Don Ottorino Pietro Alberti, don Efisio Spettu, gli anniversari che interrogano biografie vive, di Gianfranco Murtas
Siamo al quarto anniversario della morte dell’arcivescovo indimenticato Ottorino Pietro Alberti, a tre anni da quella del presbitero – a quanti intimo e carissimo! – Efisio Spettu del clero di Cagliari. Mi pare giusto recuperare l’evento di calendario per richiamare la memoria di entrambe queste personalità eccellenti che furono colleghe, fra il molto altro, nel rettorato del seminario regionale della Chiesa sarda. Il primo per un biennio circa – 1971-1973 –, giusto dal trasferimento da Cuglieri a Cagliari e nel trambusto delle prime sistemazioni anche logistiche a cui si era del tutto impreparati, il secondo nei quasi tre lustri “maturi”, dal 1992 al 2006, quando anche si arrivò al (quasi) completamento della costruzione della nuova sede di vita comunitaria e di studio del clero secolare in formazione, luogo d’incontro per eccellenza delle dieci diocesi isolane.
Ancora manca, seppure non rari siano stati i contributi di testimonianza, uno studio accurato e approfondito sulle vicende del seminario regionale, mentre ne è alle viste uno sulla lunga fase cuglieritana, sviluppo possibile e doveroso degli “appunti per una storia” che don Tonino Cabizzosu, professore alla nostra facoltà teologica, ha pubblicato negli anni scorsi, e nel novero di studi per il più tematicamente originali e tutti importanti (inclusi quelli biografici), tali da lasciare il segno. Questo sotto il titolo di “Il seminario regionale di Cuglieri (1927-1971): sviluppo, crisi e rinnovamento”, dapprima in Theologica & Historica, XVI (2007), quindi in Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ‘800 e ‘900, III, Cagliari, 2009. Un testo cui ha fatto degno accompagnamento un altro corposo, lucidissimo contributo saggistico confluito in Iuventuti docendae ac educandae, curato dallo stesso Cabizzosu con Luciano Armando, nel 2007, per i tipi della cagliaritana aisara, dal titolo “Alcuni aspetti dell’insegnamento teologico a Cuglieri dal 1927 alla vigilia del Vaticano II”.
Qualche nota storica di Tonino Cabizzosu
Fu , quella cuglieritana, tanto per il triennio liceale quanto per il corso teologico (o almeno per l’inizio di questo), una esperienza che associò lo stesso Cabizzosu – studioso e testimone ad un tempo perciò – a don Spettu, il quale nel centro del Montiferru poté compiere e concludere, nel 1963, gli studi (salvo successive applicazioni nelle università romane e sarde). Mentre il suo più giovane collega avrebbe conosciuto (e forse sofferto) – dal secondo anno alla licenza, per i successivi completamenti superiori alla Gregoriana – proprio l’esordio del seminario (e della facoltà del Sacro Cuore) nella capitale isolana.
Ecco qui, mi riferisco adesso specificatamente al seminario maggiore regionale, con sede a Cagliari, come punto d’incontro fra Alberti, Spettu e Cabizzosu. Perché come detto, in quel 1971 anno del trasloco, il primo fu il rettore incaricato dalla Conferenza Episcopale Sarda, il secondo entrò nell’équipe degli animatori, il terzo – giovane studente – fu osservatore di tutto modellandosi cantiere di prossime iniziative sociali e di studio. Si ricordi il volantinaggio alle porte delle chiese, in quella certa prossimità pasquale del 1972, a sostegno dei senza tetto cagliaritani e di sprone insieme alla gerarchia ecclesiastica e all’amministrazione civica per una presa di coscienza, finalmente, dei bisogni impellenti dei poveri insoddisfatti delle parole e delle promesse.
Ripensando alle ricorrenze di lutto segnate nel calendario di quest’inizio d’estate, e unendo nello stesso pensiero la memoria del dotto arcivescovo nuorese cui si lega, per la gran storia ecclesiale isolana, la fatica del Concilio Plenario Sardo e quella del prete quartucciaio che fu per cinquant’anni lo specialissimo apostolo dei malati fra UNITALSI ed Ospedale Oncologico, oltre che saggio rettore del seminario regionale a cavallo di millennio, e smosso da recenti invitanti letture (anzi riletture) di pagine storico-cronachistiche di Tonino Cabizzosu, come sono quelle del suo Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo, ho creduto alla fine bene richiamare atmosfere ed eventi che tutti associarono, in quei primi anni ’70 del secolo scorso nelle stanze sparse della comunità seminaristica della Sardegna in attesa anch’essa di un tetto condiviso.
Dominus sulla montagna il cardinale Baggio, presidente dei vescovi isolani, generale senza vocazione al comando (e di fatto a mezzo servizio) don Ottorino Alberti, professore ancora (di filosofia della natura) alla Lateranense, capitano sperimentatore in campo aperto, con altri colleghi, il giovane don Spettu, ritratto dagli studi di pastorale sanitaria, a Roma, e piantato nel mezzo delle impellenze cagliaritane.
Parto proprio da qui, dalle pagine, gustose e illuminanti, di Cabizzosu: «In occasione dell’accademia di saluto, Salvatore Orunesu di Bitti e il sottoscritto declamammo una lunga poesia in versi, scritta dal professore di ginnastica Giuseppe Piras, in cui sintetizzava, a modo suo, la storia del seminario ed esprimeva la sofferenza dei cuglieritani per la perdita di un Istituto che dava lustro a Cuglieri. Tra i numerosi presenti non mancarono le lacrime. Se teoricamente il trasferimento si rendeva necessario per svariati motivi, il modo con cui esso avvenne lascia perplessi in quanto si chiudeva d’autorità una sede ampia e comoda e si mandava allo sbaraglio una comunità di oltre centoventi alunni, senza sapere ove andare. L’imperativo era la chiusura a tutti i costi, ma non si avevano idee chiare sull’immediato futuro. Si fecero molte ipotesi per la sistemazione logistica: il pensionato di Cristo Re, attiguo alla facoltà di teologia, la Casa Provinciale delle Figlie della Carità in via dei Falconi, la palazzina di via Fara di proprietà della parrocchia di Sant’Anna. L’arcivescovo, benché cardinale, ebbe dei sonori rifiuti. Intanto l’estate avanzava e bisognava risolvere il problema con una certa urgenza. Non avendo altre possibilità i centoventi giovani [il numero proposto ritengo includa i liceisti tanti quanto i teologi, ndr]furono indirizzati in alcuni locali del seminario diocesano di Cagliari. La nuova sistemazione era problematica a causa dell’angustia dei locali messi a disposizione (furono costruiti nei grandi cameroni i box in legno: ognuno disponeva di qualche metro quadro, veniva a mancare, quindi, ogni senso di intimità e tranquillità, indispensabili a quell’età). Crebbe il malumore e la contestazione. L’équipe educativa era costituita dal nuovo rettore, monsignor Ottorino Alberti, proveniente dall’Università Lateranense, e dagli animatori Salvatore Saba di Sassari, Benvenuto Mameli e Giovanni Sanciu di Ozieri, Efisio Spettu di Cagliari, Pasqualino Ricciu di Bosa; nonostante la buona volontà, essa non riusciva a gestire una situazione che diventava sempre più caotica. Fu per me un anno di gioia per la scoperta di mille aspetti nuovi della realtà cittadina (con alcuni amici di Ozieri e di Sassari giravamo molto a piedi per conoscere i monumenti e le bellezze della città), e anche di sofferenza perché, rispetto all’anno precedente, si era ripiombati nel caos logistico e in una matassa comunitaria non facilmente dipanabile. Si riaffacciò la contestazione selvaggia anche da parte dei teologi, che pensavano di essere stati presi in giro dai vescovi. Pur attratti dal fascino storico ed artistico della città capoluogo, si rimpiangevano, è triste dirlo, le cipolle d’Egitto! Alcuni dei principali problemi di quel primo anno cagliaritano erano: carenza di progetto educativo comunitario (i superiori dovevano pensare a risolvere i problemi concreti che quotidianamente si presentavano), pessima situazione logistica, vitto non sempre sufficiente, contatti con gruppi ecclesiali dissidenti, spirito critico in aumento. Se da una parte subivamo l’invadente irruenza dei giovani di “Comunione e Liberazione”, che nella parrocchia della “Medaglia Miracolosa” avevano la loro roccaforte… dall’altro non erano meno preoccupanti i contatti con i gruppi ecclesiali dissidenti come i “Cristiani per il socialismo”, che raccoglievano le simpatie di qualche animatore. E’ da situare in questo contesto la presa di posizione di un folto gruppo di studenti, di qualche professore ed educatore del regionale, in favore degli scioperanti del Borgo Sant’Elia, attendati di fronte al Municipio di Cagliari per difendere i loro diritti…».
Proseguì e anzi si accentuò, per qualche tempo, la dispersione: «gli studenti della diocesi di Sassari e Ozieri furono alloggiati dai Salesiani in una bella villetta nel quartiere Santa Lucia di Selargius, quelli di Bosa-Alghero presso i Saveriani in via Sulcis, quelli di Nuoro nel convento dei Minori Osservanti di via San Giovanni, quelli di Oristano presso i Padri Cappuccini di viale Fra Ignazio, altri ancora presso istituti di suore. Ci incontravamo tutti i giorni nella facoltà di teologia di via Sanjust 11 e nel seminario diocesano di Cagliari… Apparentemente sembrava una diaspora; ritengo, invece, fosse un’esperienza pilota in Italia. La nuova situazione aveva un lato positivo: puntare sulla formazione dei singoli all’interno di piccoli gruppi facilmente governabili, individuando mete formative essenziali. Tutto dipendeva naturalmente dalle capacità carismatiche dell’animatore…».
Cagliari 1971, la città e la Chiesa
Il Regionale approda dunque a Cagliari nel 1971 per la delibera irrevocabile della Compagnia di Gesù di lasciare la direzione e concentrarsi invece esclusivamente sulla facoltà.
Mi sono provato, una volta, a ricostruire con rapide pennellate sociologiche il quadro temporale e ambientale…
Il 1971 è l’anno successivo alla visita, attesa e goduta, di papa Paolo VI a Cagliari. E anche l’anno che segue quello del trionfale scudetto dei rossoblù nel campionato di calcio. La città ferveva di opere pubbliche, di sistemazioni edilizie, di nuove prefigurazioni urbanistiche, di un fare che pur si sarebbe rivelato non sempre positivo (come fu per le scelte riguardanti il quartiere di Sant’Elia) ma che comunque segnalava sviluppo e un dinamismo partecipativo con una molteplicità di espressioni. Questo era singolarmente vivace nella rete dei club giovanili sorti all’esordio di un ciclo ancora virtuoso ma che non sarebbe stato granché durevole per i sopravvenuti avvelenamenti, già nella prima metà del decennio, di quel “fiore morto” – gli acidi, l’eroina, la cocaina – che tanto sconquasso sociale, e lutti nella dimensione perfino della strage, avrebbe provocato, nella dimensione anche dell’aids, fra anni ’80 e anni ’90. I “clubini” con tanta musica elettronica, innovativa o contestativa secondo modelli britannici o d’oltre Atlantico, ma anche tanto teatro e sperimentazione senza gigantismo artistico e piuttosto con il gusto della provocazione – con autori di scuola tedesca e autori nostri sardi –, e le proiezioni con i loro cineforum d’analisi e la voglia crescente di relazione e dibattito.
E intanto si espandeva, tanto più ancora fra i giovani, una certa sensibilità associativa nei campi più diversi, ora sociali ora intellettuali o, come detto, artistici, dal gruppo Amicizia alle sezioni di Italia Nostra, a quelle del Movimento Federalista Europeo. Quando anche s’affermò, e per qualche tempo resistette, la suggestione esperantista, il fascino di una lingua universale, di un nuovo latino in chiave cosmopolita, senza riconoscimenti primaziali alla lingua… del capitalismo internazionale, l’inglese. Anche L’Unione Sarda, entrata da qualche anno nella proprietà (per molti versi avventuriera) dell’industria petrolchimica a sovvenzione pubblica, tentò – scossa dai fermenti del ritardato ’68 isolano e cagliaritano, l’esperienza di una speciale “pagina dei giovani” e la cosa dimostrava come anche gli ambienti conservatori fossero lambiti o addirittura attraversati dal brivido sperimentale, cauto ma fiducioso… purché non si affrontasse la questione dell’obiezione di coscienza al servizio militare, che pur era all’ordine del giorno qui e là.
Tre anni dopo la contestazione giovanile, nel nome del problemismo dialettico o dibattimentale (opposti estremismi, strategia della tensione ecc.) nelle università scemavano le secolari tradizioni goliardiche, mentre prendevano slancio le facoltà universitarie con corpi docenti anch’essi in ricambio di generazione, che accentuavano la dimensione della ricerca e della rete con gli altri atenei d’Italia, mentre alle superiori prendeva forme più mature la partecipazione a iniziative di studio e progetto quali erano quelle di contenuto europeistico…
E nella Chiesa? La presenza autorevole di un arcivescovo relativamente giovane, colto e con larghe esperienze internazionali, all’apparenza… poco clericale e con indosso nientemeno che la dignità cardinalizia, offriva alla Chiesa sarda e all’archidiocesi di Cagliari in particolare un surplus di energie relazionali, di progettualità (magari anche non tutta e non sempre condivisibile, ma certo innovativa e rispettabile), e un’attitudine a curarsi poco de minimis, anche nell’amministrazione ecclesiastica, conferendo deleghe e promuovendo talenti considerati adeguati alla bisogna nelle sue varie declinazioni: tutto questo contribuiva a materializzare una atmosfera che portava il segno del progresso, o almeno di una certo aggiornamento, di una maturazione in corso.
Un’evidente vivacità, in rapporto anche con i nuovi dinamismi emergenti nella società civile, si registrava nelle nuove parrocchie che l’arcivescovo uscito di scena nel 1969 – monsignor Paolo Botto – aveva creato a ridosso dell’evento conciliare: nel 1964 ai Santi Giorgio e Caterina, nel quartiere moderno e borghese di Monte Urpinu, fra la piazza Repubblica presidiata dal Tribunale e dal liceo Dettori e l’area retrostante il colle in direzione dello stadio; nel 1965 al SS. Nome di Maria, nel quartiere della Palma, in espansione residenziale (ne deriverà presto il rione di S’Arrulloni, o del Sole) tanto più dopo la cessazione dell’industria del sale; nel 1966 a Nostra Signora di Fatima, nel borgo di Giorgino tutto attraversato da una volontà di ripresa identitaria dopo la crisi degli anni precedenti coinvolgente l’assetto urbano del porto, le attività pescherecce soprattutto nello stagno di Santa Gilla, la relazione con la città a seguito dell’abbandono della grande e storica spiaggia di ponente e le trasformazioni imposte dagli insediamenti petrolchimici sulla costa e nell’entroterra; nel 1967 ai Santi Pietro e Paolo, negli spazi larghi delle ex casermette militari, giusto di fianco al complesso ospedaliero SS. Trinità di Is Mirrionis; e così a Santa Maria del Suffragio (pur ancora in attesa di una chiesa definita), nel cuore della cittadella popolare del CEP sorta proprio alle spalle dell’area di piazza Dante (poi Giovanni XXIII) e periferia di nuova urbanizzazione lungo l’asse viario per le frazioni di Pirri e Monserrato; ma anche al Carmine – eretta in parrocchia nel 1968 – finalmente recuperante una sua autonomia per l’impetuoso sviluppo edilizio, commerciale ed amministrativo, acquisito dalla zona chiamata storicamente di “San Pietro” (l’asse del viale Trieste/viale Trento orientato verso Sant’Avendrace e l’uscita nord-occidentale della città).
Affidate in parte al clero secolare, in parte a quello regolare – ai salesiani (fin dal primo insediamento nel 1955) San Paolo, punto d’innesto del quartiere di San Benedetto in quello tutto impiegatizio della Fonsarda, o della Birreria e dell’Ospedale Psichiatrico, ad altissimo indice di abitabilità; agli immacolatini il SS. Nome di Maria (come alla Vergine della Salute, presso l’Ausonia nel litorale del Poetto, e come anche avverrà per San Bartolomeo); ai carmelitani Nostra Signora del Carmine – le nuove parrocchie completavano il riassetto territoriale intelligentemente voluto dall’arcivescovo Botto, anticipato lungo gli anni ’50 e poi nei primi anni ’60 dalle parrocchie del Borgo Sant’Elia (con la grande chiesa in faccia al mare inaugurata poi nel 1968), di San Pio X (nel declivio della via della Pineta, in prossimità a Monte Mixi ed al complesso sportivo dell’Amsicora), di San Francesco d’Assisi (in via Piemonte, affidata ai francescani conventuali), della Medaglia Miracolosa (nel quartiere popolare di Is Mirrionis, affidata ai vincenziani), di San Carlo Borromeo (nel margine della Fonsarda che affaccia sul viale Ciusa), di Sant’Eusebio (sulle pendici del colle di San Michele e giusto alle spalle del nuovo grande seminario arcivescovile), la cui chiesa finita sarà poi consacrata dal cardinale Baggio, giusto come capiterà nella frazione di Pirri per San Giuseppe, e nell’arco di altri due-tre anni ancora per la Madonna della Strada a Mulinu Becciu, per San Massimiliano Kolbe fra il mezzo rione di Santu Perdixeddu e l’altura di San Michele, per San Gregorio Magno a ridosso della circonvallazione di Pirri, per San Sebastiano nel sandwich viale Marconi/il Mandorleto, per il SS. Crocifisso a Genneruxi.
La rete associativa costituita da gruppi e movimenti, taluno dei quali costituitosi proprio negli anni del Vaticano II con i riferimenti ecumenici a Taizé, alle attività missionarie dei gesuiti cagliaritani (radicatisi, dopo che a San Michele – sede storica della Congregazione Mariana – anche a Cristo Re, chiesa anch’essa rimontante agli anni conciliari ed affidata alla Compagnia per il servizio liturgico ed alle Figlie Eucaristiche per le cure spirituali, là nell’incontro fra Monte Urpinu, San Benedetto e San Giuliano/Genneruxi di recentissimo impianto urbanistico) – favoriva e si nutriva di queste nuove presenze, degli slanci ideali e del fervore d’iniziativa dell’ora.
In taluni casi montava una fervida sinergia, suscitata dalla comune sensibilità sociale, con i comitati di quartiere sorti qui e là, ora nello spontaneismo dei residenti, ora sotto sollecitazione di personalità o associazioni di varia vocazione che coglievano l’urgenza di una diffusa soggettività territoriale, di una partecipazione democratica più impegnata e responsabile. Cosicché, nello scenario complessivo pur inquietante di quegli anni – con l’avvio della strategia bombarola, con la violenza praticata dagli estremismi (soprattutto giovanili) incapaci d’ogni civile confronto – prendevano consistenza nelle città metropolitane ed anche in quelle di minor dimensione fenomeni partecipativi senz’altro positivi, pur se tante volte alla generosità della ispirazione non corrispondeva una pari inclinazione progettuale. Così nella politica come, appunto, nell’ambito ecclesiale.
Potevano anche contrastare ogni stanca forma ripropositiva, nelle parrocchie o nell’associazionismo, quelli che avevano letto L’obbedienza non è più una virtù e Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, potevano essi opporsi marcando una opzione politica ed elettorale a sinistra, che godeva della progressiva rottura aclista del collateralismo democristiano, e però confermavano la propria internità alla Chiesa e non si negavano al dialogo (anche se forse sfiduciato) con l’autorità, anzi lo sollecitavano. Anche a Cagliari, appartenenti al mondo universitario – sia sul fronte docente che su quello studentesco – affinavano, tanto più quando gli ambiti disciplinari erano umanistici (fra la facoltà di Lettere e Filosofia ed i corsi di Magistero), le problematiche pedagogiche che s’essi avvertivano centrali nella “riforma” necessaria della società tutta intera. Altri, giovani e giovanissimi, allargavano le loro esperienze spirituali e sociali formandosi nella Lega missionaria studenti che aveva adottato l’Africa…
La conclusione, nel 1970, della battaglia parlamentare sul divorzio s’era risolta in una sconfitta che la Chiesa forse non aveva sentito troppo sua per le sante divisioni tempestivamente prodottesi nel suo corpo, anche in Sardegna, fra gli oltranzisti ed i cosiddetti “cattolici del no” – uomini e donne rispettabili della intellettualità e dell’impegno sociale (si pensi ancora alle ACLI). Ora, a pochi mesi dalla promulgazione della legge, ecco un primo riverbero in un tribunale dell’Isola. Si sarebbe affermato un costume di liberazione, anche se – come portato di una modernità senza permanenza di riferimenti etico-sociali alti, ben più che come strascico di un presunto permissivismo ex lege – sarebbero svaniti, con il tempo, consolidati valori familiari ed educativi, con conseguenze negative sulla stabilità e fecondità affettiva delle relazioni. E peraltro – a dimostrazione di come ogni realtà abbia sempre il suo contrario – ecco finalmente l’immissione anche in Sardegna di una donna nei ruoli della magistratura…
E d’altra parte la Sardegna del 1971 era ancora una terra di rapimenti riusciti (adesso anche di bambini) e di rapimenti tentati e falliti (con conseguenze talvolta ferali), di incontri istituzionali fra la Regione e la Commissione parlamentare d’inchiesta, di perquisizioni massive di militari in chiave antibanditesca, di sgomberi forzati delle aule universitarie occupate e di ripetute proteste nelle aree minerarie a rischio incombente di chiusura, di controverse riforme nella disciplina dei fitti agrari e di avvio di tratte aeree infra-regionali fra Cagliari ed Olbia, di normazione del diritto allo studio e di pionieristica sollecitazione accademica circa la soggettività etnico-linguistica del popolo sardo (nell’anno centenario della nascita della Deledda!), di insuperata instabilità politica (per accertata decrepitezza dei partiti) e di faticosa attuazione del Piano di Rinascita, ed anche di incontri congressuali fra le rappresentanze dei circoli di emigrati… Si contarono, nel 1971, gli emigrati dell’ultimo decennio: 147mila. Il censimento aveva appena quantificato la ripartizione degli addetti nei comparti economici isolani sempre sospesi fra illusioni di sviluppo e rimaneggiamenti o stagnazioni contingenti : 32 su cento nell’industria, 26 nell’agricoltura, 41 nel terziario (burocratico e commerciale, in larga misura parassitario e non produttivo).
Erano 219mila, alla conta statistica, i residenti nel maggior capoluogo cui lo statuto metropolitano ancora aggregava le molte frazioni destinate a un recupero in progress di autonomia amministrativa. L’anno cinquantenario della morte di Ottone Bacaredda, il sindaco-mito di Cagliari lungo un trentennio e più, aveva come ispirato un inedito e crescente fiato civico, un gusto alla storia cittadina: uno studio delle vicende trascorse non certo però finalizzato alla cara ed immobile contemplazione di quel che c’era stato, ma semmai utilizzato per capire meglio l’oggi, in quell’allora individuando molte delle ragioni delle contraddizioni e sofferenze attuali. La storia al servizio dello spirito civico dunque, della cittadinanza attiva. E in questo, numerosi professori delle superiori e delle facoltà universitarie – non soltanto quelle umanistiche o giuridico-economiche – così come i leader-fondatori della nuova galassia associazionistica funzionavano da guide riconosciute non per inclassificato carisma ma per verificata competenza e oneste capacità suggestive.
Nella Cagliari che la ribalta nazionale della visita papale e dello scudetto alla sua squadra (e magari anche delle performance del Brill e di Udella campione del mondo) aveva caricato di un senso di sé che prima non aveva avuto – perché tutto sembrava limitato, in quanto alla sua proiezione oltre mare, alla manifestazione della Fiera campionaria, alla festa di Sant’Efisio, ai tre mesi di vacanza costiera, a quei flussi finanziari e industriali rivelatisi sempre più inquietanti nella petrolchimica coloniale – venne anche questa nuova: il Regionale, che i padri gesuiti avevano deciso di dismettere dalle prevalenti incombenze della Compagnia, lasciava dopo 44 anni il Montiferru per trasferirsi nel capoluogo.
La competente congregazione vaticana aveva da tempo dismessa anch’essa, dal carico del proprio bilancio, il sovvenzionamento della struttura, posta ormai in capo alla Conferenza Episcopale Sarda.
La testimonianza di don Spettu, al tempo giovane animatore
Di quelle circostanze parlai molte volte con don Efisio Spettu, che era della partita. Capitò anche, ma con il registratore per una trascrizione corretta ed una pubblicazione a seguire, a metà aprile 2011, nel cuore della “vicenda Cugusi” e della scriteriata decisione dell’arcivescovo Mani di mettere sé al centro del mondo e, autocrate, comandare, comandare comandare… Ecco qualche brano di quella lunghissima intervista piuttosto orientata a recuperare la memoria del quindicennio 1992-2006, ma comunque importante anche relativamente ai fatti del 1971-1972.
«Dovrei dire degli umori soprattutto dei ragazzi, perché dei superiori sapevo già, i gesuiti avevano deciso il rimpatrio e a nulla erano valse le pressioni del cardinale Baggio per un rinvio, dato che a Cagliari mancavano ancora le strutture…».
«Ormai fra i teologi – una sessantina circa – , così come fra i professori, era diffuso il desiderio di venire in città, lasciare l’isolamento di Cuglieri… D’altra parte Cagliari era sede universitaria, aveva le sue dimensioni e le sue ricchezze in termini di stimoli od opportunità culturali e anche sociali, e quindi pastorali, all’interno della vita delle parrocchie, nei quartieri… Va detto che da un anno avevano lasciato Cuglieri i liceali, che erano tornati nei seminari diocesani, concentrandosi in quelli di Cagliari e Sassari».
Cagliari, città-regione come sempre più, nel tempo, essa è diventata, senza antinomie o concorrenze valoriali o identitarie, era dunque la sede ideale per risolvere esigenze e urgenze della stessa Chiesa isolana riguardo alla formazione del suo clero proprio in termini comunionali, ancor più sottolineati dalle impostazioni del Vaticano II, trent’anni dopo ribaditi dal Concilio Plenario Sardo. Un Concilio quest’ultimo – va detto – condotto da due arcivescovi, Alberti e Tiddia, entrambi conoscitori – per esserne stati, in momenti diversi, rettori essi stessi – del potenziale culturale, spirituale e pastorale di una struttura volta, prima di ogni altra. al progetto di una Chiesa sarda capace finalmente di superare le resistenze e indolenze dei campanili diocesani, e proiettarsi nella stagione della nuova evangelizzazione.
Ricorda don Spettu, a tal proposito, la lettera del 1972 in difesa della comunità di Sant’Elia, che allora qualcuno aveva ipotizzato di trasferire in blocco a Giorgino, per lasciare quella zona a un’edilizia residenziale di lusso…
«L’idea nacque a Taizé – un paradiso di spiritualità e condivisione – dove, verso Pasqua, andammo autofinanziandoci con la vendita… di carta, noi del seminario, alcuni preti, diversi studenti e docenti del Dettori. Io fui coinvolto, per lealtà feci leggere il testo, firmato anche da diversi padri gesuiti, al cardinale che non fece obiezioni. Peraltro eravamo in pieno spirito conciliare e seguivamo quasi alla lettera quel che Paolo VI aveva detto proprio a Sant’Elia due anni prima… Ne tirammo ventimila copie che iniziammo a distribuire nelle parrocchie. Poi vennero i problemi, si era in campagna elettorale e il collateralismo resisteva… Qualcuno d’area democristiana protestò con monsignor Tedde, allora incaricato della CES per il seminario. In breve: il cardinale mi invitò a chiedere scusa e spiegare a don Chicco Amat, presidente dell’UNITALSI di cui io ero assistente, a monsignor Delogu vescovo di Lanusei e a monsignor Tedde vescovo di Ales… Fu un inizio un po’ turbolento, fra entusiasmi e docce fredde».
Dunque vennero i giovani teologi a Cagliari, con rettore don Ottorino Pietro Alberti, professore-segretario, al tempo, della Lateranense. Che forse non conoscevate, o no?
«In effetti non lo conoscevamo se non di fama, come studioso valentissimo. Ma in realtà monsignor Alberti, avendo mantenuto l’incarico alla Lateranense, poté occuparsi del nostro seminario soltanto il fine settimana, e dopo neppure due anni ci dovette lasciare perché promosso arcivescovo di Spoleto-Norcia. Di fatto a mandare avanti le cose nel quotidiano eravamo noi animatori, soprattutto don Pasqualino Ricciu della diocesi di Alghero ed io, con il rinforzo saltuario magari di qualche altro confratello di Sassari-Ozieri e di Nuoro… Fu un’avventura! anche perché la stessa CES non credeva molto, allora, a questa versione cagliaritana, peraltro assolutamente necessitata…».
E dove vi sistemaste?
«Il cardinale dovette inventare una struttura, all’interno del seminario diocesano di cui era rettore allora don Giovanni Cara. Occupammo l’ultimo piano, ma la nostra presenza… diciamolo chiaramente, non era gradita. I teologi di Cuglieri venivano con la fama di… eversori (o quasi) della pace clericale, erano gli anni immediatamente successivi alla contestazione. E’ una storia che bisognerebbe raccontare nel dettaglio, quasi da pionieri: si inventò una struttura di box, insomma realizzammo delle piccole stanze che superavano l’ormai inaccettabile modello delle camerate… Don Mosé Marcia, allora studente al 3° anno, fu un eccellente operaio carpentiere…».
Difficoltà nella struttura di San Michele. Ma Cagliari-città vi accolse bene?
«Sì, intanto erano gli studenti a voler vivere la città: si respirava ancora l’ebbrezza dello scudetto del Cagliari, c’erano le sale cinematografiche inesistenti certo a Cuglieri, c’era la provocazione sociale dei quartieri, delle periferie. C’era anche il ricordo cagliaritano di papa Paolo VI».
Dopo la rinuncia di don Ottorino Alberti, la guida del seminario toccò a don Mario Cuomo della diocesi di Iglesias e dopo ancora a don Salvatore Sussarellu. Cosa caratterizzò e distinse il loro rettorato?
«Don Cuomo stette con noi un anno soltanto, perché questo sant’uomo era in difficoltà nel gestire un’ impresa chiaramente fuori dalle sue corde, dalle sue esperienze… Perché davvero non era facile portare avanti il seminario in questa fase – siamo nella metà degli anni ’70 –, bisognava avere una elasticità enorme, non formalizzarsi se qualcosa e magari anche più di qualcosa era fuori schema…, rispondente ai bisogni e alla sensibilità di quei ragazzi che evidentemente erano diversi da come eravamo noi venti e trent’anni prima… Però debbo dire che c’era una ricchezza enorme, come potenzialità spirituale, di servizio, di carità, di attenzione all’altro, al contesto. E comunque riconosco anche io che si trattava di… prendere la misura, cioè calibrare quanta elasticità ci si potesse permettere, combinando prudenza e creatività o sperimentazione».
Creatività o sperimentazione in che senso?
«Ricordo, per fare un esempio, che un gruppo di seminaristi venne a Lourdes con l’UNITALSI a prestarsi come barelliere, e che nell’estate di quello stesso anno alcuni altri andarono a lavorare, proprio per guadagnarsi qualche cosa sudandosela. Esperienze formative autogestite».
Così quei passi della lunga conversazione con don Efisio Spettu.
Vent’anni dopo, ancora al Regionale
Circostanze varie, neppure così rare nella vita della Chiesa, riporteranno don Spettu e don Alberti ad incontrarsi proprio a motivo del seminario maggiore interdiocesano dell’Isola. Sarà giusto vent’anni dopo.
Lasciata la guida rettorale nel 1973, Alberti è stato promosso arcivescovo di Spoleto e vescovo di Norcia, diocesi unite. Alla fine del 1987, dato il trasferimento di don Giovanni Canestri all’archidiocesi cardinalizia di Genova, il papa Giovanni Paolo II ha deciso di riportare il presule-professore nella sua terra. Questi ha fatto il suo ingresso a Cagliari nel gennaio 1988, assumendo subito la presidenza della Conferenza Episcopale Sarda (e raccogliendo la difficile eredità di un Concilio Plenario annunciato ma neppure impostato).
Da parte sua don Efisio Spettu ha continuato ancora fino al 1977 il servizio in seminario, poi – per altri sei-sette anni – s’è impegnato duramente, con altri confratelli di valore, a dare cuore e gambe alla comunità di San Rocco ed ha collaborato con la sua parrocchia originaria di San Giorgio martire in Quartucciu, per intanto ancora insegnando al Dettori e assicurando pienamente l’assistentato, generoso e illuminato, all’UNITALSI. Nel 1984 è stato incaricato della cappellania dell’Ospedale Oncologico regionale, che ne ha dilatato ancor più una pastoralità fatta più di vicinanza ed ascolto che di parole o consiglio, sul piano della fraternità più che della paternità. Nel 1992 una nuova svolta. Ecco come mi raccontò la sua nomina, voluta più di tutti dall’arcivescovo di Cagliari a rettore del Regionale e come io stesso inquadrai l’evento nella dispensa Don Efisio Spettu e la Chiesa come progetto di comunione (titolo della sezione “La mia Chiesa, semplice e complessa, talvolta complicata”). L’antefatto è nel 1989, al termine del rettorato del nuorese don Giovanni Delogu.
«Era estate. Prima che riprendesse l’anno accademico e che rientrasse in sede don Cuomo [nel suo secondo incarico, dopo i mandati Tiddia, Sussarellu e Delogu, ndr], io seppi riservatamente da monsignor Giovanni Cogoni che si stava facendo il mio nome come possibile rettore del Regionale, però c’era una obiezione che alcuni vescovi facevano: “Abita a San Rocco, là sono tutti comunisti, ci vanno i preti sposati…”. Questa era anche l’obiezione che personalmente mi faceva lo stesso monsignor Cogoni, che allora era vescovo di Iglesias ma già prossimo alla pensione. Era stato a lungo rettore del seminario diocesano di Cagliari, prima di diventare vescovo nel 1970. Io stesso, da giovane prete, avevo collaborato con lui, dopo il 1963, come animatore in seminario. La sua critica era benevola ma non scherzosa, era seria: alludeva alla presenza e ai ruoli in comunità di Salvatore Loi ed Andrea Portas, e non soltanto a loro…».
Può comprendersi quella riserva verso la comunità di San Rocco, per la novità ch’essa manifestava allora, con la sua ecclesiologia aperta, tutta conciliare ed ecumenica, che si esprimeva anche nelle liturgie in qualche misura creative, comunque gioiose e partecipate, coinvolta fin dall’inizio in quelle correnti anche teologiche che già si denominavano “della liberazione”, attenta come forse nessun’altra realtà in diocesi alla questione sociale, della giustizia sociale, lontanissima dal collateralismo democristiano ancora arzillo in quella fine degli anni ’70, e varia anche nella sua composizione sia anagrafica che professionale o culturale. Ma fu una riserva superata, alla fine?
«A monsignor Cogoni io risposi:“Guardi, eccellenza, che a me non importa nulla di fare il rettore del seminario. Io sto compiendo un cammino di fede personale e anche comunitario, sto andando avanti tranquillo e fiducioso, è una esperienza che mi sta arricchendo moltissimo”, perché le esperienze di Salvatore Loi ed Andrea Portas e anche degli altri, la scuola popolare che avevamo aperto allora, tutto quel passaggio di operai in comunità, la realtà di Vincenzo Collu che poi s’aggiunse… Effettivamente quella di San Rocco era per me una esperienza fortissima. La presenza di dom Giovanni Franzoni, già abate di San Paolo fuori le mura e padre conciliare (allora giovanissimo), le conferenze di Arturo Paoli, le relazioni ecclesiali internazionali che avviammo… C’era una vivacità tale per cui dicevo a me stesso e, quella volta, anche a monsignor Cogoni: “Non ho nessun motivo di lasciare tutto questo”».
E dunque?
«Dunque io fui leale, parlai chiaramente. Sostenni le mie esperienze umane e di fede. Chi eventualmente avesse voluto propormi per il rettorato al Regionale doveva sapere questo e scegliere sapendo cosa sceglieva…».
Trascorsero dunque altri tre anni, e poi?
«Tre anni dopo, nel 1992, l’argomento tornò d’attualità nella mia vita. Allora stavo frequentando un corso a Roma. Infatti, dividendomi fra la comunità e la parrocchia di Quartucciu, ero frattanto diventato cappellano dell’Oncologico, perché nel 1984 me lo aveva chiesto espressamente monsignor Tiddia, che ormai reggeva la diocesi dopo il ritiro di monsignor Bonfiglioli. All’Oncologico avevo preso il posto di don Gianfranco Zuncheddu; dopo di lui, infatti, non si era trovato un prete disposto a diventare cappellano all’Oncologico, almeno così mi disse monsignor Tiddia…».
Dunque come si svilupparono le cose?
«Ecco, nel 1992, mentre seguivo questi corsi universitari a Roma, d’accordo naturalmente con monsignor Alberti e con gli altri vescovi, capitò la crisi improvvisa al Regionale… Improvvisa? non so se sia la parola giusta. Comunque, la riflessione su vari aspetti della conduzione del seminario portò i vescovi, chi più chi meno tutti, a considerare che don Mario Cuomo aveva fatto il suo tempo. Bisognava cambiare e cambiare tutto e d’urgenza. Nacque così l’idea – o almeno come tale me l’hanno raccontata in Conferenza Episcopale – di puntare su di me, forse per la trascorsa esperienza di animatore, forse per altre ragioni. Pare che il mio nome sia stato fatto per primo da monsignor Pillolla, allora ausiliare e vicario generale a Cagliari: “Io lo vedrei bene…”. Così, senza scaldarsi troppo, con un apprezzamento moderato. Però non voleva fare lui il mio nome esplicitamente…».
Per le solite ragioni del… comunista? Dico la parola scherzando, ovviamente. Lo so anch’io che agli occhi di qualcuno la comunità di San Rocco sembrava qualche volta un peccato invece che un gioiello! Ma erano gli occhi di chi avrebbe dubitato perfino della santità di monsignor Romero!
«Beh, l’ho detto prima, il mio nome appariva, modestamente, sempre un po’ compromesso… Comunque sembrerebbe che, allora, la proposta sia stata formulata da monsignor Pietro Meloni, che era ancora a Tempio e sarebbe passato dopo qualche mese a Nuoro: “E’ uno che ci ha lavorato, conosce l’ambiente… Certo ci sono aspetti problematici, però… pazienza!”. Così – ma non ci giuro sopra – si sarebbe espresso monsignor Meloni. Iniziò così a girare questo nome di Spettu e i vari vescovi decisero di esplorare, ciascuno per proprio conto, la bontà della scelta».
E dunque ci avviciniamo alla formalizzazione dell’incarico. Come fu?
«Il 5 luglio 1992 eravamo tutti – tutti o quasi – a Lourdes. C’era certamente monsignor Alberti, c’erano gli altri vescovi che più spesso ci hanno accompagnato con l’UNITALSI: Tiddia, Cogoni e Pillolla… Monsignor Alberti mi disse velocemente: “Dopo la messa vogliamo parlarti…”. “Vogliamo”, il plurale. Pensai subito si trattasse di qualcosa relativa all’UNITALSI, alla pastorale sanitaria di cui mi stavo occupando…».
Invece?
«Invece… ecco che, in prima battuta, mi chiede: “Come sta andando il pellegrinaggio? e i preti? e i seminaristi?”. C’erano tutti i vescovi presenti, in quel momento, subito dopo la messa, e la cosa confermava il senso di quel verbo coniugato al plurale. Poi mi fa: “Veniamo al dunque. Te la sentiresti di fare il rettore del seminario regionale?”. Fu così, ex abrupto. Io sono rimasto sorpreso. Rispondo: “Ci vorrei pensare qualche giorno…”. E lì fu letteralmente monsignor Cogoni, con il quale, ripeto, avevo antica confidenza – lui di Quartu io di Quartucciu, tanti anni insieme al seminario diocesano – che in sardo mi disse: “Tocca, nara ca ei, cittirì”. Due volte! E così io, non insistei neppure con “A stasera”, ed accettai. Monsignor Alberti chiosò: “Naturalmente questo te lo tieni per te, almeno per adesso: è segreto”».
Una bella scena da copione. E la successiva?
«Avvenne proprio così. Andando in nave, poi, dicemmo messa nel quadrato, con gli ammalati in carrozzella tutt’intorno. L’ambiente si animò, ovviamente, c’erano i seminaristi. Alla fine della messa, secondo tradizione – una tradizione che mi pare introducemmo con il cardinale Baggio (il quale venne con noi a Lourdes anche dopo che lasciò Cagliari) – c’è un momento… per i sentimenti , per ringraziare il presidente del pellegrinaggio che nel caso era l’arcivescovo di Cagliari e presidente anche della CES, e per ringraziare naturalmente, da parte dello stesso arcivescovo, il direttore del pellegrinaggio, il dottor Giua. E nel discorso si infiorì un “Ringraziamo anche don Efisio, che ha guidato il pellegrinaggio, ci ha fatto cantare…, e poi don Efisio avrà altri impegni rientrando a Cagliari” ecc. Disse così, quasi fuori contesto…».
Forse aveva comunque l’urgenza di comunicare questa decisione segretissima, segretissima per qualche quarto d’ora… Come proseguì la scena?
«Monsignor Cogoni, che era lì dietro, gli suggeriva: “E lo dica!”… Sicché, per evitare forse creare inopportunamente curiosità, o magari perché la scia emotiva di quel momento e di quell’occasione sembrava lo imponesse come una confidenza dovuta, ecco allora monsignor Alberti che aggiunse: “Don Efisio sarà il nuovo rettore del seminario regionale”».
Entusiasmo o lacrime? Promozione o retrocessione? Come accolsero quelli dell’UNITALSI e tutti quanti i presenti l’annuncio?
«Entusiasmo, l’entusiasmo degli amici. Compresi i seminaristi, ce n’erano molti, era una buona consuetudine. Intendiamoci: l’entusiasmo fu la reazione immediata, poi cominciò la riflessione. Il rettorato significava l’abbandono dell’UNITALSI? Se sì, problemi… Ecco perché poi gli amici dell’UNITALSI si sfreddarono dopo poco. “Però c’è una clausola – aggiunse qualche minuto più tardi lo stesso monsignor Alberti, che forse intuì le sopraggiunte perplessità, perché l’UNITALSI è una famiglia, una grande famiglia –: che continui a fare l’assistente dell’UNITALSI!”. Nuovi evviva, il clima tornò caldo, empatico. A quel punto, dunque, la notizia era diffusa. Monsignor Alberti mi disse ancora: “Ricordati, rientrando fai una telefonata a tutti i vescovi ringraziandoli per la fiducia”. E qui capitò un fatto curioso… con Sassari».
Cioè?
«Il giro di telefonate mi pare lo avessi cominciato proprio con Sassari. Chiamai monsignor Isgrò, con il quale ci si conosceva, l’ho detto, da lunghi anni, perché quando io ero padre spirituale al seminario diocesano di Cagliari lui era rettore in quello di Oristano, e le équipe si incontravano più o meno spesso. “La ringrazio per la fiducia…”. “Quale fiducia? per che cosa?”, rispose lui. Ed io: “Ho accettato di fare il rettore del seminario regionale”. “Hai accettato di fare il rettore del seminario? Ma chi te lo ha detto? Loro dovevano solo esplorare, non nominare nessuno…”. “Scusi…”».
Un’altra scena simpatica. Immagino che poi tutto si chiarì, anzi lo do per scontato…
«Certo. Fu una partenza incerta all’inizio, ma si partì. Io avevo messo una prima condizione per accettare concretamente: di avere con me don Nino Onnis. Volevo una persona di fiducia piena, al quale poter confidare tutto, un fratello maggiore, amici amici, pure essendo noi diversissimi… E debbo dire che monsignor Alberti aderì subito alla mia richiesta. E don Onnis fu dell’équipe insieme con don Giovanni Ligas – l’attuale vicario generale della diocesi – e con don Francesco Marongiu della diocesi di Tempio, che poi diventò economo. Invece padre spirituale era don Pedroncini, e con lui contammo anche su padre Sebastiano Mosso, mentre fisso era padre Moriconi. Iniziai così una difficile ma bella avventura, veramente degna di esse riordinata».
Così don Spettu. Il testo della conversazione, riportato su carta, è lungo ed è conosciuto. Qui mi importava adesso concentrare sull’incrocio di vite Alberti/Spettu il racconto, fra cronaca e testimonianza.
Alberti lo storico ecclesiastico, una intervista
Autore di una monografia per tanta parte scritta con il sostegno di conoscenze e memorie personali di uomini e fatti – Stampa e politica 1793/1944, Cagliari, la Zattera, 1968 – Pasquale Marica, al tempo forse decano dei giornalisti sardi (che aveva svolto in continente pressoché l’intera sua carriera professionale), s’era dato a collaborare, verso la fine degli anni ’60-primi ’70, a La Nuova Sardegna. Il 7 luglio 1971 egli pubblicava, sulla terza pagina del quotidiano sassarese, un lungo articolo dedicato a don Ottorino Alberti, alla vigilia quasi del suo ritorno in Sardegna per guidare il Regionale in trasferimento nel capoluogo. Doveva essere uno step, quello, in vista della promozione episcopale che sarebbe arrivata due anni dopo, nel 1973. Non potevano bastare gli studi accademici, per quanto importanti, ad assicurare al prete filosofo-agronomo di Nuoro la mitria, doveva esserci un passaggio… in trincea. In questo il Vaticano fu con don Ottorino più esigente che con don Agostino Saba, dottore della Ambrosiana, promosso vescovo di Nicotera e Tropea per toglierlo di mezzo, nel 1953 – al tempo del pontificato Pacelli – nella gara, che rischiava di essere vincente, per la prefettura della Biblioteca ormai vacante.
Dunque Marica e Alberti: “Monsignor Ottorino Alberti: un sardo a caccia di documenti inediti e sconosciuti sull’Isola”. Questo il titolo dell’articolo su sette colonne del grande formato (“Intervista col vice decano della facoltà di Filosofia dell’Università Lateranense”, così l’occhiello: “Un prezioso contributo al progresso della storiografia della Chiesa in Sardegna attraverso una serie di profondi studi che abbracciano un arco di molti secoli carichi di vicissitudini”, così il sommario). Bello e spumeggiante l’incipit dell’autore: «Da quando mi sono votato alla testardissima impresa di creare un Dizionario dei sardi (che in partenza mi era apparsa cosa ingrata per l’enorme lavoro e la certosina pazienza che essa richiede) ho avuto l’insperato compenso di incontrarmi con molti eletti sardi che lavorano e studiano, senza accompagnamento di grancasse o ricerca di profitti. Compenso notevolissimo che vale a far dimenticare l’incontro – frequente – anche con i chiacchieroni, i narratori fasulli, i politici gonfi di vento e persino gli scienziati ignoranti… Tra gli spiriti eletti il caso mi ha fatto incontrare con monsignor Ottorino Alberti che agli effetti del mio Dizionario è “costoso” perché mi ha fatto sprecare molti fogli solo per riprodurre la sua vastissima bibliografia. Alla quantità corrisponde la qualità, come sanno coloro che lo seguono nella sua attività di professore di ruolo e vice decano della facoltà di filosofia della Pontificia università lateranense. Con questo formidabile studioso – che io per l’abbondanza delle opere credevo addirittura vecchio e che è invece un uomo di mezza età, che ha l’aspetto di un giovinotto di leva – ho avuto una intervista che penso possa essere di qualche utilità».
La prima domanda riguarda le fonti – «che ritengo ancora inesplorate da altri studiosi» – alle quali attinge lo storico che, val qui che richiami io alcuni titoli, ha esitato, fra il moltissimo altro, prima di quel 1971, tre importanti monografie edite tutte e tre dalla Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense: I vescovi sardi al Concilio Vaticano Primo, Roma, 1963; La Sardegna nella storia dei Concili, Roma, 1964; Il Cristo di Galtellì, Roma, 1967.
La risposta: «Per la storia delle singole diocesi sarde ho trovato di estremo interesse le Relazioni dei Vescovi alla Santa Sede che si conservano nell’Archivio segreto del Vaticano, Fondo della S. Congregazione del Concilio. Si tratta di una copiosissima documentazione, non solo inedita, ma sconosciuta agli storici sardi “classici” e anche agli studiosi contemporanei. E’ di fondamentale valore per la conoscenza della storia ecclesiastica e civile dalla fine del secolo XVI alla fine del secolo XVIII. Penso di poter essere in grado, entro la fine del corrente anno, di incominciare la pubblicazione di questi documenti, in una collezione che dovrebbe comprendere circa 25 volumi! La pubblicazione delle “Relazioni” dovrebbe essere completata con la documentazione, ugualmente abbondante e inedita, che si trova nelle seguenti collezioni: Liber decretorum S. Congreg. Concilii (dal 1564 ai nostri giorni), Liber Litterarum Visitationum (dal 1590 al 1875). Per quanto riguarda il Thesaurus Resolutionum Sacrae Congregationis Concilii (168 volumi, dei quali il primo apparve nel 1718), mi atterrò al semplice riferimento bibliografico dei documenti riguardanti la Sardegna».
Ancora: « La seconda ricerca che vado conducendo riguarda la antica diocesi di Galtellì, a partire dai primissimi anni del 1500, ossia dal tempo in cui la diocesi fu soppressa da Alessandro VI e unita all’archidiocesi di Cagliari. Per questo lavoro ho trovato un ricchissimo materiale, assolutamente inedito, nell’archivio della Curia arcivescovile di Cagliari e nell’archivio capitolare della stessa città. Di particolare valore sono le due collezioni (circa 100 volumi) del Registrum commune e del Registrum ordinarium, alle quali non mi risulta che mai nessuno abbia attinto. Queste stesse fonti potrebbero servire per una ricostruzione delle Diocesi di Suelli, Dolia, Iglesias e, naturalmente, Cagliari per i secoli XVI, XVII e XVIII. Negli stessi archivi sono conservati moltissimi altri documenti, di alcuni dei quali si conosce l’esistenza (cf. opera di Silvio Lippi…) ma solo pochissimi sono stati studiati (ad es. le carte medioevali dell’archivio arcivescovile di Cagliari). Tra i tanti manoscritti basti ricordare i Libri Diversorum, Le carte e i biglietti regi, I processi canonici, Le Relazioni di visite pastorali, ecc.».
Circa l’accessibilità effettiva degli archivi vaticani e il concreto rilievo delle carte ai fini della storia “stretta” della Sardegna: «se le fonti che io so inedite siano importanti. Non posso che rispondere affermativamente. Anche se tra tanta congerie di documenti alcuni possono essere di scarso interesse, molti altri, al contrario, sono preziosissimi e servirebbero a colmare le grandi lacune della nostra storiografia e a chiarire e risolvere molti problemi ancora assai oscuri, soprattutto per quanto riguarda i secoli XVI e XVIII.
«Quanto alla accessiblità delle fonti a mio avviso la prima cosa da fare dovrebbe essere quella – sia che si tratti di materiale vaticano, sia che si tratti di materiale di archivi locali – di segnalare gli archivi dove si sa o si presume che possano esserci documenti riguardanti la Sardegna; in un secondo tempo si dovrebbe curare una pubblicazione con tutte le indicazioni necessarie, non solo per far conoscere agli studiosi la presenza dei documenti, ma anche per indicarne il contenuto e l’importanza. Una volta che se ne conosca l’esistenza e il contenuto, la consultazione dei documenti non dovrebbe essere difficile, anche se comporterebbe dispendio di tempo e di denaro, soprattutto quando si tratta di archivi fuori dell’isola. Le ho indicate alcune fonti vaticane. Aggiungo le seguenti altre: gli Acta miscellanea e gli Acta Camerarii della S. Congregazione concistoriale (dei Vescovi e Regolari). Lo Scanu ha pubblicato solo una minima parte dei documenti che si trovano in questo fondo d’archivio: il materiale d’archivio della soppressa Congregazione dell’immunità.
«Nel 1729 il padre Pietro A. Ricci pubblicò una Synopsis decreta et resolutiones S. Congreg. Immunitatis, ma si tratta di un’opera che raccoglie le decisioni emanate dalla S. Congregazione stessa. Sarebbe interessante però esaminare tutta la documentazione inedita e non solo quella riguardante le “decisioni” pubblicate; i documenti della Sacra Romana Rota. E’ vero che molte notizie sulla Sardegna si possono trovare nella collezione Decisiones rotales, ma nessuno ha mai fatto ricerche dirette d’archivio.
«Non la finirei più se volessi elencarle gli archivi vaticani dove si trovano documenti sulla Sardegna. Io ho trovato materiale abbondante, ad esempio, negli Archivi della Dataria Apostolica, della S. Congreg. dei Riti, della Congreg. dei Vescovi ecc. E non bisogna dimenticare gli Archivi degli Ordini religiosi, in particolare dei padri Gesuiti, dei padri Cappuccini, dei Minori francescani e conventuali, dei Mercedari, dei Domenicani ecc. Tutti questi Archivi sono una miniera tanto più preziosa quanto ancora inesplorata, per quanto riguarda le questioni interessanti la Sardegna».
Riguardo ad ipotesi di ricerche concordate fra studiosi, in collaborazioni d’équipe cioè, e del finanziamento di questi lavori, forse eccessivamente onerosi per le tasche di chi mette tutto se stesso al servizio di una causa di cultura, senza contare, né sperare, in tornaconti, Alberti osserva: «Se si tiene conto della vastità del “mondo da esplorare” la risposta balza immediata: è necessaria una “collaborazione sistematica” tra gli studiosi di cose sarde, non solo, ma è necessario che qualcuno che può faccia sua l’iniziativa della costituzione di una équipe di ricercatori i quali, con un adeguato finanziamento, potrebbero condurre a termine ciò che tornerebbe a vantaggio della cultura sarda e a onore di chi l’avrà promossa e sostenuta. In questo modo potrebbe essere resa facile la consultazione delle fonti, o perché potrebbero essere oggetto di pubblicazione, o perché potrebbero essere fotocopiate e microfilmate e quindi raccolte in un apposito Centro di consultazione. Del resto lei con la sua Summa Sardoa [si tratta di una collezione di olre duecentomila ritagli stampa donati alla Biblioteca del Consiglio regionale della Sardegna, ndr] ha dato un luminoso esempio di quanto si possa fare e si debba fare quando si vuole veramente e non verbalmente il progresso culturale. Quando si parla di finanziamenti oggi, in Sardegna, si pensa alla Regione; ed è logico, per quanto a me sembri che non dovrebbe disinteressarsene il Governo statale».
Ma – è la domanda ultima di Marica ad Alberti – «ammesso che lo Stato o la Regione siano sensibili a una proposta culturale che non porta voti ai partiti, resta il problema della costituzione dell’équipe. Lei, certamente, potrebbe essere in grado di presiederla e indirizzarla…sarebbe disposto lei a far parte di questa équipe? ».
La risposta: «Io sono sempre disposto a portare il mio modesto contributo a un lavoro del genere, perché sono convinto che la ricerca delle fonti ancora sconosciute per la storia della Sardegna deve essere il primo impegno di ogni studioso. E’ certo lodevole l’iniziativa di alcune case Editrici di curare la ristampa di vecchie e preziose opere, le quali, pur con tutti i pregi ed i meriti che è doveroso riconoscere loro, non contribuiscono al progresso delle conoscenze storiche della Sardegna, che sarà possibile invece solo con la scoperta e la pubblicazione dei documenti dei quali si è ignorata per secoli l’esistenza, ma che attendono di essere portati alla luce.
«Se si eccettuano gli studi di Francesco Loddo Canepa, Antonio Era, Marongiu, specialmente del prof. Boscolo e di pochi altri studiosi, i quali, grazie a un paziente ed intelligente lavoro di ricerca delle fonti, vanno estendendo ed approfondendo la conoscenza della storia (civile soprattutto) della Sardegna, la maggior parte delle opere pubblicate (pochissime in verità) e delle tesi di laurea vennero fatte traendo il materiale dai libri e non da documenti originali e nuovi.
«Per la storia ecclesiastica poi la situazione è ancora più sconfortante. E’ doloroso doverlo dire, ma solo pochissimi (mons. Bonu, canonico Amadu, don Giovanni Ortu, mons. Cherchi e pochi altri, tra i viventi) si interessano a questi studi, trascurati del tutto da parte di studiosi che avrebbero doti e capacità per fare molto e bene in questo settore. Mi piace però segnalare l’esistenza di qualche tesi di laurea che dimostra una ripresa lenta ma sicura di questo genere di studi (recentemente è stata discussa all’Università Lateranense una tesi del sacerdote A. Nughes che illustra, con documenti originali, la storia della diocesi di Alghero).
«A proposito delle tesi di laurea si dovrebbe trovare il modo di renderne possibile la pubblicazione in modo che gli studi più meritevoli possano essere conosciuti dagli studiosi e non restare nell’anonimato.
«D’accordo con l’editore Cocco sto pensando di dare inizio alla pubblicazione di una collana di studi e di ricerche, riservata unicamente alle tesi di laurea che giudico capaci di portare un vero contributo alla conoscenza della storia ecclesiastica e civile della Sardegna».
Propositi del professor Alberti espressi all’inizio dell’estate 1971. Ma già nell’autunno seguente egli era chiamato a servire la sua Chiesa non più soltanto dalla cattedra universitaria o nelle stanze temute algide degli archivi storici, ma nella trincea cagliaritana del seminario regionale.
Molti di quei propositi di ricerca nuova e di pubblicazioni sarebbero stati rinviati nel tempo, molti sarebbero stati vanificati dalle prevalenti missioni pastorali – a Spoleto e Norcia dal 1973, a Cagliari dal 1988 – mentre gli anni della pensione, dopo il 2003 e fino alla morte, si sarebbero consegnati alle crescenti problematiche delle compatibilità con la salute indebolita.
Ricorderei – doveroso omaggio all’amico perduto – la stampa/ristampa, nel 1993, ad opera della sassarese 2D Mediterranea, dei due tomi La Diocesi di Galtellì dall’unione a Cagliari (1495) alla fine del sec. XVI: due tomi, uno espositivo, l’altro documentario. Era uscito nel 1978, in veste autonoma, e forse per malintesi con l’editore autonomamente messo in circolo, questo secondo, si sarebbero dovuti attendere quindici anni per esitare la prima parte. (Richiamerei, anche per gli spunti che offre della sua biografia intellettuale, la doppia premessa che Ottorino Pietro Alberti firma nel 1993. Aggiungerei però che un lavoro sulla prosecuzione temporale della vita della Chiesa barbaricina fu presentato dallo stesso Alberti, al tempo presule in Umbria, il 14 marzo 1979, nel salone del nuorese cinema delle Grazie: “I duecento anni di storia della Diocesi di Nuoro dalla ricostituzione della Diocesi di Galtellì-Nuoro 1779-1979”: esso venne pubblicato poi in Pacificazione e Comunione. Atti Bicentenario Diocesi di Nuoro 1779-1979, a cura di Rosario Menne, Sassari, Stamperia Artistica, 1982).
Ricorderei anche, del 1994, il bel volume Scritti di storia civile e religiosa della Sardegna, pubblicato dall’editore Fozzi per i tipi della Torre, che raccoglie, distinti in quattro sezioni tematiche, 29 contributi offerti dall’autore, nel tempo, a riviste, opere collettanee, ecc.
Ricorderei infine, perché ricapitolativo di tutto, quanto a lui dedicato in Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti, a cura di Francesco Atzeni e Tonino Cabizzosu, Cagliari, Edizioni della Torre, 1998. E in esso la scheda bibliografica dello storico, articolata in sei settori (libri e monografie, contributi in opere miscellanee, articoli su riviste, articoli su giornali, presentazioni o prefazioni, contributi di natura pastorale) curata da Cabizzosu, comprensiva – alla data di uscita del repertorio – di ben 403 titoli, rivelatori del vasto arco di interessi dello studioso «che vanno dalle scienze naturali e filosofiche alla storia ecclesiastica antica e contemporanea della Sardegna», come scrive lo stesso curatore quando giustamente sottolinea la “mens scientifica” dell’autore, che era stato suo rettore, negli anni del secondo e terzo corso teologico, fra gli estemporanei affanni di quel 1971 e 1972…
Davvero tutto si tiene nella vita delle uomini, e anche i lutti, a ripensarli con maggiorazioni di vera laica religiosità, riportano a questo: a considerare come un percorso, incrociando quello dell’altro, ne lasci sopra comunque una traccia. E come la dimenticanza, quando c’è, sia nient’altro che un affronto alle armonie del nostro esistere.