Attorno a su scannu’e tabas, ad Arbus. Un racconto lungo di Gianfranco Murtas (Seconda parte)
Quella di Severa Aru non era stata una fanciullezza spensierata. Così l’adolescenza. La scomparsa del padre, nel 1893 – quando lei era appena dodicenne – ne aveva in qualche modo segnato il carattere.
Anche lei orfana da piccola
Non era passato molto tempo da quel lutto improvviso che la madre aveva deciso di sposare il pastore che seguiva gli interessi rurali – agricoli ed armentari – della famiglia e che portava al pascolo le cento capre lasciate da Giovanni Maria Aru Schirru.
Era ammontata a 2.465 lire l’intera eredità di quest’ultimo, un’eredità non ricca senz’altro, ma neppure disprezzabile: 700 lire era stata valutata la casa dell’ospedaletto, 100 un lotto di terreno in località Is Orfaniglias, verso Gonnosfanadiga, che era, ancorché di quasi impossibile accesso, un grande fornitore di legna da ardere, 150 la vigna coltivata, 400 le quattro vacche (cento lire a capo), 1.000 le cento capre, 100 il cavallo e 15 l’asino.
Angela Atzeni era risalita all’altare, tutto sommato, ancora giovane. Anche Luigi Altea, il capraio suo nuovo marito, era vedovo ed aveva due figli suoi. Nel settembre 1899, dalla loro unione sarebbe nato Battista, preconizzato a una modesta ma onorata carriera nella Benemerita (nel 1936 sarà a Burcei ed è lì che, nel novembre di quell’anno, morrà, in casa sua, la madre ormai anziana e nuovamente vedova).
Nel gennaio 1904 era venuta meno Angelica. Spettava ora soltanto a Severa di dare continuità agli Aru e a questo, appunto, s’era votata fino a giungere al sacrificio della sua vita.
Da qualche tempo, con ogni castigatezza imposta dal costume e da un’educazione sopra ogni altra cosa dominata dal timor di Dio, amoreggiava con quel suo coetaneo, figlio di Pietro Aru Floris e di Maria Figus Bellu. Lui era il maggiore di sei tra fratelli e sorelle, e in quanto primo dei maschi – gli altri si chiamavano Salvatore (Loi), Vincenzo (Bissenti) e Antonio, che contavano rispettivamente undici, quattordici e diciassette anni meno di lui! – aveva evitato l’arruolamento alla leva, giusto al debutto del secolo, ed avrebbe bissato l’esonero allorquando, negli anni della grande guerra, si sarebbero formati i contingenti in partenza per il fronte.
Severa e Giovanni, l’incontro
Il loro fidanzamento, superati i vent’anni, aveva suscitato qualche stupore perché i rispettivi temperamenti parevano davvero l’uno l’opposto dell’altro: tanto era allegro ed espansivo il carattere di lui, quanto era riservato e serio se non proprio introverso quello di lei.
Severa amava la vita tranquilla, chiusa dentro le mura domestiche dove creava e dava moto alle cose che l’interessavano, mentre Giovanni s’era significativamente conquistato sul campo il nomignolo di friargiu perché, come febbraio è solito giocare con disinvoltura con il sole e le nuvole nere, così lui riaggiustava facilmente l’umore dopo uno sbotto, non raro, di collera…
Egli amava il nuovo, la fotografia per esempio, e moltissimo i libri. Nel 1905, quattro mesi prima di impalmare la sua promessa, aveva ottenuto la licenza elementare, collezionando una messe di bei voti di profitto. Aveva frequentato il corso serale per adulti approntato alla scuola pubblica di Arbus ed all’esame di proscioglimento dall’obbligo dell’istruzione elementare inferiore, al termine del biennio, aveva fatto benissimo davvero. Negli scritti di lingua (componimento e scritto sotto dettatura) aveva preso dieci, in lettura (con riassunto delle cose lette) nove, in aritmetica nove (otto nello scritto e dieci nell’orale), in calligrafia nove.
“Illetterata” era invece Severa. Per le sue esigenze bastava la cultura orale, quella della memoria e del buon senso di natura e di formazione. Sapeva comunque fare perfettamente di conto e poteva quindi fronteggiare con abilità ogni eventuale bisogno risolvendolo nelle pieghe del bilancio casalingo.
Molto diversi i due erano anche come “tipi” sul piano fisionomico: Giovanni era medio di statura, piuttosto tozzo nella struttura corporea, riccio e rosso di capelli che aveva foltissimi (con una leggera stempiatura), un po’ ad onde, mentre un bel paio di baffi orientati, ma con misura, alla moda umbertina del “manubrio” gli donavano un’aria di cordiale bonomia. Per qualche tempo avrebbe poi portato anche un simpatico pizzetto che giocava su diverse sfumature di colore.
Aveva, al contrario, un volto pensoso e un portamento distinto e signorile Severa: tale di nome e di fatto. La figura era snella e slanciata se non proprio alta (superiore comunque al metro e 60), la capigliatura liscia e castana tendente al chiaro, la persona curata, vestita secondo la moda.
L’incontro con Giovanni Aru era stato un incontro d’amore, franco e già maturo, fin dall’inizio, con uno scopo dichiarato: la famiglia. A dividerli nell’età, soltanto due mesi, come attestano i registroni dell’anagrafe municipale e dei battesimi in parrocchia, che segnano al 29 luglio la nascita di lui e al 18 settembre quella di lei.
Si conoscevano da sempre. In casa, negli anni avvenire, si sarebbe raccontato che, un bel giorno del… 1890 o giù di lì, Angela Atzeni avesse incontrato il piccolo Giovanni, complimentandolo per il suo bello sguardo azzurro e già prefigurandone le nozze con sua figlia Severa.
Prima di arrivare a lei, però – e anche questo rientrava nel flashback di stagioni ormai lontane -, Giovanni Aru s’era innamorato di un’altra ragazza. Con Carmelina Raccis – così si chiamava quella prima promessa – aveva stretto un fidanzamento ben visto soprattutto dal parentado di questa, ch’egli frequentava con una qualche assiduità… Poi era venuta la rottura, causata dal fastidio di Giovanni Aru, suscettibile e formalista, per non esser stato informato dell’incarico assunto dalla sua bella di panificare per un certo matrimonio…
Come molti in paese, Giovanni Aru si guadagnava la vita lavorando in miniera ad Ingurtosu. C’era entrato, ancora ragazzo, anzi ragazzino, in contrasto e quasi in opposizione al padre che l’aveva costretto a lasciare la scuola appena iniziata per lavorare in campagna, sotto padrone, appunto da ragazzino. Stufo di mangiare tutti i santi giorni fave lesse, egli s’era ribellato all’imperativo paterno facendosi assumere dalla Pertusola di lord Brassey. Di fatto, s’era trasferito a Ingurtosu dove aveva preso alloggio, con i suoi compagni, in un grande stanzone-dormitorio nel quale pure si provvedeva a cucinare ed alla consumazione dei pasti.
L’orario di lavoro era assolutamente sacrificante, il ritorno a casa limitato a 24 ore soltanto, fra il sabato e la domenica. Nella tarda sera del giorno di festa, allora, o al più nelle primissime ore dell’indomani, riprendeva, con i suoi compagni, la “passeggiata” di una ventina di chilometri alla volta della miniera, mentre biancheria e provviste – pane, pasta, legumi, formaggio, vino, ecc. – venivano trasportate da su cavalanti che, il lunedì mattina, conduceva il suo carro trainato dal cavallo colmo di bisacce e pacchi.
Tutto sommato, pur con i suoi rigori, il lavoro a Naracauli di Ingurtosu gli pareva più gratificante di quello da compiere in solitudine magari dietro le bestie. Questa vita di collettivo era più rispondente al suo carattere, al suo estro sì disciplinato ma voglioso di rapporti col prossimo.
Credeva, poi, che talvolta fosse meglio un padrone lontano, che con te non ha vincoli personali cui devi doppiamente obbedire e ti tratta per quel che il tuo lavoro esige e merita, che non un padrone-parente come a lui era capitato (si trattava di un cugino, figlio della sorella di suo padre Pietro)… perché la legittima aspettativa di un trattamento più rispettoso ed amichevole immancabilmente andava a cozzare con la realtà… E in età matura avrebbe lui stesso, Giovanni Aru, raccontato la durezza di quella vita all’aperto e della moglie di suo cugino che, di tanto in tanto, piombava anche lei in campagna per panificare: impastava, su una larga pietra a terra, molta crusca e poca farina, quindi cuoceva su un fuoco improvvisato, condendo con un olio che altro non era che spremuta di lentischio. Era zona di lentischio quella. E per il resto erano fave, sempre fave….
Lui aveva cominciato come aiutante di quart’ordine degli operai incaricati di rivestire per protezione, con un’erba fluviale che somigliava al fieno, un’infinità di panciute damigiane: a ciascuno di loro doveva ritmicamente fornire il ciuffo di lua per il prezioso bisogno.
Non per il fatto di lavorare a Ingurtosu aveva però abbandonato la terra: soltanto che aveva deciso di offrirle, di suo, non più che il tempo e le forze rimanenti, magari a fine settimana o negli intervalli brevi delle ferie. La campagna avrebbe integrato, non sostituito, il reddito dell’industria, fornendo i prodotti per il consumo domestico o per la vendita minuta ai vicini.
Le due famiglie avevano acconsentito alle nozze, esprimendo un’accoglienza che era sincera e confortava chi veniva a portare progetti di vita e capacità di lavoro, cioè condizioni di benessere, per l’oggi e il domani. Chissà, da principio un qualche imbarazzo potrà averlo provato il padre dello sposo, Pietro Aru Floris, che trent’anni prima aveva inutilmente chiesto la mano della sua futura consuocera (e forse aveva di nuovo storto il naso quando questa, rimasta vedova, s’era riaccasata). Certo è che se quel matrimonio tanto desiderato ci fosse stato, mettiamo alla fine degli anni ’70 – a ridosso di Porta Pia e dell’eclisse di quasi tutti i grandi del secolo, da Giuseppe Mazzini a Vittorio Emanuele Savoia a Pio IX -, quest’altra scena ora sarebbe mancata.
Arbus 1905
Come viveva Arbus nell’anno in cui Severa e Giovanni Battista Aru convolavano a felicità?
Le corrispondenze dei giovani repubblicani locali alla Scure cagliaritana – il giornale d’impronta mazziniana aperto ad ogni protesta dell’opposizione antiministeriale ed antimunicipale – riferiscono di un paese «in uno stadio di completo esaurimento organico senza meta e senza fine, impari alla propria missione, apatico, inerte». La «piccola mente» degli amministratori era all’origine dello «stato semibarbaro» in cui la collettività arburese si trovava costretta: perciò no casamento scolastico, no acquedotto, no macello, no livellazione delle strade dell’abitato, no illuminazione notturna. Il Comune tentennava davanti all’ipotesi di un mutuo di centomila lire (a tasso d’ammortamento infimo) per finanziare le nuove e necessarie ed urgenti infrastrutture civili: cinquantamila lire servivano per la scuola, ventimila per l’acquedotto, diecimila per il macello, altre ventimila per il riattamento complessivo dell’ordito viario. Ma priorità delle priorità doveva essere il casamento scolastico. Nell’anno frequentavano le elementari, sparsi qua e là, in luoghi per lo più malsani, 410 fra bambini e bambine, mentre una quarantina erano rimasti fuori, per mancanza di posto e di insegnante!
E sul fronte dello spirito pubblico? In perfetta sintonia con il tempo di forti dilacerazioni ideologiche, l’anticlericalismo dell’“estrema” ed il clericalismo dei parrocchiani si dividevano il paese in due blocchi che faticavano a dialogare, e forse non volevano dialogare. Ma talvolta era perfino la violenza ad incombere. Menti insane e mani misteriose e vili non si peritavano di accendere la miccia di un detonatore proprio sulla porta di casa di qualche avversario. I cinque carabinieri di stanza in paese avrebbero sì indagato, ma senza scoprire mai nulla.
Nel luglio di quel 1905 si erano svolte le elezioni amministrative ad Arbus, e la famiglia Frongia aveva vestito gli abiti del “partito Frongia”, piazzando Attilio – il ventenne leader, con suo fratello Luigi, del gruppo della Vanga e dell’Edera – al terzo posto per preferenze individuali e contrastando fieramente la scheda, alla fine vincitrice, del dottor Tuveri, accusato d’esser un «regressivo». I giornali quotidiani – dall’Unione Sarda al Paese – per qualche tempo ancora avrebbero ospitato le voci contrapposte nella polemica. Ad alimentare la quale erano in molti a concorrere, specie da quando il giovane Attilio aveva osato puntare il dito contro gli «immigrati» che erano divenuti, a suo parere, i padroni del paese. Perché allora a rispondergli erano stati in diciassette, rappresentativi di ogni settore e di ogni quartiere: tre preti, quattro negozianti, qualche medico…
L’attività mineraria in continuo sviluppo andava comunque progressivamente migliorando la condizione generale degli arburesi, così come ne accresceva quantitativamente la popolazione per nascite o nuovi residenti. Essa, che nel 1881 – l’anno in cui Severa e Giovanni Aru erano anche loro venuti al mondo – era di appena 4.888 unità, nel 1901 era salita a 6.473, e dieci anni dopo il nuovo censimento avrebbe portato il conto a 8.679. Il boom demografico avrebbe indotto le autorità locali e la stessa più avvertita opinione paesana a sollecitare (quasi mai soddisfatta) il trasferimento, da Guspini, oltre Genn’e Frongia, di tutta una serie di uffici o servizi pubblici, dall’esattoria alla pretura, dal vice ispettorato alla sezione dei carabinieri…
Thopos e contos
La coppia era andata a vivere nella casa dal tipico disegno campidanese che Giovanni Aru aveva acquistato oltre sa Panca (com’era chiamata la zona che prendeva il nome dai sedili che attorniavano dal 1901 il monumento con i bassorilievi di Raimondo Garau e Pietro Leo, gli arburesi più illustri di tutti), in una traversa della via Roma, anch’essa come la maggioranza delle strade del centro paesano in selciato di pietra e rigata da canali di scolo all’aperto.
Era il cuore del paese, il punto nel quale la leggenda – ma era una leggenda non priva però di un suo fondamento storico – collocava la nascita di Arbus: dopo l’assedio del villaggio di Serru ad opera dei mori venuti dal mare, all’inizio del XIV secolo, e dopo una lunga successione di sfavorevoli eventi climatici che avevano originato vaste paludi malariche da dove occorreva allontanarsi, gli albenses – gli arburesi – avevano colonizzato proprio quest’area montana che sembrava l’ideale per vivere prosperi.
Spostando date e quadri storici is contos riferivano delle insistenti incursioni dei turchi musulmani e delle centinaia di prigionieri che questi avevano fatto catturando i malcapitati per le loro fluenti chiome. Ma si raccontava anche della reazione dei locali che s’erano infine muniti di durissimi bastoni di leccio grazie ai quali erano usciti vincitori nello scontro corpo a corpo…
(continua)