Non solo di scarti è fatta la vita ma di eros e amore, di Massimo Recalcati
Quello che scartiamo, che gettiamo nella spazzatura, i rifiuti che ogni civiltà umana accumula non sono solo oggetti che hanno esaurito la loro utilità o che si sono decomposti, ma indicano anche ciò che noi stessi siamo. È questo il lato più inquietante – il tabù – della spazzatura. Essa ci riguarda da vicino perché la nostra natura finita ci accomuna al suo destino. È il risvolto umanissimo dell’ampia problematica della gestione dei rifiuti nella storia della civiltà umana. Non siamo forse tutti noi – nonostante quanto affermi, sia detto da parte mia senza la benché minima ironia, Emanuele Severino – destinati a finire, a decomporci? Il nostro viaggio non è dall’essere al nulla, dall’esistenza alla polvere?
Eppure il rifiuto non può mai essere smaltito del tutto; qualcosa resta, indistruttibile, ponendo, drammaticamente, il problema del suo smaltimento. Non accade anche in politica dove il “riciclato” è lo spettro del rifiuto che ritorna incessantemente come un incubo resistendo ad ogni tentativo di rottamazione? È un fatto: non esistono civiltà senza fogne. Ma se così è, se questo è il destino mortale che ci attende e ci costituisce come esseri umani, tutto è davvero da buttare? Tutto, la vita stessa, assomiglierebbe ad una immondizia da gettare via? Non è questo l’insegnamento di una vita come quella di Giobbe che conosce in una progressione malefica la trasformazione di tutti i suoi beni – compreso quello del proprio corpo – in rifiuti, in scarti indecenti?
«I rifiuti sono quello che rimane quando non rimane nient’altro», scrive Alberto Zaccuri,
scrittore e saggista di raffinata intelligenza in un ricchissimo recente libro dedicato al tabù dei rifiuti: Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura (La Scuola). L’eccedenza da smaltire dei rifiuti si coniuga con il problema della mancanza. Il rifiuto è simbolo di entrambe: è qualcosa che ci assedia e che esige un collocamento, ma è anche qualcosa che segnala l’inappagamento del nostro desiderio. Ogni oggetto non è mai in grado di estinguere la mancanza. Il discorso del capitalista enfatizza non a caso la rapidità della metamorfosi delle cose in spazzatura. Gli economisti la chiamano obsolescenza: in tempi sempre più accelerati le cose scadono mostrando dietro alla gloria effimera della loro esistenza la loro radice mortale. La cultura del consumo è una grande cultura dello scarto. Le nostre case sono piene zeppe di cose morte. Lo stesso DSM-V (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) ha recentemente aggiunto tra le nuove sindromi quella di coloro che non riescono a liberarsi degli oggetti acquistati accumulandoli cimiterialmente e caoticamente nella propria casa (“disturbo di accumulo” o “disposofobia”).
Alla fine della sua vita Tommaso d’Aquino – ricorda Lacan – dichiara tutti i suoi scritti null’altro che “sicut palea”, scarto, letame. Il lustro narcisistico dell’immagine del grande filosofo al culmine della sua fama, lascia il posto al suo destino mortale, al suo essere “niente”. Egli non cerca rifugio nel culto nevrotico della bellezza come reazione difensiva di fronte alla marea montante dei rifiuti, non crede nella bella forma che dovrebbe salvarci dal rischio della contaminazione con l’informe. Non resta, sembra dire il filosofo, che l’humus umano, spazzatura, immondizia, palea. Eppure, come insegna con forza la parola di Cristo, è solo sulla “pietra di scarto” che si può edificare una possibile liberazione dell’uomo dall’assillo della sua fine. Cristo si fa egli stesso “scarto” – muore come un delinquente comune sulla croce – per liberare la vita dall’idea nichilistica che essa non sia altro che una orrenda casualità. Cristo è uno scarto che ci libera dal destino di diventare degli scarti. Ma il nostro tempo è il tempo della “morte di Dio”: tutto è andato in frammenti, tutto è a pezzi, tutto manca di senso, “tutto è vano e inutile”, come predica l’indovino- Schopenhauer in Così parlo Zarathustra di Nietzsche. Questo significa che tutto è diventato scarto, che tutto è un insieme informe di macerie, scorie, detriti? Il mondo stesso non sarebbe altro che una grande fogna?
La risposta si trova nel finale poetico della riflessione di Zaccuri. Si tratta di un aneddoto autobiografico. Anche un amore può nascere lungo la strada che conduce alla pattumiera. Gli accadde un’estate di diversi anni fa. Nel tragitto per buttare la spazzatura di una casa vacanze in montagna due giovani si incontrano, si conoscono e si innamorano. In amore, come ci ricorda Leonard Cohen in Suzanne, “tutto accade da qualche parte, non si sa dove, tra i fiori e la spazzatura e i fiori”. Ma cosa resiste alla spazzatura, alla tentazione di buttare via tutto? Per Freud il gioco della vita consiste nel ritardare la fatalità inaggirabile della morte. Questo gioco è possibile solo grazie ad Eros: complicare, allungare, rendere più tortuoso, il cammino che ci farà diventare palea, polvere. È solo il gioco di Eros che può fare della vita qualcos’altro da una orrenda montagna di rifiuti. Qualcosa resiste. Non tutto è da buttare. Qualcosa può accadere tra la spazzatura e i fiori. È quello che avvenne diversi anni fa a due giovani e che continua ad avvenire. “L’amore”, scrive Zaccuri, è ciò che davvero “resiste”.
La Repubblica, 19 giugno 2016