Gli intellettuali contro la democrazia, di Nadia Urbinati

«Ci sono alcune decisioni, quelle che richiedono una dose di conoscenza e riflessione maggiore, che non possono essere prese da tutti, e soprattutto da coloro che per loro scelta si so

no resi incompetenti. Questo argomento antidemocratico trova oggi uno spazio preoccupante».




BREXIT ci ha catapultato indietro di svariati decenni, quando scrittori e uomini di cultura teorizzavano il dispregio per la “democrazia”, a tutti gli effetti ancora il nome di un pessimo governo perché governo degli ignoranti, di chi non sapeva capire il “vero” interesse del paese perché non aveva beni da difendere o carriere da coltivare. 

Così pensava per esempio François Guizot, un ministro liberale francese di metà Ottocento, che ebbe il nostro Mazzini come oppositore e con lui tutti i fautori del suffragio universale. Dopo il referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea, sembra di assistere a un refrain di simili posizioni.

Nei blog e negli articoli su riviste online inglesi e americani che circolano numerosi in questi giorni si verifica uno straordinario fenomeno di reazione degli acculturati contro gli “ignoranti”. La questione interessante non è, ovviamente, quella della veridicità o meno di questa affermazione — quanta ignoranza serve a fare un ignorante e quanta informazione a fare un competente in preferenze elettorali è una di quelle domande alle quali nessun politologo può dare risposta certa.

Quel che è interessante è che ritorni a farsi strada nell’opinione del mondo l’idea che il suffragio universale equivalga a governo degli ignoranti, che i molti (generalmente poveri e non acculturati) blocchino le possibilità a chi potrebbe espandere le proprie capacità. La società della meritocrazia si rivolta contro la società dell’eguaglianza e prova a far circolare l’idea che la competenza, non l’appartenenza alla stessa nazione, debba consentire l’accesso alla decisione politica.

Le avvisaglie della rivolta delle élite nel nome della competenza e dell’interesse si manifestano del resto anche nel campo della ricerca: tra le teorie della democrazia che oggi attraggono molto l’attenzione degli studiosi vi è quella che prende il nome di «teoria epistemica», l’idea cioè che la democrazia sia buona non perché ci rende liberi di partecipare alle decisioni e di cambiarle, ma perché le sue procedure — se opportunamente usate — producono decisione buone o giuste. Per esempio, restare in Europa sarebbe stata la decisione giusta se a usare la procedura del voto ci fossero stati cittadini informati. Il fatto che abbia vinto Brexit significa non che le procedure siano sbagliate ma che per ben funzionare dovrebbero essere usate da chi meglio può usarle.

Certo, ammettono i teorici della «democrazia competente», tutti sono potenzialmente capaci di ragionare e in questo senso l’inclusione universale nella cittadinanza non è messa in discussione. Il problema è che non tutti hanno, per le più svariate ragioni, potuto coltivare le loro qualità intellettuali, non solo perché hanno deciso di interrompere la loro educazione ma perché hanno scelto di non informarsi bene.

Per il momento, il ragionamento sulla «democrazia competente» si interrompe qui. Senonché, come si evince dai commenti di questi giorni, qualcuno potrebbe completarlo così: ci sono alcune decisioni, quelle che richiedono una dose di conoscenza e riflessione maggiore, che non possono essere prese da tutti, e soprattutto da coloro che per loro scelta si sono resi incompetenti. Questo argomento antidemocratico trova oggi uno spazio preoccupante.

La rivolta delle élite contro la democrazia è una realtà che conferma la brillante e solitaria diagnosi fatta da Christopher Lasch in The Revolt of the Elite del 1995. Attento studioso dei mutamenti politici e di costume nell’America di Carter e Reagan, Lasch documentò la crescita di quella che egli stesso definì «la società del narcisismo» e della conseguente disaffezione nei confronti della richiesta popolare di eguaglianza.

Le classi privilegiate, scriveva, sono fortemente attaccate alla nozione della mobilità sociale e dell’apertura delle frontiere; quelle svantaggiate sono al contrario timorose di entrambe. I nuovi benestanti alimentano un’idea che è in forte tensione con la democrazia medesima: quella della «democrazia della competenza» contro la «democrazia dell’eguaglianza», quella di una cittadinanza basata sull’eguale accesso alla competizione economica invece che sull’eguale potere nella partecipazione alla vita collettiva e politica. Divelta la centralità del lavoro, sembra che lo scopo della democrazia sia diventato quello di emancipazione dalla condizione di lavoro manuale, invece che dell’eguale distribuzione del potere di decidere sulle regole del lavoro e di chi lavora.

Emanciparsi dal lavoro e lasciare il lavoro agli ignoranti: «È elitario dire questo ad alta voce?», si chiede un blogger inglese. Ci si deve «vergognare» ad ammettere che non tutti abbiamo gli stessi interessi da difendere? «Ci si deve reprimere dal pensare che è per il bene di tutti che le ragioni della conoscenza e della competenza dovrebbero avere più attenzione?».

Sono gli ignoranti che hanno paura degli altri, che si innamorano del nazionalismo, che sono angosciati dalla globalizzazione. Allora, perché lasciare che essi partecipino a decisioni che mettono in discussione il nazionalismo e che vogliono tenere aperte le frontiere con l’Europa? È Michael Pascoe sulla rivista Business Day che propone queste osservazioni radicali appellandosi, appunto, ad una «democrazia della competenza» e chiedendosi se è davvero «reazionario» denunciare «l’idiozia delle masse». Ancora una volta, dopo Brexit, in nome della democrazia si dice in sostanza che la democrazia è un pessimo governo.

La Repubblica, 03 Luglio 2016

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