LA BUSSOLA SCOZZESE-IRLANDESE, di Federico Francioni
Sommario: In controtendenza – Campagna contro città? – La battaglia di scozzesi e irlandesi contro l’eurocrazia – Obiezioni alle scelte di Scottish National Party e Sinn Fein – Intensificare i rapporti fra le nazioni europee senza Stato – Conclusioni: unu fraile, un laboratorio per le forze sardiste-indipendentiste e per tutta la società isolana.
In controtendenza. Le discussioni e le polemiche suscitate dall’esito del referendum svoltosi nel Regno Unito – il 51,9% dei britannici, com’è noto, ha votato Leave, mentre il 48,1% si è dichiarato per il remain nell’Unione europea – si possono affrontare con una bussola da decodificare secondo i dati scozzesi ed irlandesi. A differenza di quanto è avvenuto in Inghilterra e nel Galles, l’elettorato della Scozia si è espresso in modo inequivocabile: il 62% ha votato contro la Brexit e solo il 38% a favore. Più contenuta, ma di sicuro netta, la volontà degli irlandesi: il 55,8% vuole restare nell’Unione, il 44,2% intende abbandonarla. È ben vero che l’afflusso alle urne in queste due nazioni è stato più limitato: il 67,2% in Scozia, il 62,7% in Irlanda del Nord, più basso del dato generale (72,2%) Resta l’importanza di un risultato manifestamente in controtendenza, messo in rilievo anche dalla grande stampa internazionale.
Campagna contro città? Peraltro alcuni osservatori hanno mostrato scarsa capacità di scomporre i dati laddove hanno focalizzato non solo una frattura generazionale – i vecchi dichiaratamente antieuropeisti e i giovani favorevoli all’Unione – ma anche una divaricazione fra il voto delle città e quello delle campagne. Come se Scozia e Irlanda del Nord corrispondessero ad un’Arcadia frequentata prevalentemente da pecore, mucche, capre e cavalli! Anche intellettuali nostrani teracos hanno costruito o hanno attribuito ad altri, onde precostituire bersagli di comodo, un’immagine della Sardegna che sarebbe in prevalenza ruralità, considerata quasi sempre sinonimo di una dimensione ristretta, appartata, fuori dal mondo. Certo costoro non potrebbero ammannire tali semplificazioni, per fare solo un esempio, allo storico Martin Clark, docente nell’Università di Edimburgo, sincero amico della nostra isola, sulla quale ha scritto tantissime pagine. Per molti intellettuali accademici e “ufficiali” l’indipendentismo è isolazionismo, ma la posizione assunta dalle due principali forze scozzesi e irlandesi li ha platealmente smentiti.
La battaglia di scozzesi e irlandesi contro l’eurocrazia. Lo Scottish National Party, unitamente al composito schieramento indipendentista scozzese, ha da tempo denunciato le nefaste conseguenze delle sciagurate politiche incardinate sull’austerity, il contenimento del debito pubblico e la deflazione, tanto care all’esecutivo dell’Unione europea, asservito all’eurocrazia, a oligarchie bancarie e finanziarie che si arricchiscono ogni giorno di più accentuando le disuguaglianze di reddito rispetto a strati crescenti di ceto medio ed alle masse lavoratrici. Chi crede che i perni dell’indipendentismo scozzese siano solo la filiera del whishy, il petrolio del Mare del Nord, i servizi bancari e finanziari non conosce le loro piattaforme che vanno ben oltre tali punti programmatici (cfr., in chiave critica, F. Cavalera, Petrolio, gas,whisky e valuta. Le ragioni dello strappo scozzese. Più che i ricordi della tradizione conta il miraggio della ricchezza, nel “Corriere della sera”, 16 febbraio 2014). I dirigenti scozzesi sanno bene che l’estrazione del petrolio va scemando e dunque intendono concentrare i profitti delle esportazioni in un fondo statale di risparmi a vantaggio delle nuove generazioni: ciò ha incontrato il diniego del governo di Westminster.
Gli indipendentisti di Scozia e Irlanda non solo hanno confermato il loro antagonismo verso le politiche dei governi di Londra – eredi, non dimentichiamolo, di secoli di colonialismo – ma hanno efficacemente reagito al nazionalismo inglese dell’Ukip di Nigel Farage, nonché alle ondate xenofobe, razziste, antisemite ed antimmigrazioniste che hanno preso corpo in Olanda, Polonia, Ungheria e Austria. Onore dunque alla nazione scozzese e agli abitanti del Nord di quella martoriata isola che in passato venne accostata alla Sardegna, definita non a caso Irlanda del Mediterraneo. La first minister Nicola Sturgeon (già vice di Alex Salmond, premier di un governo nato in base alla devolution stipulata con Tony Blair nel 1999) non solo rifiuta di rimanere vincolata alle scelte dell’elettorato inglese, ma ha rilanciato anche la prospettiva di un nuovo referendum sull’indipendenza. Martin McGuinness, leader del Sinn Fein, già esponente di punta dell’Irish republican army (Ira), si è attestato, con altri esponenti del suo partito, su posizioni analoghe, con l’obiettivo strategico dichiarato di una confluenza nell’Eire, parte integrante dell’Unione.
Dal suo canto Giovanni Razzu, nativo di Sorso, figlio dell’ex sindaco Salvatorangelo e preside di Economia nell’Università di Reading, ha dichiarato a “La Nuova Sardegna” (del 25giugno 2016) che nel Regno Unito la campagna referendaria è stata poverissima di contenuti. Non è stato di sicuro il caso degli indipendentisti scozzesi e irlandesi che da anni insistono nell’opposizione alle scellerate politiche intraprese da Margaret Thatcher e tanto care ai vertici dell’Unione, perché si proceda invece verso il rilancio del Welfare State, per riqualificare l’istruzione e la ricerca universitaria, contro la dipendenza dai meccanismi economico-finanziari e bancari che mirano all’assoggettamento dei paesi più deboli. In Italia il sociologo Luciano Gallino, il giornalista Federico Rampini, il costituzionalista Gustavo Zagrebelski (già docente nell’Università di Sassari) hanno più volte rimarcato, con linguaggio fortemente polemico, la dipendenza dei dirigenti dell’Unione da politiche economiche che hanno delineato una costituzione “materiale” in spregio ai principi costituzionali effettivi ed agli ideali genuinamente europeisti di Eugenio Colorni, Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli. Peraltro, come ha sottolineato più volte Alberto Contu, il loro federalismo europeista, “esterno”, fu tale da provocare un oscuramento del federalismo “interno” allo Stato italiano.
Obiezioni alle scelte di Scottish National Party e Sinn Fein. Certo, sul pronunciamento degli indipendentisti nel Regno Unito – che non è stato univoco, bensì composito ed anche contraddittorio – bisogna riflettere. In Scozia una coalizione indipendentista di sinistra, rimasta minoritaria, ha deciso, sulla Brexit, di lasciare libertà di coscienza e di voto ai propri aderenti e simpatizzanti. In Irlanda i gruppi repubblicani più radicali hanno preso posizione per il Leave. Verso Scottish National Party e Sinn Fein è stata mossa l’obiezione, non infondata, di un’adesione al Remain eminentemente strumentale che poi poteva e doveva servire per prendere le distanze dalla volontà del resto dell’elettorato inglese-britannico. A questa critica si può rispondere che era non solo compito, ma anche preciso dovere di dirigenti scozzesi ed irlandesi mettere al primo posto gli interessi, il presente ed il futuro delle loro collettività e muoversi in coerenza con tale logica. Nelle scelte “europeiste” di Scottish National Party e di Sinn Fein c’era in effetti il rischio di un appiattimento sulla linea del premier David Cameron o su quella di Jeremy Corbyn, leader del Labour party. Quest’ultimo ha condotto una campagna larvale, se non ectoplasmatica, rigettata dalla working class dei quartieri popolari, favorevoli al Leave, perché colpiti dai processi di deindustrializzazione recanti il marchio indelebile sia della Thatcher, sia dei liberisti selvaggi dell’Unione. Non bisogna infine dimenticare lo sforzo esplicitato dalla sinistra radicale inglese che si è riconosciuta nella Lexit, cioè in un progetto socialista per la fuoriuscita da Bruxelles.
Si può osservare che era indubbiamente maggiore il pericolo di una oggettiva confluenza dell’indipendentismo nella campagna di destra e antieuropeista condotta dal nazionalista inglese Farage. Fatte queste tare, ci si deve ancora chiedere: la scelta di Scottish National Party e di Sinn Fein era l’unica possibile? I fatti sembrano dare loro ragione, perché, se non altro, avranno una carta in più da giocare nella difficile e complessa partita con l’esecutivo dell’Unione. Non si affronta qui il problema dell’euro che richiederebbe troppo spazio.
Fra gli indipendentisti sardi si è sviluppato un dibattito che, approfondendosi, potrà risultare fecondo per aiutare questo schieramento ad uscire dalla frammentazione, per avanzare verso nuove aggregazioni, soluzioni politico-organizzative e progettuali che saranno salutari di fronte ai compiti tremendi che ci attendono: pensiamo solo ad una bagatella come il problema della lotta allo spopolamento. Da una parte si situano gli indipendentisti che dicono: l’Unione non è assolutamente riformabile e l’unica decisione che si può adottare in proposito, senza tentennamenti, è uscirne una volta per tutte! Dall’altra si posizionano coloro per i quali il ritorno puro e semplice ai singoli Stati nazionali non aiuterebbe di certo la lotta per l’autodeterminazione dei popoli e delle minoranze. Sembrano comunque i territori economicamente più deboli quelli destinati a subire i contraccolpi della Brexit.
Giuseppe Corongiu, del Coordinamentu Sardu Ufitziale, ha più volte ricordato che gli ispettori dell’Unione continuano a vigilare sull’inadempienza dello Stato, del governo e della Regione riguardo alle normative europee ed italiane per la tutela delle minoranze linguistiche, compresa quella sarda, nelle scuole, nella società, nei mass-media. Paolo Fois, docente emerito di Diritto internazionale nell’Università di Sassari, ha messo in evidenza più volte, con invidiabile chiarezza espositiva, quanto l’Unione ha fatto o non ha fatto riguardo ai problemi delle minoranze e dell’insularità. Occorre, è ovvio, distinguere fra potere esecutivo e quello legislativo, appartenente al Parlamento europeo, in cui la presenza della Sardegna peraltro non è assicurata e tutelata (col riconoscimento di un collegio elettorale unico, finalmente sganciato dalla Sicilia). È possibile tentare di sciogliere questi nodi ridisegnando un ruolo delle nazioni senza Stato all’interno della stessa Unione.
Intensificare i rapporti fra le nazioni europee senza Stato. In questo quadro diventa decisivo non solo riferirsi alle indicazioni della bussola scozzese-irlandese, ma anche proseguire tenacemente in un percorso che conduca a più stretti rapporti fra le nazioni d’Europa senza Stato. Nell’aprile di quest’anno fra Sardegna e Corsica è stato compiuto un primo importante passo in avanti. Relazioni più intense vanno costruite con Irlanda, Scozia, Paesi Baschi e Catalogna: milioni di abitanti di questi paesi possono esercitare una pressione per un generale rimescolamento delle carte all’interno dell’Unione. Antonio Simon Mossa, architetto, intellettuale poliedrico, cosmopolita ed allo stesso tempo sardista-indipendentista, auspicò una sorta di Federazione europea delle minoranze. Saprà lo schieramento sardista-indipendentista trarre le debite conseguenze dalle lezioni della scena scozzese-irlandese cui continuano a guardare mass-media peraltro lontanissimi da determinate opzioni? Ce lo auguriamo sinceramente.
Conclusioni: unu fraile, un laboratorio per le forze sardiste indipendentiste e per tutta la società isolana. Nel frattempo diventa indispensabile creare ed organizzare unu fraile, un laboratorio teorico-politico in cui sia possibile confrontarsi su analisi, contenuti, temi e programmi, soprattutto su un progetto, un New Deal (si veda ancora una volta l’articolo al riguardo di Salvatore Cubeddu su questo stesso sito) di cui la Sardegna ha un disperato bisogno per uscire da uno dei periodi più oscuri della nostra storia: con lo spopolamento pesa su di noi la minaccia di un suicidio demografico. Su questo tema, dopo l’importante seminario nell’aula consiliare di Seneghe, è previsto un appuntamento ad Austis per questo autunno, con la partecipazione di amministratori regionali, comunali, sindaci, docenti delle due Università ed altri soggetti che hanno già assicurato la loro presenza. Per proseguire nel dibattito – anche alla luce di quanto sta accadendo nel Regno Unito – e nella formulazione di indicazioni operative, la Fondazione Sardinia, la rivista “Camineras” (e non solo) faranno sicuramente la loro parte.