o di quel teorema), e scoprire i segreti della sua arte, quel suo saper maneggiare i materiali per darne infine al lettore un piatto non soltanto saporito (formale) ma anche nutriente (istruttivo).
Una furia incalzante, una furia educata, s’intende, ma una furia dialettica vera, tutta punti interrogativi e schermata per difendere l’ indipendenza della postazione: le domande non mollavano la presa, come l’amo il pesce in acqua. Sempre o quasi sempre il suo interlocutore, invece propenso soltanto a parche confidenze, cedeva come capita allo studente davanti al professore esigente e smaliziato. E l’incontro pareva lo vincesse sempre lui.
Dacché lo conobbi mi portavano a lui, a Giorgio Nunzio, alcune comuni ascendenze arburesi – l’Arbus di com’era fino a cinquant’anni fa, teatro di miniere e di agricoltura –, nonché presenze ed entrambi prossime (familiari per lui, amicali per me), ed infine conquiste corroboranti che nel nome (e nel magistero signore) di Aquilino Cannas e di S’Ischiglia, di Anonimo Cagliaritano, di Arreula! e delle Bianche colline di Karel tutte si riassumono. Un mondo bello e impegnativo.
Era entrato, Giorgio, a L’Unione Sarda nella stagione delle assunzioni dei giovani “di sinistra”, nell’anno di vigilia della uscita di scena del grande direttore Fabio Maria Crivelli. Si doveva battere la concorrenza modernista di Tuttoquotidiano, allora in gran spolvero, e il giornale di Terrapieno coordinato dai grandi vecchi (o relativi vecchi) – dopo la perdita di Franco Porru – come Gianni Filippini, Vittorino Fiori, Alberto Aime, Gian Tarquinio Sini, anche Giorgio Melis di ritorno dalla esperienza di un anno dall’ufficio stampa del Consiglio regionale e dal periodico Sardegna Autonomia, aveva dovuto procedere a un restyling generale. Non soltanto nella grafica – che ci fu e fu felice – ma anche e soprattutto nell’indirizzo politico, Rovelli (o il suo alter ego Salvadori del Prato) permettendo e forse consigliando.
La mossa più azzeccata, in quella campagna acquisizioni che durò svariati mesi e direi – per arrivare alla bravissima Maria Paola Masala – anni, fu forse quella di Alberto Rodriguez, cui venne affidata la cura della terza pagina, divenuta sede di dibattito a largo spettro e sovente di trattazioni monografiche, tanto più sui nessi fra la storia e l’attualità. Dal mondo universitario, tanto più dall’area umanistica (storico-politica, filosofico-pedagogica, letteraria) vennero allora molte nuove e continuative collaborazioni. Fui nel giro. E il giornale divenne una goduria leggerlo perché informando formava, nel senso che forniva al lettore elementi di conoscenza approfondita, direi perfino di studio, come forse mai era avvenuto nella modernità sarda, dal dopoguerra in qua.
Ma fu quella la stagione anche dei cronisti chi nella cittadina o nelle province, chi nello sport (e/o spettacolo) e poi anche nella regionale, con qualche mobilità cauta e ragionata e più spesso indovinata. Giancarlo Ghirra arrivava al giornale, in quel tempo, provenendo dalla facoltà di Filosofia, Carlo Figari da Lettere. Giorgio Pisano dalle collaborazioni a varie testate locali, e da Scienze Politiche dove alcuni anni dopo avrebbe concluso, brillantemente, con una tesi dal titolo “Caratteristiche e peculiarità organizzative dell’Impresa-Giornale: il caso de L’Unione Sarda”.
Nel marzo 1978 fu Armando Corona, allora assessore regionale agli Affari regionali, a propiziare l’avvio operativo di una certa nostra rapsodica collaborazione. Era successo che l’Espresso avesse pubblicato l’elenco degli oltre cinquecento Maestri Venerabili delle logge obbedienti al Grande Oriente d’Italia, incluse le undici sarde (ora sono 44). E il giornale, a Cagliari, raccolse immediatatamente il tanto di ghiotto – tale apparve – che poteva riguardare l’Isola. L’Informatore del lunedì (a direzione Fiori) incaricò dunque Pisano di cominciare a riferirne in prima pagina, con qualche indulgenza… al romanzo, perdonabile sempre se il prezzo è godimento della bella scrittura. “Massoneria in Sardegna. Chi c’è, che fanno”.
Ho facilmente recuperato il foglio ormai ingiallito, utile per un report cui sto lavorando in questo periodo. «Uomini illustri, intellettuali di sinistra, rappresentanti della borghesia illuminata: sembrano essere questi gli ingredienti della massoneria in Sardegna… Mancano, e non solo nell’isola, i democristiani. L’unico di cui si sappia con certezza l’adesione al Grande Oriente d’Italia è il presidente della Montedison Giuseppe Medici: 12 anni fa a Bologna andò in Consiglio comunale dimenticando di togliersi il grembiulino massonico…». La fonte di Giorgio era nient’altro che la vulgata un po’ salottiera e di luoghi comuni che della storia liberomuratoria isolana – al tempo ignota ai più, perché di una generazione che non aveva conosciuto né fatti né uomini ma soltanto contos su fatti ed uomini – correva fra le stesse logge del Cagliaritano come del Sassarese, del Sulcis o di altre plaghe.
Ma non poteva bastare. Giorgio Pisano aveva riferito a Corona che il giornale intendeva insistere, dato l’interesse – mostrato o supposto? – del pubblico, e per questo riteneva necessario recuperare memorie, magari anche spettacolarizzando, ma – assicurava – rispettando passato e presente, da Asproni a Mario Berlinguer…
E dunque l’allora Venerabile della loggia Hiram, nonché presidente del Collegio sardo dei Venerabili, ben conoscendo la mia assidua frequentazione dell’anzianissima vedova di colui che fu il carismatico Maestro addirittura dal 1916 (loggia Karales, poi Sigismondo Arquer, poi Risorgimento, poi Giovanni Mori, poi Nuova Cavour) – Alberto Silicani cioè – mi chiese di soddisfare quanto chiedeva il cronista. E così accompagnai Giorgio nella modesta casa di via Ariosto, dove abitava la signora Angela Graniero vedova – dal 1974 – Silicani, la quale, assistita d’ordinario dalle sorelle della Chiesa evangelico-battista cui apparteneva, gradì molto questa visita supplementare finalizzata a lumeggiare la figura di uno sposo tanto amato e ammirato: che fu sindacalista social-riformista e radicale, e giornalista lui stesso de L’Unione Sarda (aveva scritto anche in prima pagina della scissione comunista al congresso socialista del 1921!) prima d’essere licenziato dall’editore fascista “della prima ora”, Ferruccio Sorcinelli. E che dunque passò l’intero ventennio nella precarietà professionale e, tanto più nei residui anni ’20, neppure escluso dalle periodiche, ma inutili, ispezioni di polizia di caccia al libero muratore. Per qualche anno, almeno fino al 1929, resistette infatti una rete clandestina, antifascista, dei massoni sardi messi fuorilegge dal regime.
Ne ricavò un bell’articolo, Pisano, anche se segnato da un equivoco grave. Il quale peraltro, data la natura dello scritto ed il taglio affabulatore, fu ampiamente perdonato. Il riferimento cioè all’amicizia di Silicani con Mitterand, che non era però il Mitterand (Francois) leader socialista divenuto poi il presidente della Repubblica francese, ma il Gran Maestro d’oltralpe (Jacques), non meno del primo radicale e socialista.
Tutte le volte – e sono state numerose negli scorsi trent’anni e più – in cui si trattò, da parte del giornale, di affrontare la questione, Giorgio era lì a chiedere, a me o al mio archivio documentale, qualche dritta. Il che poteva essere un onore, un riconoscimento fiduciario. Anche se non sempre, andrebbe detto pure questo, i responsabili delle pagine hanno meritato il contributo informativo (arrivando essi, non Giorgio, a rovesciare qualche volta perfino la verità, e censurando le precisazioni, come avvenne per la franca lealtà di un grandissimo artista/artiere come fu Franco d’Aspro).
Più di recente è stata la vicenda dell’assassinio – tale io lo ritengo – del parroco della cattedrale di Santa Maria, a Cagliari, avvenuto nel dicembre 1988, a farci reincontrare. Avevo fatto, credo ad abundantiam, la mia parte – inutile campana fra l’irresolutezza della magistratura sarda e il dolce dormire, sul punto, dell’arcivescovo attuale e dei precedenti –, ma giustamente lui voleva fare la sua. Scrivere anche lui un libro d’inchiesta, rilanciare il caso che permane ancora come un’ombra che incupisce il sentire e la coscienza di molti di noi ancora oggi. Voleva asciugare il mio Specchio del vescovo, estrapolare dalla narrazione i dieci o dodici indizi, o indizi-prove, e arrivare a qualche conclusione
Non so quanto egli abbia raccolto, nel frattempo, di nuove testimonianze o di nuove prove fattuali, e come stesse elaborando i materiali. Oggi ne discuterà, cronista nel non tempo, con lo stesso don Tonio Pittau.
Lui estraneo alle problematiche spirituali in senso stretto, o religiose, amava i preti alla don Milani, alla padre Balducci, alla don Tonino Bello, alla padre Carlo Maria Martini. Io con lui. Amava in Sardegna padre Morittu, e amava don Cannavera con il quale aveva iniziato una certa collaborazione, negli spazi della Collina di S’Otta serdianese, la comunità che ormai da vent’anni, da quella convergente intuizione e volontà di don Ettore, del giudice Gian Luigi Ferrero, della signora Carla Cabras e dell’indimenticato eroico Antonio Zinzula, dice molto alla Sardegna sociale e anche a quella politica. Non soltanto dibattiti, quando il caso, soprattutto, ancora una volta, la scrittura. L’ultimo articolo, quello dedicato al teologo Vito Mancuso (“Mancuso e il nuovo creatore. Il destino di Dio”). Ma quanti altri – ora commenti, ora interviste – , così da poter costruire o alimentare, derivandoli dal periodico della comunità, una sezione intera dell’emeroteca… “A tu per tu con Francesco Cocco”, “Io, Dio e la rivoluzione”, “I comandamenti di Arrigo”, “Seghiamo le sbarre”, “Quel pathos che ad ogni istante genera il mondo”…
Per anni è stato, Giorgio, la prima firma dell’Almanacco di Cagliari, l’annuario prezioso e cercato, edito da Vittorio Scano ormai da mezzo secolo. Con un suo articolo si apriva il volume e i riflettori erano necessariamente puntati su Cagliari, i suoi problemi, i suoi amministratori. Ora l’Almanacco del 2017 è in composizione. Spero si faccia in tempo ad inserire un ricordo di Giorgio Pisano, magari riferendolo direttamente ai suoi contributi firmati alla rivista.
L’ultimo suo articolo, se non ricordo male, fu quello del 2005, e fu uno specialissimo omaggio ai cardiochirurghi Alessandro Richi e Antonio Carta ed al tecnico perfusionista Gianmarco Pinna, caduti e perduti, insieme con l’equipaggio – altre vittime: Helmut Zuler, Thomas Giacomuzzi e Daniele Giacobbe – quel giorno malvagio segnato nel calendario al 24 febbraio 2004, mentre compivano una missione estrema di vita.