In memoria di Titino Melis nel quarantesimo della morte, di Gianfranco Murtas
Il sentimento d’Italia dei sardisti d’un tempo. Come a dire, democrazia e giustizia.
Nelle foto: Camillo Bellieni (Thiesi, 31 gennaio 1893 – Napoli, 9 dicembre 1975 ), Emilio Lussu (Armungia, 4 dicembre 1890 – Roma, 5 marzo 1975), Titino Melis ( Oliena, 19 maggio 1904 – Cagliari, 6 luglio 1976 ), Ansellmo Contu (Arzana, 18 aprile 1900 – Cagliari 15 dicembre 1975)
Ci è sfilato sotto gli occhi il 2015 e non abbiamo trovato il tempo giusto per onorare le memorie nostre di democrazia sardista nell’albero repubblicano, quello di Mazzini e Cattaneo. E chissà dove andrà il Partito Sardo ora con nuova guida politica – del gruppo dirigente io guardo con speciale riguardo a Giovanni Columbu – dopo la lunga, lunghissima, ingrata, avvilente notte della presidenza di Giacomo Sanna. Non so quanto in Columbu, figlio di tanta madre Simonetta e tanto padre Michele, nipote di tanto nonno Dino Giacobbe combattente per la libertà sul fronte spagnolo e nella opposizione interna, e di tanta nonna Graziella Sechi eroina segreta e poi manifesta, rimanga, come elemento creativo del nuovo sardismo del Duemila, sia nella vena nazionalitaria paterna sia in quella socialista universalista GL dei Giacobbe, né so come egli intenda modellare in sintesi i due filoni, o voglia arricchire il patrimonio con gli innesti delle sue esperienze di vita ed intellettuali ed artistiche. Gli è che io sento il sardismo come una malattia virtuosa e non me ne so liberare. Così da ragazzo. Ho amato il sardismo, l’ispirazione sardista, più ancora forse del mio partito, quello azionista-repubblicano, lamalfiano, dalla cui cultura risorgimentale, democratica ed antifascista ho sentito derivare, pur con tutte le sue peculiarità, il Partito Sardo del primo dopoguerra ed europeista anch’esso con Mazzini nel cuore, padre della Repubblica anch’esso, il Partito Sardo dei costituenti Lussu e Mastino, dopo la testimonianza valorosa nei quadri di Giustizia e Libertà al tempo della dittatura. Malato di sardismo – del sardismo d’un tempo – , forse non voglio guarirne, anche se so, credo lucidamente, che non avremo più, dopo tutte le deviazioni e retrocessioni indipendentiste, il sardismo che ha formato le coscienze politiche e la testimonianza storica, intellettuale e civile di un Emilio Lussu, di un Anselmo Contu, di un Camillo Bellieni, dei grandi insomma dei quali avremmo dovuto ricordarci, come in un sol blocco ideale-culturale, nel quarantesimo della morte. Ricorrenza alla cui vigilia ci troviamo adesso anche per Giovanni Battista – Titino – Melis.
Perché c’è davvero una malinconica concentrazione di anniversari che definirei “infaustamente giubilari” in questi mesi, fra il marzo dello scorso 2015, il dicembre passato ora è soltanto qualche mese, e questo 6 luglio 2016, fra la scomparsa del cavaliere “dei rossomori” e quella del cavaliere “senza macchia e senza paura”. Ho trovato casualmente, giusto l’altro ieri, un mio libro intitolato proprio così e riportante gli (allora inediti) appunti autobiografici di Titino Melis, nello scaffale delle “novità” alla MEM, sezione archivio storico. Con quella copertina allusiva, come in altre mie copertine dedicate agli uomini del sardismo, alla fraternità gemellare delle bandiere, il tricolore del risorgimento e della repubblica, i quattro mori del sentimento regionale, patriottico anch’esso. “Cavaliere” era la parola chiave. Cavaliere dei rossomori, del sardismo rimasto incorrotto e anzi audace, vigoroso e vittorioso coprotagonista della battaglia antifascista e repubblicana, Emilio Lussu; cavaliere anche Titino, lui nel più dimesso quotidiano, che comunque non lo salvò, 23enne, dal carcere patito insieme con Ugo La Malfa siciliano 25enne, in quel 1928, implicato (e implicati) nella trama della cosiddetta Giovane Italia costruita nella clandestinità di Milano. Dove Titino s’era impiegato come istitutore nel convitto Longone, studente-lavoratore. “Cavaliere”. E penso all’imbarbarimento di questa parola quando la cosiddetta politica, e le istituzioni, l’hanno associata per quanto lungo tempo! a chi, pur cavaliere per nomina amministrativa, non aveva in sé, al contrario degli antichi cavalieri, un grammo di senso dello stato e d’amore alla verità, senza cui cade ogni rispetto per il popolo. Riscuotendo invece, da noi come a Roma, dico anche (… nazionalitariamente) a Cagliari e a Porto Rotondo (villa con approdi barcaderi fuori norma per la sicurezza!), il cavaliere incipriato, malaugurato sostegno degli indipendentisti con bandiera autoctona, in questo rimasuglio di notte nera delle idealità. (La sofferenza di questi giorni per la sua malattia e l’operazione al cuore, circostanza che ne strappa la simpatia, non può annullare la memoria delle cose, perché è stato lo spirito pubblico ad esserne stato corrotto dal 1994).
Quando ho pubblicato le memorie inedite di Giovanni Battista Melis, ho recuperato quel titolo che a Titino era stato assegnato da Lussu. “Senza macchia e senza paura”, Titino, una generosità personale ai confini della pura oblazione per la missione. Le carte che ho studiato di lui – molte centinaia –, quelle che ho raccolto e pubblicato – come tutti i suoi discorsi parlamentari di due legislature (dieci anni), quegli altri tenuti in Consiglio regionale o in quello comunale di Cagliari, o ai congressi del PSd’A o del PRI, quelle altre che ho raccolto dalla famiglia (da Elena e Ottavia e anche da Mario, a Nuoro), e da Salvatore Cubeddu che ne ha offerto ampia rassegna anche lui nei suoi corposi saggi usciti per i tipi della Edes, lo rappresentano nella sua statura che, mi permetto di aggiungere, quasi era sdoppiabile: perché al valore dato e toccato, pesato e misurato, universalmente ammirato, sembrava accompagnarsi quello potenziale, dell’inespresso cioè, che in altre condizioni avrebbero dato onore e soddisfazione a lui e ai suoi, oltre che alla democrazia italiana.
Voglio e debbo essere più chiaro: credo che soltanto alcune circostanze (soggettive e d’ambiente), in concorso fra loro, abbiano impedito a Giovanni Battista Melis di costituire, negli anni ’60, quelli cioè della prima stagione del centro-sinistra e dei tentativi di programmazione economica in linea di correzione dello sviluppo distorto del decennio precedente, l’asso politicamente più originale dell’area progressista non socialista. Perché in una stagione, pur contraddittoria, di riforme o di impostazione di una politica riformatrice, non riformista, così in economia come nelle istituzioni – al 1970 risale l’esordio del regionalismo già prefigurato alla Costituente –, segnata dal raccordo fra la politica di programmazione nazionale e quella regionale di attuazione della Rinascita, la identità sardista e l’autorevolezza parlamentare del direttore del PSd’A potevano rappresentare la novità eccellente di un laboratorio assurto a modello per la politica generale.
Egli era stato eletto deputato con una base elettorale sardista prossima ai 30mila voti e, per far scattare il quorum del seggio di quella IV legislatura repubblicana, anche con una indispensabile contribuzione dei suffragi repubblicani, mazziniano-lamalfiani, della Campania e della Puglia, del Piemonte, della Lombardia e della Toscana, della Calabria e della Liguria, del Trentino, del Friuli e dell’Abruzzo, dell’Emilia e del Lazio… La militanza e l’opinione del continente, dico la militanza e l’opinione fedeli alle idealità laiche e democratiche, erano allora confluite, grazie a un virtuoso meccanismo elettorale, a sostenere il miglior candidato del PSd’A, costituzionalmente divenuto rappresentante dell’intera nazione, dell’Italia patria comune. S’era ripetuto, in quel 1963, e sia pure in forme diverse, quanto s’era tentato, da parte dei sardisti, nel 1958 con l’apparentamento olivettiano, quando i diciassette numeri de “Il Solco” e quello speciale, bellissimo, di “Sardegna italiana”, diretto da Michele Columbu (allora ancora residente e professore a Milano), avevano delineato una sorta di piattaforma dialogica fra i sardi di Sardegna e quelli portati dalle occasioni della vita a guadagnarsi il pane lavorando tanto più nelle grandi città del nord. Fatti tutti carichi di una responsabilità nazionale, per la democrazia e la equità sociale nella crescente modernizzazione.
S’era parlato allora di un ufficio di sottosegretario, forse alla Cassa per il Mezzogiorno, a Titino Melis. I numeri del gruppo repubblicano – cinque deputati in tutto a Montecitorio, e due senatori – non consentirono questo, e il direttore sardista onorò comunque il mandato spendendosi in molti campi della responsabilità nazionale, molto oltre lo stretto interesse isolano. Per concludere, all’inverso, ogni discorso riguardante la Sardegna, con l’appello all’aula in favore della “unità vera della patria” – testuale – ed il sostegno della nobile invocazione affidato alla nota, passionale espressione “con cuore di sardo e d’italiano…”.
Io credo che quell’incarico governativo, se ci fosse stato, avrebbe fatto la differenza. Non per il cadreghino, verso cui un uomo della statura di Giovanni Battista Melis non avrebbe avuto alcuna debolezza, ma per la chiamata ad un ufficio operativo nazionale proprio di un esponente del PSd’A, cioè di un partito regionale. La cosa avrebbe determinato certamente una più avanzata sintesi della doppia sensibilità, e della doppia responsabilità, regionale e nazionale, del sardismo iscritto nel libro magno della democrazia italiana e della repubblica costituzionale. Con quanti altri processi evolutivi e modernizzatori della cultura politica sarda e italiana sarebbe anche difficile immaginare…
Si pensi a questo riportando la memoria alle decisioni politiche del 1945, quando – entrando in quota azionista – i sardisti furono i soli rappresentanti di una forza di estrazione regionale chiamati a ricoprire funzioni tanto nel governo – con Mastino sottosegretario al Tesoro nei governi Parri e primo De Gasperi – e nella Consulta nazionale – allora con Luigi Battista Puggioni.
Si pensi a quanto recupero, nel fare governativo possibile nella metà degli anni ‘60, ci sarebbe potuto essere della progettualità del sardismo dei primi anni ’20, quello volto – attraverso la formula del cosiddetto Partito Italiano d’Azione – a federare i partiti regionali non soltanto per spingere a una politica di sviluppo della dignità rurale, ma per introdurre nell’ordinamento dello Stato elementi di riforma a favore della devoluzione politico-amministrativa ai territori.
Si consumò quella IV legislatura, centrale nella storia di questi settant’anni repubblicani, nella incompiutezza e nelle delusioni, anzi nelle frustrazioni. Perché concorrenze elettorali, pur comprensibili e tutte legittime, interne al PSd’A, una certa mortificazione della dialettica fra le diverse anime del partito e la suadenza tentatrice, tutta letteraria ma ideologicamente depistante, del nazionalitarismo introdotto, con cuore gentile, da Antonio Simon Mossa a partire dal Sassarese, compromisero, anzi soffocarono nel contingente una grande prospettiva riformatrice italiana impostata sul regionalismo. E il Partito Sardo d’Azione fattosi in progress una specie di Fronte di Liberazione Nazionale contro l’occupante italiano, per darsi un domani in queste stesse vesti, e con la bandiera, al miliardario della bandana, mutò non soltanto pelle, ma sostanza di muscoli e nervi , ossa e vasi… Ne rimase ancora, del vecchio onorato sardismo, negli anni ’80, al tempo della prestigiosa presidenza di Mario Melis, ma il più nell’elettorato e nella militanza, via via anche nella dirigenza diceva tutt’altro, diceva ormai di convergenze nuove non dettate dall’adesione ideale e valoriale, ma dalla scommessa emotiva, dalla protesta e anche, talvolta, dal trasformismo opportunista. Tanto che poi si sono trovati alcuni già convertiti nazionalitari che, delusi in replay e però anche privi del senso del ridicolo semantico, sono diventati tifosi di Forza Italia, mentre la nuova improvvisata dirigenza non ha provato schifo a incasellare i Quattro Mori fra i simboli degli ex fascisti e dei berlusconiani imbrillantinati.
Personalità molto diverse fra di loro, anche per un vissuto che ne distingueva i percorsi esistenziali e di esperienza, Contu – il presidente anticipatore, ventenne, del circolo della Giovane Sardegna, e Bellieni il sardo-salveminiano (che risiedendo a Napoli aveva confidato all’inviato dell’ “Unione Sarda”, quasi alla vigilia della sua morte, di votare per l’Edera repubblicana) – e Titino Melis ovviamente, con ancor più marcate originalità, lasciarono il loro nome in eredità ai posteri, nel biennio 1975-1976. Fu come se la loro dipartita avesse chiuso un ciclo storico del sardismo.
Vorrei riprendere da questo punto una riflessione, certo soggettiva e potrà anche dirsi parziale, sulla storia recente del sardismo. Ancor più coinvolgendo, per il proprio specifico, Anselmo Contu primo presidente dell’Assemblea regionale nel 1949, e Bellieni sì il combattente medagliato ma anche lo storico, il teorico, l’autore di quella bellissima notissima (?) lettera, da Sassari, agli “amici cagliaritani”, nel dicembre 1920.
Ora per celebrare tutti – il Contu arrestato con altri sardisti e il repubblicano Michele Saba nell’autunno 1930, vittima anch’egli della retata agli aderenti alla rete di Giustizia e Libertà e galeotto per alcuni mesi a Regina Coeli, il Bellieni delle prime collaborazioni a “Volontà” di Vincenzo Torraca e alla “Critica Politica” del repubblicano Oliviero Zuccarini così come della tremenda corrispondenza antifascista del 1923 per scongiurare l’adesione sardista al PNF – ritorno a Titino Melis, presentando o ripresentando alcune pagine preziose che potei pubblicare anni addietro, nel quadro del lavoro biografico sul vecchio leader e parlamentare.
Coinvolsi in quella stagione – direi che furono tutti gli anni ’90 del secolo scorso – i familiari dell’onorevole Melis, partendo dalle carissime Elena ed Ottavia, e però anche Pietro e Pasquale, e naturalmente Mario.
Non potrei non associare oggi, nella memoria di Titino Melis, anche quella delle sorelle e del presidente, con cui ebbi la fortuna di costruire un certo sodalizio anche umano per me esaltante.
Tutti parteciparono con documenti e testimonianze, ed Elena e Mario anche con scritti originali, alle mie ricerche e pubblicazioni.
Mi limito qui a richiamare tre contributi della preside amatissima a Nuoro. Quelli che si dispose ad offrirmi, a richiesta, sulla figura del maresciallo Giuseppe Melis, il pater familias ed educatore – con la sua sposa Michelina Corrias – di tanta prole, in tempi difficili, e poi sulla vicenda dell’arresto di Titino nel 1928, e dopo ancora sul mito lussiano com’era vissuto in casa…
Concludo poi rilanciando due pagine soltanto degli appunti autobiografici dello stesso Titino Melis, da lui stesi negli anni della malattia e della lunga vigilia di morte, tempo di riflessioni e di consuntivi esistenziali, razionali e sempre però appassionati…
I testi sono recuperati dal mio volume Titino, i Melis, la Sardegna, uscito nel 2004 per i tipi della Edes di Sassari, volume che si offriva come antologia dei tanti scritti da me raccolti o curati e pubblicati nel decennio precedente, nel quadro delle ricerche sul sardo-Azionismo. L’opera dette spunto ad una memorabile serata che spendemmo, con una straordinaria e forse irripetibile goduria morale e sentimentale, nella sala cine-teatrale di Sant’Eulalia generosamente offertaci dal parroco don Mario Cugusi. Protagonista ne fu, accompagnato da Salvatore Cubeddu e Giancarlo Ghirra, il professor Michele Columbu.
Aggiungo in extremis, ancora una volta, l’invito alla Amministrazione civica di Cagliari a sciogliere il suo debito con la memoria di Giovanni Battista Melis, e con la sua, per ragioni tante volte illustrate e documentate, di Ugo La Malfa. Le circostanze della storia democratica italiana – le celle di San Vittore per la testimonianza antifascista, le relazioni partitiche e i seggi parlamentari, i palchi dei comizi e le delibere di governo negli anni ’60 e anche prima – affratellarono i due leader, il siciliano e il sardo. Dovrà pur trovarsi uno spazio degno in città da intitolare loro, se non una strada o una piazza, una sala di cultura o altro compendio.
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Elena Melis: «Il maresciallo Giuseppe Melis, cattedra dell’esempio»
«Non podiat essi che filla de su Maresciallu Melis», avrebbe detto quell’anziano tziu urzuleino ad Elena Melis che, trovandolo in difficoltà e sperduto, s’era offerta di accompagnarlo a destinazione, presso il sanatorio di Nuoro. «E io mi ebbi in quella circostanza il più bel “grazie” della mia vita», chiosa adesso, rammentando l’episodio, l’ormai anziana professoressa-preside, docente fra le più amate, con sua sorella Ottavia, dai nuoresi di più d’una generazione.
Il magistero paterno, che, magari inconsapevolmente, è di pretto sapore evangelico, è stato fecondo quant’altri mai nella vicenda umana dell’intera operosa prole, da Titino a Mario. Un magistero arricchito dall’apporto, anch’esso singolare e straordinariamente coerente, della compagna di vita del Maresciallo Melis, Michelina Corrias.
Tornano, come elementi di una testimonianza, i ricordi di quella lontana semina, discreta e ogni giorno rinnovata: semina di virtù civiche, del senso del dovere e della solidarietà fra le persone, dell’amore al debole…
Quando Gianfranco Murtas mi propose un contributo per questo suo nuovo libro dedicato a mio fratello Titino, mi suggerì anche l’argomento: “nostro padre”, che io accolsi con commossa gratitudine.
Nelle nostre conversazioni forse rimase colpito anche dal fatto che un giovane maestro elementare decidesse di passare da una funzione squisitamente educativa ad una in prevalenza punitiva, sostituendo al libro la… sciabola.
Di fatto la decisione non fu determinata da una opzione personale ma da una dura realtà: l’estrema povertà dei Comuni che spesso non potevano pagare gli stipendi ai maestri! Egli peraltro non rinunciò mai alla sua vocazione primaria ma la portò, con coerenza e naturalezza, nella sua vita privata come in quella pubblica caratterizzandosi proprio per questo suo modo particolare di porsi davanti alle più varie situazioni, anche nella nuova professione.
Nel corso delle pagine che seguono non ho quasi fatto riferimento a nostra madre per tenere fede all’argomento proposto. Non posso tuttavia non sottolineare, almeno, che padre e madre erano tutt’uno. Diversi per formazione culturale in senso scolastico, erano sullo stesso piano come mentalità, intelligenza, coraggio, armonia di rapporti così da offrire a noi figli un meraviglioso ideale di vita familiare fondato, oltreché sull’amore e sulla stima reciproca, sulla comprensione e sulla solidarietà che ciascuno ha poi cercato di portare nell’ambito del proprio ambiente di lavoro e, in senso lato, nella società.
I ricordi più lontani nel tempo, che ho di nostro padre, mi riportano sulle sue ginocchia insieme ai miei fratelli minori – rispettivamente due e uno per parte – come su un brioso destriero, a cavalcare allegramente, a caracollare, a galoppare con improvvisi arresti e altrettante emozionanti partenze sottolineate da strilli di entusiasmo; o quando, con la barba ancora non rasata, avvicinava il suo viso al nostro per una divertita carezza che già pregustava una rumorosa movimentata reazione.
Era alto e aitante e, quando dalla finestra della nostra casa a Tortolì, che era annessa alla caserma, lo vedevamo nel cortile sottostante issarsi sul suo bellissimo cavallo scalpitante, ci sentivamo noi stessi parte di una favola che accendeva la nostra fantasia della quale lui era l’eroe che partita per chissà quali avventure. Di fatto la realtà era tutt’altra, fatta di lunghe stressanti cavalcate notturne nelle campagne, in zone impervie dell’Ogliastra, al caldo, al freddo, sotto la pioggia battente o nelle estenuanti calure estive, fra pericoli e infiniti disagi.
Aveva anche una bella voce con cui passava dalla messa in gregoriano a “is gosus”, da una romanza ad una canzone, da un’agile aria d’operetta a un inno patriottico, ma i motivi che, insieme alle parole, sono stati per noi tutti – grandi e piccoli – un libro di pedagogia sempre aperto ai quali ancora torniamo con commozione e gratitudine, sono certe canzoni e preghiere didascaliche che lui, giovanissimo maestro a Musei, insegnava e poi cantava con i suoi alunni gettando, giorno dopo giorno, su un terreno predisposto ad accoglierli, semi preziosi destinati via via a trasformarsi in mentalità, modi di essere, principi radicali, coerenze di vita.
Queste canzoni apprese sulle ginocchia di nostro padre, tutti poi le abbiamo cantate sempre, spesso in coro, senza farlo mai meccanicamente ma rivivendo momenti magici e magari riscoprendo, di volta in volta in modo più approfondito, l’importanza e il valore di quei messaggi che il computer della memoria andava puntualmente registrando e gelosamente custodendo per ridarli, nel corso degli anni, ad altri come linea di vita.
Era buono e forte nostro padre, e non solo in famiglia: oltre una medaglia d’argento al valore militare, due medaglie d’argento al valore civile già dicono del suo altruismo e generosità e la grande stima di cui godeva fra le popolazioni che cadevano sotto la sua giurisdizione era pari all’amore che gli portavano perché sapeva coniugare rigore e intransigenza morale ed affinata sensibilità che facevano di lui un uomo giusto a cui la gente guardava con fiducia e simpatia come a un amico.
Una volta, a Orune, mentre accompagnava in caserma un giovane per degli accertamenti, questi all’improvviso si diede alla fuga e lui, anziché ricorrere alla pistola d’ordinanza, sia pure a scopo intimidatorio, lo rincorse per le strade del paese finché riuscì ad agguantarlo, lasciandolo poi libero una volta chiarita la situazione. Molti anni dopo la stessa persona, trovandosi ormai mio padre in altra sede, volle che gli tenesse a battesimo il primo figlio considerando che il modo deciso e insieme non violento usato da mio padre nei suoi confronti aveva quel giorno indirizzato in un senso, piuttosto che in un altro, la sua vita.
Sui molti episodi indicativi della sua ricca umanità si apre una finestrella che, a distanza di molti anni dalla morte di mio padre, mi fa testimone di un fatto riducibile a una semplice battuta, molto significativa tuttavia, da cui si desume come questa sua sensibilità d’animo fosse nota e non facilmente dimenticabile.
Pioveva a dirotto, e vedendo un ometto avanti negli anni fermo sulla porta di un negozio, come smarrito, mi fermai per chiedergli se dovesse andare in qualche parte, e poiché era diretto in sanatorio dove aveva una figlia ricoverata, mi offrii d’accompagnarlo in macchina.
Durante il tragitto mi disse che veniva da Urzulei e, a sua volta, mi chiese chi fossi io. Aveva conosciuto bene mio padre e il suo commento fu: «non podiat essi che filla de su Marisciallu Melis!» e io mi ebbi in quella circostanza il più bel “grazie” della mia vita.
Aveva così radicato il senso della giustizia e della dignità che non gli consentivano di venire a compromessi o di transigere in alcun modo; anche qui mi soccorre un episodio che Pietro sempre ricordava con commossa ammirazione e gratitudine.
Frequentando egli, come tanti altri giovani del circondario, la III ginnasiale presso il seminario di Tortolì aperto agli esterni, accadde che un giorno, in seguito ad uno sgambetto postogli da un compagno, uno studente cadde sul pavimento provocando grande ilarità in classe. Poiché nessuno ebbe il coraggio di autodenunciarsi, l’istruttore addetto alla sorveglianza ne prese uno a caso chiamando a sé mio fratello diventato senza incertezze capro espiatorio sul quale (pensando forse di salvarlo e la propria autorità) prese a inveire umiliando l’incolpevole vittima con mortificanti richieste quali il bacio della mano con richiesta di perdono in ginocchio, e l’assistere alla fine delle lezioni nel centro del refettorio, sempre in ginocchio, al pranzo dei seminaristi.
Protestando Pietro la sua assoluta estraneità al fatto e sembrando lo stesso superiore voler convalidare la punizione, forte della sua innocenza, non solo si rifiutò di ottemperarvi ma uscì dall’istituto con tale decisione e sdegno da lasciare interdetti i suoi giudici.
Rientrato a casa con il cuore in tumulto, informò subito i genitori di quanto era accaduto e della posizione da lui assunta.
Mio padre, che non cessava di raccomandare disciplina e rispetto verso i superiori non meno dello studio, non ebbe incertezze e, giudicando del tutto negativo un tale modo di procedere della scuola, decise che il figlio non l’avrebbe più frequentata. Due giorni dopo, con un mezzo di fortuna in cima a un camion carico di farina, più simile lui stesso a uno dei tanti sacchi che a una persona, bianco di polvere, Pietro… approdava a Cagliari dove i due fratelli maggiori, Titino e Francesca, frequentavano, rispettivamente, il liceo e la scuola normale.
Una tale decisione, che comportava fra l’altro un ulteriore peso economico per la famiglia, è stata sempre da noi vista come un punto fermo, un faro al quale guardare con serena fiducia.
La sua forte limpida personalità, ligia sempre al dovere e al servizio ma aliena sempre da qualunque compromesso, costi quel che costi, risulta con grande rilievo da un episodio legato al caso del pastore Billia del quale Mario ha contribuito a tenere in me vivo il ricordo tornandoci di tempo in tempo, come si torna alla sorgente, quasi un pilastro al quale si è sforzato di ispirare la sua vita.
Billia era stato accusato di omicidio dal Maresciallo di Dorgali. Mio padre, che aveva giurisdizione sul territorio in cui era avvenuto il delitto (Urzulei), si era invece convinto della sua innocenza e della colpevolezza del servo dell’ucciso.
Fece un rapporto in tal senso e venne pertanto convocato al processo dove l’accusa lo sottopose a severe contestazioni esibendo, fra l’altro, una lettera di persona legata a Billia che lo comprometteva gravemente.
C’è da pensare che in quella circostanza nostro padre abbia avuto a soffrire per molteplici ragioni ma, seguendo la sua coscienza, servì, fino in fondo e senza esitazione alcuna, la verità e la giustizia.
Dopo aver esaminato con attenzione lo scritto dichiarò testualmente: «Questo è un falso costruito in caserma in quanto l’inchiostro con cui è stata redatta la lettera e la particolare cenere con cui è stata asciugata ci vengono dalla nostra amministrazione».
Il pastore Billia fu assolto e il servo, nel frattempo emigrato in Tunisia, in punto di morte confessò la sua responsabilità nel delitto.
Una colonna di granito, una roccia delle nostre montagne, un nuraghe magari, attorno ai quali però fioriscono le ginestre, gli asfodeli, i mirti, e intensamente profumano le essenze inconfondibili della nostra terra. Era un uomo di pace, nostro padre, ma non un rassegnato, per cui si adoperava in tutti i modi a eliminare le ragioni di contrasto, a ricomporre dissidi, a chiarire malintesi e incomprensioni allo scopo di ristabilire fra le persone l’armonia, che era l’elemento più congeniale alla sua personalità severa e umanissima insieme.
Anche in casa, se ci sentiva bisticciare, ci esortava a cantare, a non guardarci con ira e dispetto ma a sorridere e magari a ridere «perché il riso fa buon sangue»: così le nuvole si dissolvevano alla luce delle sue argomentazioni e per effetto della sua calda voce che dava inizio a un canto ad hoc cui presto noi ci univamo rasserenati e dimentichi.
In questo senso insegnava sempre, senza cattedra, e sempre efficacemente.
Così, quando nostra madre scendeva a Oliena per curare quel poco che era rimasto del suo piccolo patrimonio, almeno i tre più piccoli andavamo con lui “incontro a mamma” che era partita la mattina. Per lui era un atto di amore e di rispetto per la sua eletta Compagna, per noi un patrimonio messo su giorno per giorno nello scrigno delle nostre esperienze.
A cominciare da nostro padre, per continuare con i figli, nessuno ha mai avuto il senso degli affari e, per così dire, uno spirito commerciale, ma quando mio padre si congedò dall’Arma e la famiglia fu accolta nella casa materna, a Oliena, il problema fu arduo da affrontare perché un drappello di dieci persone (che non poteva vivere di sola frutta, di verdura e di qualche pezza di formaggio) si trovò da un giorno all’altro senza stipendio; d’altra parte, la liquidazione della pensione si faceva attendere allora addirittura per anni.
Pensarono allora di darsi, per qualche tempo, al commercio. La casa fu presto invasa da una grande quantità di grano che mio padre pesava su una grande bilancia sospesa a un grosso bastone retta alle estremità dalle rispettive spalle di Titino e di Pietro (1° anno di università il primo, liceale il secondo).
Per noi bambini fu quella un’estate meravigliosa perché facevamo grandi tuffi nel grano ammucchiato e salti acrobatici da un sacco all’altro; non altrettanto, credo, per i fratelli maggiori sottoposti a un duro sacrificio anche se gratificati dalla consapevolezza di fare una cosa importante.
La faccenda consentì alla famiglia di avere un po’ di respiro per qualche mese ma, per quel che ne ho sentito poi, fu provvidenziale che finisse presto, prima cioè che si verificasse un fallimento della iniziativa con relative conseguenze economiche, perché mio padre, nel peso, non era mai molto preciso e puntualmente favoriva il cliente!
Ed ecco staccarsi dal mosaico delle memorie un altro episodio, antico di quasi un secolo, fresco tuttavia e attuale come la prima volta in cui ebbi a conoscerlo, molti anni fa.
Si era nell’agosto del 1901 e la Chiesa di Nuoro si accingeva ad innalzare in cima all’Ortobene la bella statua del Redentore che ancora oggi si protende quasi aerea sulla città in atto di benedirla.
Mio padre, giovane brigadiere in servizio ad Orune e già fidanzato con mia madre, decise di partecipare ad un avvenimento così particolare insieme alla fidanzata e ai familiari. Poiché il superiore che avrebbe dovuto dargli il permesso non fu reperibile nella sua sede, ci andò ugualmente sperando che la cosa andasse liscia.
Così invece non fu e, come purtroppo capita ancora oggi in occasione di feste paesane quando qualcuno alza il gomito più del dovuto, fra tanta gente accorsa da tutto il circondario ci furono due che vennero alle mani; scoppiò una rissa, e la lama di un coltello balenò al sole.
Mio padre era in borghese e facilmente avrebbe potuto filarsela senza conseguenze, ma tale non era la sua natura per cui non solo intervenne per sedare la rissa, che andava pericolosamente allargandosi, ma fece il verbale di quanto era accaduto pur sapendo che a pagarne le conseguenze sarebbe stato proprio lui.
Questo atto di indisciplina, l’essersi cioè allontanato senza permesso (non importa se proprio la sua presenza valse forse ad evitare una violenza irreparabile), gli costò assai caro poiché gli ritardò di tanto il passaggio ad ufficiale (cui il titolo di studio gli dava diritto) che quando esso arrivò dovette rinunciarvi in quanto avrebbe dovuto ricominciare ex novo la carriera con fortissima riduzione dello stipendio; lusso che non poteva permettersi poiché i suoi sette? otto?… passeri mangiavano «altro che bacche di cipresso».
Sempre procedendo per piccole tessere di ricordi, mi torna alla mente un altro episodio (apparentemente di poco conto) rimasto vivo nella memoria sia per la divertita reazione che nell’immediato provocò in noi figli, sia, e soprattutto, per le riflessioni che sono andate maturando nel tempo, contribuendo a mettere sempre più in luce la ricca personalità di nostro padre.
Una mattina, mentre si trovava nel soggiorno intorno a mettere ordine nella modestissima amministrazione della “Associazione Carabinieri in congedo” di cui era presidente, fu fatto entrare nella stanza un giovane cliente di mio fratello, in attesa di essere fatto passare nello studio.
A un certo punto mio padre, dovendo uscire dalla stanza, ebbe a trovarsi in grande imbarazzo: per un verso non si sentiva di lasciare sul tavolo soldi non suoi col rischio anche di mettere in tentazione il giovane sconosciuto, dall’altro non voleva ritirare i soldi timoroso di ferire in qualche modo la persona che gli stava davanti che aveva diritto al suo rispetto, qualunque ne fosse la reale figura morale. Pensò allora di scrivere un biglietto a nostra madre che si trovava in cucina, a qualche metro da lui, iniziando la missiva, in cui le spiegava la situazione pregandola di entrare a intrattenere il giovane, con un «Mia adorata Michelina» e concludendola con «Un forte abbraccio tuo Peppino».
Ridemmo come matti al momento e ancora oggi il ricordo della affettuosa richiesta di soccorso, spedita a poche… pianelle di distanza, continua a divertirci, ma allo stesso tempo sempre ci commuove e ci lascia ammirati questo calore e candore di sentimenti che sanno dare a dilemmi di per sé inconciliabili, soluzioni capaci di risolvere opposte esigenze senza sacrificare l’umanità sull’altare della personale convenienza.
Maestro e educatore sempre, anche nei piccoli fatti della quotidianità.
Per cinque-sei anni fu coraggioso e illuminato amministratore del Comune di Baunei: negli anni ’20 dotò il paese di acquedotto, impostò le pratiche per la illuminazione elettrica e favorì l’appoderamento delle terre comunali studiandone la suddivisione fra i cittadini per consentire le trasformazioni agrarie che la proprietà collettiva non era in grado di realizzare.
Per aiutare i pastori attivò, con le misere finanze comunali, la ricerca dell’acqua nelle impervie montagne di Baunei e fece costruire grandi vasche per l’abbeverata delle greggi armando, come poteva, il territorio rimasto immutato dal tempo dei nuraghi.
Quando Titino, dopo “San Vittore” e il domicilio coatto a Baunei, fu finalmente libero di spostarsi per dare inizio alla sua professione, fra Cagliari e Nuoro scelse Nuoro dove fu accolto nello studio degli avvocati Mastino e Puligheddu, professionisti insigni oltreché notissimi antifascisti e, una volta raggiunta una certa indipendenza economica, chiamò subito a sé la famiglia.
Abituato ad una vita attiva e a rapporti sociali molto intensi nostro padre rimase in un primo momento piuttosto spaesato nella nuova sede, quasi da sentirsi ammalato.
Ben presto però incontrò alcuni colleghi, anche essi in pensione, e insieme costituirono l’ “Associazione Carabinieri in congedo”, ma, soprattutto, si mise a completa disposizione della povera gente che avesse bisogno in qualche modo di aiuto per le pratiche più varie, considerando tale servizio un dovere – volontariato ante litteram!
Gli ultimi anni della sua vita furono contristati da un grave provvedimento escogitato da qualche gerarca locale, che non potendo colpire direttamente Titino, in quanto libero professionista, scaricò sul fratello Pasquale la propria protervia.
Questi, per il fatto di aver frequentato la scuola pubblica, doveva necessariamente appartenere ad una delle associazioni giovanili (… balilla, avanguardista, giovane fascista, giovane universitario…) cui si passava, secondo l’età, d’ufficio.
Una volta laureato (1936) però Pasquale si trovò inaspettatamente a non poter partecipare al concorso per la magistratura, professione cui si sentiva particolarmente portato, né poté essere assunto all’INPS, dove era stato convocato perché disponibile un posto di funzionario; ciò col pretesto che non risultava iscritto al PNF.
Nella stessa situazione si trovavano numerosi amici e compagni di scuola per i quali fu senza alcuna difficoltà sanata la situazione; non così per lui che inutilmente protestò ?? adducendo le motivazioni del caso.
Dovette attendere tre, quattro anni, al limite dell’esaurimento nervoso e di un comprensibile quanto pericoloso avvilimento finché un segretario federale di nuova nomina, vedendo sul suo tavolo, fra molte carte, il ricorso di questo giovane, datato da anni e ancora inevaso, ebbe a chiedere informazioni.
Avendo avuto come risposta che era persona perbene ma fratello di antifascista irriducibile, decise di porre fine a una situazione quanto mai anomala dandogli la tessera.
La giustizia non ha scadenze irrevocabili e giunge un tempo in cui la verità, il merito, quello che è giusto si fa strada, malgrado tutto, e si afferma.
Appena in tempo perché nostro padre vedesse la fine di una così iniqua situazione.
Passava la sera del 5 maggio 1940 davanti alla caserma “principale” dei Carabinieri, che sorgeva nella piazzetta Sen. Chironi, quando il piantone di turno vedendo un anziano signore improvvisamente vacillare gli corse incontro e, sostenendolo saldamente tra le braccia, gli impedì di rovinare a terra.
Nostro padre era morto.
E proprio a questo tristissimo giorno risale un ultimo toccante ricordo legato a un episodio inedito.
Sembrava dormire sereno sul suo letto di morte e nostra madre con voce sommessa ci parlava di lui; così venimmo a conoscenza di un umanissimo gesto col quale mi è caro chiudere questa rievocazione.
Ci disse una volta che in Calabria, trovandosi nella necessità di arrestare un individuo, si rese conto della indicibile povertà in cui versava la famigliola del detenuto – moglie e figlioletto.
Comprendendo che, privati del suo sostegno, essi sarebbero stati esposti alla fame, con molta semplicità il “Maresciallo” provvide al loro sostentamento accogliendoli alla sua tavola per il tempo in cui durò la detenzione; credo alcune settimane.
Il suo spirito ci parlava ancora attraverso questo episodio di sapore squisitamente evangelico: messaggio estremo in cui venivano a compendiarsi tutti gli altri valori.
Come sempre continuava ad indicare a noi figli, nel concreto, la Strada Maestra.
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Elena Melis : «Quella mattina a Baunei»
Era la primavera del 1928 ed io, sesta della serie, frequentavo come “auditrice” la V elementare in attesa di essere chiamata a Cagliari da mio fratello Pietro per essere preparata in privato ad affrontare gli esami di licenza del ginnasio inferiore, come già era accaduto col fratello di me più grande e come sarebbe successivamente avvenuto con i due fratelli più giovani.
Indubbie difficoltà, ma anche scuola primaria ineguagliabile di splendida solidarietà delle famiglie numerose!
Nella sessione autunnale dell’anno precedente, a 23 anni, si era laureato in leggi, a Milano, il primogenito Giovanni Battista, Giobatta per gli amici, Titino per i familiari, il quale dopo aver ottemperato al servizio militare a Padova, per una esigenza di maggiori aperture e di più vaste esperienze culturali e politiche a contatto con un contesto europeo, si era trasferito da Cagliari nella capitale lombarda dove si manteneva agli studi facendo l’istitutore presso il collegio “Longone” di cui era direttore Fernando Saragat di Sanluri.
A metà aprile, credo, mentre Titino trascorreva in famiglia un periodo di riposo, accadde che una mattina, piuttosto per tempo, due signori bussarono alla porta di casa chiedendo di lui. Mia madre, poiché avevano un accento continentale, pensò fossero due amici milanesi, li accolse premurosamente e, in attesa che Titino finisse di prepararsi, chiese loro se avrebbero gradito un caffè. Grande però fu il suo sconcerto quando i due strani ospiti, senza por tempo in mezzo, imboccarono la scala che portava al piano superiore dove erano le camere da letto, esclamando: «non occorre che faccia tanta toeletta!». Frugarono dappertutto senza trovare nulla che in qualche modo potesse interessare la pubblica sicurezza e i due se ne andarono lasciando interdetta la famiglia.
A questo specifico episodio è legato un ricordo, ancora vivissimo, come del resto tutto ciò che accadde nei mesi successivi.
Mia madre, mentre i due agenti si trovavano nella stanza di mio fratello, intuendo un pericolo di cui era del tutto ignara, in un istintivo gesto di difesa aprì il primo cassetto del comò della sua camera, (dove erano custoditi documenti di nessun conto insieme ad alcune lettere dei figli lontani) e, guardandomi con una espressione seria e come smarrita senza dirmi niente, infilò tutto nella cartella che già tenevo a tracolla per andare a scuola.
Lungo strada non corsi come al solito, né mi attardai a giocare al rientro ma, come investita di una responsabilità di cui nulla potevo capire, tenni gelosamente stretta a me la borsa per tutta la mattina, senza lasciarla un solo istante.
Come una nuvola che si fosse fermata per un momento nel terso cielo familiare, essa fu spazzata via e, con rinnovata fiducia nella giustizia, tornarono a levarsi i cori armoniosi e bellissimi dei fratelli maggiori, che sono sempre stati una caratteristica della vita familiare.
Ma la nuvola covava un temporale e preludeva una tempesta che, dopo breve tempo, si abbatté improvvisa e terribile sulla casa. Anche qui mi soccorre un ricordo preciso che percepisco come sensazione dolorosa, quasi intollerabile.
Nel cuore della notte fui svegliata da una insolita animazione della casa su cui dominava il rombo di un motore che a tratti scattava, taceva, per poi riprendere rabbioso e ostinato.
Ancora insonnolita, scesi al piano sottostante dove vidi alcuni carabinieri, i miei genitori, Titino, le sorelle con gli occhi arrossati, mentre qualcuno fuori si affannava a far andar il motore di una macchina che solo dopo reiterati tentativi e dopo aver lacerato ripetutamente il silenzio della notte e la quiete del piccolo paese, finalmente fu avviato.
Qualcuno mi ricondusse a letto e solo la mattina mi resi conto che doveva essere accaduto qualcosa di molto grave. Non c’era più Titino né i genitori e la casa sembrava avvolta da un’ombra dolorosa dove più non si cantava, non si rideva e persino la luce intensa era discretamente tenuta fuori, e le persone amiche apparivano tristi anch’esse, come se tutti fossero increduli e avessero bisogno di essere confortati, non solo i familiari.
In quella notte senza fine era accaduto qualcosa di imprevedibile, che si era abbattuto sulla famiglia come la folgore che schianta: era stato arrestato il primogenito, orgoglio e speranza dei genitori ai quali, per la fiducia e la considerazione di cui godeva nostro padre, ad evitare che il figlio venisse portato via in manette alla luce del giorno, esposto alla curiosità e agli interrogativi dei paesani, era stato consentito di noleggiare una macchina privata – fatta venire da Dorgali – con la quale, ormai sul far dell’alba, erano partiti, tutti insieme, per Nuoro.
Il vuoto terribile apertosi improvvisamente nella famiglia, da quanto mi pareva di percepire, avrebbe dovuto essere solo momentaneo e tutti attendevano con impazienza il pullman del giorno successivo col quale, si era certi, chiarito l’equivoco presso la Questura di Nuoro, sarebbero rientrati tutti e tre.
Ma quando l’autobus giunse sul far della sera, a noi che attendevamo con fiduciosa speranza il ritorno dei genitori e del fratello, più implacabile di una sentenza, apparve dietro il vetro solo il volto doloroso di una madre come devastato da una pena la cui origine appariva tanto ingiusta quanto incomprensibile.
Mentre Titino veniva tradotto a Milano e rinchiuso nel carcere di “San Vittore”, nostro padre insieme al padre di Flavio Batzella, compagno di studi e amico carissimo di Titino, arrestato a sua volta e nello stesso giorno, a Milano, erano partiti per Roma sperando di conoscere, almeno lì, le ragioni di un così grave provvedimento e magari tornare indietro con i figli.
Giorno dopo giorno e per ore infinite, nella più affettuosa solidarietà e comprensione della gente, ivi compresi i carabinieri della locale stazione che più di una volta, coinvolti nel nostro dolore, piansero con noi, vivemmo un periodo di intensa passione e di buio impenetrabile poiché non si sapeva di che cosa nostro fratello fosse stato accusato, e il Tribunale Speciale incuteva terrore perché era al di fuori della legge e della giustizia.
Quanto tempo passò? Circa due mesi, credo, ma nel ricordo è rimasto un tempo senza fine che lasciò tracce profonde in ciascuno dei componenti il nucleo famigliare, rubando ai piccoli la spensieratezza dell’età e mettendo tutti, amici e conoscenti compresi, da un momento all’altro, davanti ad una realtà politica di cui molti non avevano ancora avuto chiara percezione.
Ma ecco giungere un giorno, inaspettato e pur tanto atteso, un telegramma spedito da Milano a firma «Titino Flavio» che, come lo squillo delle campane a Pasqua, annunziava: «… e quindi uscimmo a rivedere le stelle!» e il sole tornò ad irrompere nella casa, attraverso le finestre spalancate.
Come liberati da un incubo, tutti ci lasciammo andare ad una grande gioia fra il generale compiacimento di quanti avevano seguito con sincera partecipazione la nostra vicenda; ma l’altalenare della luce e del buio, della speranza e dello sconforto non erano finiti e, alla prima euforia, seguirono lunghi mesi avvolti in una sorta di nebbia che non lasciava distinguere i contorni del paesaggio e la linea dell’orizzonte perché a Titino, pur essendo stata riconosciuta priva di ogni fondamento l’accusa di aver preso parte all’attentato verificatosi il 12 aprile del 1928 a Milano (in occasione della visita del re per l’inaugurazione della fiera Campionaria), non fu consentito di spostarsi da Baunei, doveva rispettare orari, sottoporsi a controlli e non accompagnarsi ad estranei in quanto, a giudizio della polizia politica, era «elemento pericoloso all’ordine nazionale dello Stato».
Credo non sia difficile immaginare che cosa siano stati quei lunghi interminabili mesi, e giorni, e ore, per la sua natura appassionata e fervida i cui orizzonti si erano ulteriormente allargati e arricchiti a Milano, a contatto con un eccezionale cenacolo culturale e politico di giovani intellettuali che pagando con l’esilio, col carcere, con pesanti limitazioni di varia natura, avrebbero tenuta accesa la fiaccola della libertà durante il ventennio fascista.
Prigioniero ancora una volta, costretto a vivere in un paesino isolato, senza possibilità di incontri, di contatti, di scambi culturali, di prospettive, in un ozio forzato che mortificava ideali, energie, speranze, entusiasmo, esigenza di impegnarsi in varie direzioni, di lavorare subito, come aveva desiderato e come la situazione familiare avrebbe richiesto.
Una volta esaurita anche questa difficile pagina del soggiorno obbligato, lasciò il paese per Nuoro dove fu accolto nello studio di due grandi avvocati, altrettanto noti per il loto antifascismo: Pietro Mastino e Sebastiano Puligheddu ed entrò in campo con tutte le sue energie integre, con tutto l’entusiasmo, la fede, la passione e la tenacia di cui può essere capace una creatura intelligente generosa e libera, impegnandosi con slancio e riconosciuta capacità nella professione, collaborando e donandosi con autentica abnegazione, ma come fatto naturale e scontato, alla crescita dei fratelli più giovani, spendendosi via via con lo stesso amore, e fino all’ultimo respiro, per la sua Sardegna che amò veramente sopra ogni cosa.
La vita lo gratificò in ambito familiare con i fratelli a cui col suo rigore morale e la sua coerenza di vita fu “maestro e guida”, in campo professionale dove si distinse come ottimo umanissimo avvocato, nella vita politica in cui ebbe alti riconoscimenti, ma non gli risparmiò gravi dolori come la morte dell’unico adorato figlio la cui piccola bara (mi sembra importante dirlo perché indicativo non solo della grande amicizia che li legava tutti a mio fratello ma anche del meraviglioso ordito su cui era tessuto l’antifascismo nuorese) era stata portata a braccia da Pietro Mastino, Luigi Oggiano, Salvatore Mannironi, Filippo Satta-Galfrè, e in quella politica, dove non gli mancarono angustie, delusioni e grandi amarezze come accade a chi vive intensamente e senza riserve la fede degli ideali.
Dopo elezioni andate male, si sentiva distrutto dal di dentro. Per darne la misura, riporto integralmente lo stralcio di una lettera emblematica e toccante, indirizzata a me in un momento di grande scoramento legato proprio alla situazione politica: «… se n’è andato il mio sogno di padre, è naufragata la mia passione politica, anche il vino di Oliena vivrà senza di me, rimane ancora qualcosa: un modesto avvocato e un uomo di cattiva educazione, di personalità presuntuosa e difficile. Ma una volta, nella nostra casa sull’Ortobene io con te e con Ottavia ci voglio stare. A guardar i nostri sogni dall’alto: sempre più in alto di noi».
C’è tutto lui con i suoi profondi sentimenti, la sua sofferenza, e la cocente amarezza dovuta a tanti fattori: la scarsa percezione della generalità a cogliere nelle istanze sardiste il vero interesse del popolo sardo e l’importanza del momento storico che si stava vivendo; la “chiusura” dei vari partiti nazionali operanti nell’Isola a voler dare ai loro programmi una connotazione “sardista”, così da costituire una forza unitaria autorevole ed efficace, sulla linea dei problemi da prospettare e delle rivendicazioni da fare, capace di suscitare attenzione e volontà operativa nel governo centrale a Roma, distante anni luce dalla nostra secolare drammatica realtà, le enormi difficoltà di un glorioso ma piccolo partito quale il PSd’Az., privo di mezzi economici e di apparati, al centro di una lotta ingenerosa e impari, aggredito dal Centro, dalla Sinistra, dalla Destra e persino dalla Chiesa… Da tutto ciò un senso di impotenza, uno struggente bisogno di “demolirsi” e insieme quel suo volersi rifugiare nei “sogni”, che poi sono i suoi irrinunciabili ideali politici così difficili da raggiungere, ma, per lui, ragione stessa di vita… ma ogni volta, considerando un dovere la speranza, risorgeva dalle sue stesse ceneri e riprendeva con rinnovato impeto la lotta, e la sua voce che ricominciava a parlare di Sardegna, dei suoi annosi insoluti problemi, della sua sete di riscatto e di rinascita era familiare a tutti e sempre ascoltata con attenzione, interesse e simpatia.
Ogni volta che ritorno col pensiero all’immediato dopoguerra, risento dentro di me la stessa sensazione: come una primavera dello spirito lungamente sognata ed improvvisamente esplosa in tutto simile a quelle primavere sarde che da un momento all’altro fanno vibrare di luce abbagliante i fianchi delle montagne col caldo sole e il giallo delle ginestre addolcendo graniti e lecci, e imbiancano di leziose pratoline i margini delle strade e accendono con i rossi papaveri incredibili distese di prati erbosi – e non perché la memoria ha cancellato la lunga dolorosa notte della guerra, le angosce spesso trasformate in lutti, di fratelli, di padri, di figli disseminati nei vari fronti dell’immane conflitto, o le città devastate, comunità intere distrutte e popolazioni incolpevoli travolte dalla furia bestiale di bombardamenti: le mille difficoltà di ogni giorno, la mancanza di tutto, la fame di molti, il miserando toccante spettacolo del soldato che bussava alla porta e con la testa bassa, senza nulla chiedere, attendeva che tu gli dessi un pezzo del tuo poco pane. Ché , anzi, da tutto ciò pareva nascesse la primavera di cui parlo, dalla sofferenza, dal sacrificio, dal dolore di milioni di persone che in tutto il mondo avevano reso possibile che dalla morte stessa nascesse la speranza, dalle tenebrose barbarie, quasi come un miracolo, emergessero valori positivi universali capaci di dare nuovo senso alla vita e un significato alla morte di quanti quelle vite avevano contribuito a rendere possibile.
Era il tempo in cui ognuno cominciava a percepire il senso della libertà, i partiti iniziavano a prendere corpo attorno a piccoli nuclei di noti antifascisti e i giovani, per la prima volta, si affacciavano ad una stagione sconosciuta ed appassionante di una esperienza che avrebbe inciso più o meno profondamente sulla loro vita a seconda della sensibilità, della cultura, della apertura mentale. Naturalmente io ho vissuto con particolare intensità questo momento magico.
Assai popolare nell’Isola, dove conosceva tutti per generazioni e tutti lo conoscevano e gli volevano bene andando sempre al fondo del suo carattere impulsivo, non sempre facile quindi e magari scomodo, ma sempre sincero, generoso e amico, era però conosciutissimo anche a Montecitorio dai deputati di tutte le parti politiche, come ebbi a constatare di persona durante un viaggio in treno per il nord Italia, allorché l’on. Lelio Basso (il cui nome mi era rimasto nella memoria fin dall’adolescenza legato al periodo milanese insieme a quelli di Bauer, Paggi, La Malfa, Gobetti, Gramsci…), incuriosito dalla mia grande somiglianza con mio fratello, si avvicinò interpellandomi e, in un momento, i numerosi deputati che si trovavano nel vagone vennero a salutarci e ci fecero festa esprimendo simpatia e molto apprezzamento per il “solitario” deputato sardista che con le sue severe coraggiose denunce nei confronti del potere centrale, riusciva a “riscaldare” il clima troppo spesso freddo e distratto dell’aula di Montecitorio tenendo al loro posto moltissimi colleghi che si fermavano ad ascoltarlo affascinati e conquistati dalle appassionate argomentazioni che, con amore di figlio e intransigenza di giudice, chiedevano attenzione, dignità, giustizia per il popolo sardo e per quanti, in Italia e nel mondo, si trovavano a vivere, “umiliati e offesi”, in condizioni di subalternità.
Un altro ricordo legato alla diffusa popolarità che mio fratello aveva fra la gente, risale agli anni ’50 ed è collegato ad un mio viaggio in Svizzera.
Mi trovavo con degli amici davanti allo spettacolo delle cascate di Sciaffusa quando la mia attenzione cadde su un gruppo di giovani, poco distanti da noi, che guardava insistentemente dalla nostra parte e ammiccava quasi a riconoscere una persona nota; uno si staccò dagli altri, si avvicinò a me e mi chiese se non fossi sorella di Titino Melis. Avutane risposta affermativa, alzò le braccia in segno di giubilo e tutti mi si affollarono intorno a salutare in me, più che un amico, il simbolo stesso della piccola patria dolorosamente lontana ma profondamente viva in ciascuno di loro. Erano un gruppo di giovani emigrati di Tresnuraghes.
Sempre fuori della Sardegna (nell’Isola infatti questo accadeva ad ogni pie’ sospinto e ancora accade), trovandomi alla stazione di Venezia, un signore che aveva preso a guardarmi con insistenza, si avvicinò e mi chiese se non fossi sorella di Giobatta. Era un certo dott. Scano; sposatosi e trasferitosi nel Veneto, che aveva però sempre l’Isola nel cuore e aveva in Titino un punto di riferimento non solo per il passato – aveva fatto a sua volta parte della Giovane Sardegna – ma per quello che rappresentava al momento.
Fra le molte tessere della vita politica di mio fratello ho scelto di soffermarmi in modo particolare su quella che mi riporta più lontano nel tempo, non solo perché mi ha segnato fortemente, ma perché è tappa importante di una lunga fervida militanza politica durate cinquantacinque anni (1921-1976) sempre sulla stessa linea, con la stessa tensione morale, con la mente e col cuore rivolti allo stesso obiettivo.
Tutto ciò è ampiamente comprovato dallo straordinario ricordo che ha lasciato di sé nella gente, dalle persone culturalmente più preparate a quelle più umili, perché il suo linguaggio e il suo cuore arrivavano a tutti, ed è altresì efficacemente documentato in varie relazioni, in diversi convegni, nei numerosi importanti discorsi tenuti in Parlamento, nei Consigli regionale e comunale (Cagliari) nei quali denuncia e affronta instancabilmente, e fino all’ultimo, i problemi più disparati e le situazioni più dolenti della Sardegna, denunce che – i valori del Sardismo sono universali – non si chiudono nell’Isola ma, partendo dall’Isola, abbracciano il meridione d’Italia, si allargano all’Europa e ovunque imperino centralismo, soggezione, sottosviluppo, ingiustizia…
Non so se il mio amore di sorella, pietra di un solido nuraghe cui, con felice significativa immagine, è stata paragaonata la famiglia per la naturale forte coesione che ne lega fra loro i membri anche in fatto di “sardità”, possa in qualche modo aver preso la mano non ai fatti, ma al sentimento.
Credo di no.
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Elena Melis: «Titino frade caru»
Un ricordo legato alla memoria di Lussu risale alla mia infanzia, e si situa ad Oliena, allorché la famiglia si riuniva durante le vacanze estive. I tre fratelli più grandi giungevano da Cagliari a conclusione dell’anno scolastico, gli altri da Tortolì dove la malaria, specie d’estate, diventava un nemico implacabile.
Nella parte più interna della casa materna vi era un grande magazzeno nel quale, di tempo in tempo, il piccolo drappello di fratelli – otto per la cronaca – si riuniva sotto la direzione del maggiore di essi, Giovanni Battista, per gridare con grande trasporto e fervore: «Viva Emilio Lussu – Viva il Partito Sardo d’Azione», «Viva la Sardegna», alternandoli al fatidico grido di «Forza Paris! ». Poteva sembrare un gioco e si dimostrò una vera scuola che non mancò di influire profondamente nella vita di ciascuno di quei ragazzi.
E’ un ricordo quasi magico che mi è molto caro e che ho serbato gelosamente nella memoria.
A cominciare da allora si andò delineando in me l’idea di un eroe straordinario, mitico, che cresceva con me e che spaziava più alto di tutti gli eroi che mi era dato di incontrare sui libri cosicché, quando finita la guerra si diffuse la notizia che Lussu era rientrato in Italia e sarebbe venuto in Sardegna, ne fui quasi sconvolta perché, nonostante sapessi di lui ciò che si poteva sapere, mi pareva impossibile che egli potesse scendere dell’Olimpo per mescolarsi ai mortali e che io avrei potuto vederlo.
Ritengo che questo stato d’animo sia stato comune a molti giovani della mia generazione.
Gli avvenimenti successivi – la lunga speranza delusa, tante prospettive di unità di popolo dolorosamente cadute – hanno fatto sì che la figura di Lussu si facesse per me più complessa, contraddittoria, e di quasi impenetrabile lettura.
Un altro ricordo, anch’esso remoto relativo a Lussu, riguarda la madre. Ho sempre saputo del grande amore e quindi del grande tormento del figlio fuoriuscito, nei confronti della donna a cui era stato sottratto l’unico figlio, costringendolo all’espatrio e sulla quale il regime infieriva crudelmente circondandola di amara solitudine e di silenzio.
In questa situazione mio fratello Titino, per alleviare in qualche modo la solitudine della madre e confortare il figlio, chiese ad una nostra cugina di Monserrato. Angelina Marini, che si era appena diplomata, di scegliere come sede di insegnamento Armungia, proprio per poter avvicinare la donna, darle il sostegno di una compagnia amica, e farle sentire che né lei né il figlio erano soli. Purtroppo la cosa non durò molto perché i gerarchi del capoluogo, informati delle visite della giovane maestra, la diffidarono costringendola al trasferimento.
L’angoscia di Lussu nei confronti della situazione materna arrivò a tal punto di intollerabilità che un giorno, dopo aver acquistato un bellissimo mazzo di fiori, si recò in un cimitero di Parigi e lo depose davanti alla tomba di una sconosciuta quasi a sottrarre, con un emblematico disperato gesto d’amore, la propria madre alla morte civile cui il regime l’aveva condannata, liberi finalmente – madre e figlio – d’incontrarsi senza più intermediari né ambasce.
Certo, il Lussu conosciuto più direttamente dalla mia generazione è quello del dopoguerra; il cavaliere dell’ideale che nel fango delle trincee, negli aridi altopiani del Carso era stato l’ “iniziatore” di una coscienza di popolo per i contadini, i pastori, gli artigiani di Sardegna, sarebbe tornato nell’isola a continuare la sua battaglia, questa volta con le armi della democrazia, con la forza della giustizia che doveva spezzare la soggezione, la sudditanza intollerabile della Sardegna verso lo Stato italiano. L’impazienza era pari alla lunga attesa ma Lussu, pur rientrato in Italia, non era volato subito in Sardegna come tutti speravano e si aspettavano; si fermò a Roma ponendo ai compagni di partito come anche alla gente comune, interrogativi le cui risposte non appagavano nessuno.
E fu questo un primo punto di perplessità. Così pure, allorché l’on. De Gasperi propose al governo italiano la celebrazione di una messa di ringraziamento per la fine della guerra e tutti i partiti, compreso il Partito Comunista Italiano, per bocca del suo massimo esponente, Togliatti, aderirono senza riserve, egli solo si oppose sia pure per la preoccupazione, più volte manifestata anche con scritti, che un atteggiamento “clericale” dello Stato potesse scatenare nel Paese un anticlericalismo pedante e deteriore (Asino di Podrecca) finì per essere, sì, coerente con se stesso, ma non tenne conto, come sarebbe stato giusto, dello spirito religioso dei Sardi scatenando contro il PSd’Az. da una parte della gerarchia ecclesiastica per un verso, e della DC (particolarmente interessata) per l’altro, una accanita quanto ingenerosa e ipocrita campagna strumentale e denigratoria contra Deus che costò sofferenza a chi veniva allontanato dai sacramenti, tempo, fatica, energie preziose a coloro che nelle piazze dovevano dedicare gran parte dei loro comizi a dimostrare, a difendere, a esaltare la sua figura più che a diffondere capillarmente le ragioni di essere del Partito Sardo.
Ma finalmente giunse anche il momento tanto atteso: Lussu stava per fare ritorno nell’Isola e la Sardegna tutta sembrava ardere dello stesso fuoco, anche quelli che sardisti non erano. Ricordo bene quel giorno a Nuoro: nella sala della Camera di Commercio gremita all’inverosimile, in una atmosfera incandescente di passione e di fede, rallegrata dai fiori raccolti in tutti gli orti di Nuoro, potevamo vedere da vicino il nostro eroe, stringergli la mano, ascoltarlo parlare, riconoscerci in lui. Così come ricordo il comizio da lui tenuto il pomeriggio dello stesso giorno in piazza San Giovanni davanti ad una folla strabocchevole: appariva un altro: un uomo che veniva da lontano, uno che aveva vissuto un tempo infinito fuori dall’Isola, che aveva conosciuto straordinarie esperienze nelle più diverse realtà di cui la Sardegna era una delle tante.
Ci parlò del mondo, dell’Europa, dell’Italia per approdare infine in Sardegna, mentre ci aspettavano che, fatto ricco di tante preziose esperienze, partisse dall’Isola, dalla dolorosa realtà in cui era maturata la sua militanza politica di fondatore del PSd’Az., che non era mutata da allora, e questo non per chiudersi, e chiuderci entro i confini dell’Isola, ma per aprirci all’Europa e al Mondo.
Lussu non trovò un Partito Sardo separatista: il programma era lo stesso che, a suo tempo, aveva tracciato nelle sue linee essenziali Bellieni, con la partecipazione dello stesso Lussu, Pilia e tanti altri: una Sardegna liberata dalla soggezione e dalla subalternità dello Stato italiano, autonoma nel senso più pieno del termine e, in prospettiva, federalista.
Non c’è dubbio che l’aria, il clima che si sono sempre determinati nei congressi del Partito Sardo sono del tutto particolari per quel profondo viscerale sentimento che lega il figlio alla madre e che tanto più si fa forte e appassionato quanto più la madre appare umiliata e offesa. Non è difficile allora immaginare che cosa furono i congressi di Oristano prima e, successivamente, di Cagliari, che portò alla scissione, ma ritengo che possa pienamente capirlo solo chi li ha direttamente vissuti e sofferti.
In quei congressi ci furono lacrime, dolore, angoscia, stupore, costernazione e sgomento proprio come accade per una disgrazia familiare. Per darne la misura citerò, fra i molti, due esempi di cui ho più diretta conoscenza.
Marianna Bussalay, antifascista intrepida, esempio straordinario di dirittura morale, personalità ricca e generosa attorno alla quale si sono formate generazioni di giovani. Cresciuta nel culto di Lussu e nell’ardente amore per la Sardegna, accingendosi a votare contro la mozione di Lussu, venne meno, ma riprendendo i sensi votò decisamente contro esclamando: «Prima la piccola Patria, poi l’uomo».
Titino Melis. Cresciuto e formatosi nella ideologia sardista (a diciassette anni era segretario della sezione giovanile di Cagliari), profondamente e filialmente legato a Lussu, di cui aveva seguito ogni passo: dall’aggressione di piazza Martiri al confino a Lipari, all’avventurosa fuga, alla malattia, al soggiorno all’estero sempre in contatto con chi poteva dare e portare notizie, per quanto possibile in tempi di estrema chiusura e sospetto.
Al rientro di Lussu in Sardegna non esitò un istante a ubbidirgli quando egli decise che la direzione del Solco doveva essere portata a Cagliari e che Titino doveva trasferirsi in quella città. La cosa non era affatto semplice perché Nuoro era la sua città di elezione, perché vi risiedeva la famiglia, perché vi era professionista affermato.
Partì per Cagliari quasi da un giorno all’altro, con la disciplina di un coscritto e con la piena disponibilità di un uomo di fede iniziando ex novo la sua attività professionale di avvocato e, poiché non disponeva di rendite e doveva mantenersi, per diversi mesi visse giorno per giorno dormendo la notte in una brandina sistemata alla meglio in una stanza della sezione del Partito, ospitata allora negli scantinati della ex Legione dei carabinieri in corso Vittorio Emanuele.
Tutto ciò, naturalmente, è facile da raccontare ma è stato assai difficile e pesante viverlo e serve oggi solo a dare la misura di quale sia stata la stima, la devozione di Titino Melis nei confronti di Lussu.
Allo stesso modo, però, e con la stessa determinazione gli disse di no quando Lussu sembrò voler “diluire” il valore, il significato, la ragione stessa di essere del Partito Sardo, in un partito nazionale. Così pure rispose ancora una volta no alla autorevole esortazione-rimprovero che Lussu gli aveva rivolto: «Che cosa hai a che fare tu con questi borghesi?», e ciò per restare fedele alla causa sardista di sempre.
Ma Lussu, per l’esperienza maturata, per il lungo esilio sofferto, per la fortissima personalità che lo faceva leader, ritenne di avere il diritto e la forza morale di imporre il suo punto di vista, quasi Padre-padrone. Nel memorabile congresso di Cagliari – come il Pater familias della tradizione – avrebbe voluto che il PSd’Az. confluisse nel Partito Italiano d’Azione, in una prima fase e, entrato questo in crisi, attraverso una ulteriore fase di passaggio, nel PSI.
Con forte indignazione, quasi con stupore, vide il Partito e la quasi totalità dei dirigenti resistergli e si sentì come tradito dalla sua stessa famiglia. E il Partito, a sua volta, si sentì lacerato nelle sue carni, ma pur con infinita sofferenza gli resistette e andò avanti per la sua strada e lungo il solco che lui stesso aveva contribuito ad aprire un tempo, ma che ora non riconosceva perché gli pareva piccola cosa, limitata e provinciale, di fronte alle autostrade del mondo.
Quante volte ho pensato che cosa sarebbe stata la Sardegna, quali traguardi avrebbe potuto raggiungere se il Capo riconosciuto e amato avesse ripreso la sua battaglia dal punto in cui la violenza fascista si era abbattuta sul paese e su uomini generosi e impavidi come lui.
Quella scissione infatti non fu solo una jattura per il Partito Sardo, non lo fu solo per Lussu che passerà alla storia come antifascista di primo piano, come scrittore di rara efficacia, come pietra d’angolo della riconquistata democrazia e come fondatore del PSd’Az., non certo come ideatore del PSd’Az. Socialista – che segnerà, al contrario, un punto d’arresto della parabola ascendente della sua vita politica –, ma fu una sventura per tutta la Sardegna che intorno a lui e al suo carisma avrebbe potuto trovare quella unità di popolo attraverso la quale sarebbe arrivata l’autentica rinascita dell’Isola.
Lussu scelse di morire in solitudine, credo amareggiato e deluso, forse con molti rimpianti: ritengo altresì che lo stato d’animo dei suoi vecchi compagni, come di coloro che si sono messi nel loro stesso solco, possa essere efficacemente sintetizzato da un verso del poeta Delogu: «Frade caru, galu non t’appo cumpresu, ma non t’appo irmenticau», in cui insieme si fondono stima, affetto, profondo rammarico, rimpianto…
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Giovanni Battista Melis: «Riflettendo su una vita sardista»
Ho ricordato alcuni particolari mettendomi come testimone degli episodi ai quali ho limitato la mia ricostruzione.
Sulla Sardegna si sta scrivendo, senza nessun’eco nazionale ed internazionale, da parte di scrittori per altro rispettabili ed ammirevoli. Ma la stagione migliore della Sardegna che, forse, non avrà occasione di ripetersi presto, è quella che ha unito i sardi combattenti in trincea, nell’intima fusione tra soldati ed ufficiali, con i triestini irredenti come Stalater, o i veneziani o l’abruzzese Acerbo, ed appunto i contadini ed i pastori sardi, coi loro ufficiali, di ogni paese, nella stessa dedizione al dovere e nell’affetto nostalgico ed eroico per la piccola Patria Sarda.
Va ricordato che le origini del Partito Sardo d’Azione sono in quest’ara di sacrificio. Esse non hanno vita per teorie astratte ed algide ma per il concreto rapporto umano che legava i combattenti alla Patria ed alle madri, sorelle e figlie della terra sarda lontana, triste ed oppressa.
Era il senso profondo e rivoluzionario del mondo nuovo in cui si rinnegavano gli artifici e le alchimie del piccolo elettoralismo clientelare sardo, che i reduci volevano distruggere per proiettare la loro isola nell’immenso mare della fraternità mediterranea ed europea e della Giustizia e Libertà che essi, i reduci, forti del loro insegnamento nutrito e sorto dai fatti, dovevano conquistare.
Perciò, una volta tornati dalla guerra, i figli hanno levato la bandiera sarda dei Quattro Mori come un’insegna di riscatto civile, mettendosi contro i padri ed il passato inerte che essi rappresentavano. E, prima di tutto, con una volontà che è tensione morale, substrato necessario perché la lotta abbia l’accensione sublime della fede.
Con questo senso rivelatore di progresso e di rinascita, i Combattenti reduci hanno continuato la lotta nelle piazze contro la tirannide, antitesi inconciliabile della Autonomia. Fu la vera primavera dei sardi.
Gli artisti sardi – anticipati da Sebastiano Satta, Grazia Deledda, Francesco Ciusa e continuati da Filippo Addis, Filippo Figari, Stanis Dessy, Melchiorre Melis, Pietro Antonio Manca, Mario Delitala, Stefano Susini, Carmelo Floris ed altri –furono tutti sardisti, presi dall’incanto di questa riscossa dello spirito sardo teso verso l’avvenire, a cui la loro ispirazione poetica si dedicava con senso Risorgimentale.
Poiché era la loro ansia ideale che contribuiva ad interpretare la Sardegna antica e moderna come Terra di avvenire che insegnava all’Italia e contribuiva nell’Europa, che doveva collegarsi al mondo muovo al quale i sardi per primi, e sovratutti, credevano.
Perciò nella povertà e nella pulizia economica e morale i sardi esprimevano scrittori e combattenti come Camillo Bellieni, Francesco Fancello, Stefano Siglienti, Emilio Lussu, Luigi Battista Puggioni o Raimondo Carta Raspi, tutti accesi da un generoso senso di dedizione che li univa ad uomini di altissimo livello morale e combattentistico come Dino Giacobbe, Luigi Oggiano, Raffaele Angius, Ugo Pais, Francesco Dore, Salvatore Sale, Giuannicu Diana e mille e mille, umili soldati e gregari di ogni città e villaggio della Sardegna.
Questa epopea è illustrata da sardisti eroici come Cesare Pintus, il quale aveva scontato la reclusione inflittagli dal Tribunale Speciale, o Silvio Mastio ucciso in Venezuela dalla reazione, dopo aver combattuto contro il fascismo nelle strade di Cagliari. Questo Popolo che si era fatto esaltare nei bollettini di guerra quattro volte e poi aveva conquistato alla bandiera della “Sassari” quattro medaglie d’oro, aveva espresso i suoi eroi con lo stesso spirito nelle Brigate in gran parte sarde, quali la “Reggio”, la “Bisagno”, l’“Avellino”, aveva indicato le vie della propria riscossa non solo sociale ed economica. Era un Popolo sempre tradito e maltrattato ma aveva trovato l’illuminazione culturale e spirituale nel segno del suo slancio puro.
Troppi, oggi, descrivono la Sardegna ed ambiscono ai ricchi premi che le varie accademie concedono.Ma non scendono alle radici dei fatti.
La realtà d’oggi è quella di un movimento che però obbedisce ai piccoli interessi di partito che spengono, sulle rive malinconiche del mare che bagna e circonda la nostra isola, il loro slancio espresso con questa coscienza e vissuto e sofferto nei fatti.
Oggi si chiede soltanto una soluzione nepotistica e familiare, un edonismo che è fatto di “dolce vita”, con cui si vive e si tende a soluzioni personali egoistiche, nello sfruttamento e nell’obbedienza, servile e comoda, dei propri partiti fusi in un calderone inconcludente di una intesa panciafichista, senza volontà rivoluzionaria. Si rinuncia alla solidarietà immediata popolare e collettiva di una inesprimibile forza che viene dal basso e che ha un significato attivo ed esprime l’Autonomia, come fatto di coscienza, di volontà e ci si impegna in un’azione che ignora i veri problemi e non li affronta con senso liberatore.
Gli scandali ci ammorbano. Nei partiti mancano gli uomini che si identificano nella fede e nella volontà di Risorgimento, per cui i sardi di quella primavera inesaltata erano ammirati e citati ad esempio da uomini come Guido Dorso o Piero Gobetti, Giustino Fortunato o Gramsci o Togliatti, Parri o Calamandrei, nella rivista Volontà, o nel Baretti, o nella Rivoluzione Liberale.
I sardisti han saputo morire come erano vissuti nella lotta, e ripiegati poi, nel silenzio del trapasso, non nella vana esaltazione della vita e della morte.
Lussu si è fatto incenerire; Bellieni, riportato per sua volontà da Napoli in Sardegna in presenza di pochi intimi, è stato seppellito avvolto nella bandiera sarda nel cimitero di Sassari; Dore o Sale o Floris, Pintus o Mastio si sono spenti nel silenzio; Giuannicu Diana o Fancello, Tullio Mulas o Gessa si sono adagiati, dopo l’infuriare delle lotte guerreschi o civili per ogni dove – nelle trincee, nelle piazze, nella Spagna, nelle Americhe –, nel dimenticatoio.