La triste parabola dell’arte politica ha generato mostri, di Massimo Recalcati

 

Il discredito che ha colpito l’arte della politica è sotto gli occhi di tutti e trova una delle sue ragioni più evidenti nel comportamento corrotto di molti politici. Ma esiste una ragione ancora più profonda della sua perdita di prestigio: il nostro tempo è infatti allergico a tutto ciò che impone qualunque differimento alla soddisfazione immediata della pulsione. La politica come difficile arte della mediazione di interessi differenti e conflittuali per il bene comune della polis appare come un intralcio fastidioso alla realizzazione del programma della pulsione che esige il suo soddisfacimento senza differimenti. Di qui – più profondamente che non a causa della sua corruzione – l’accanimento critico che colpisce l’arte della politica. Nondimeno è proprio la sua vocazione al confronto con la pluralità dei protagonisti della vita della città e della loro necessaria mediazione che la rendeva già agli occhi di Aristotele un’arte superiore a tutte le altre. Questo significa che la vita della città non scaturisce dalla spinta affermativa di interessi particolari che diventano egemoni, ma dal concerto delle loro differenze. Senza la faticosa opera di mediazione alla quale l’arte della politica è votata, la vita della città sarebbe facilmente preda della demagogia populista o della tentazione autoritaria. Mentre la seconda elimina le ragioni della politica con il ricorso al potere sovrano del padre- padrone, della prima, oggi di grande attualità, Platone ne fornisce un ritratto efficace quando equipara il politico degno di questo nome ad un medico che si preoccupa della salute di bambini malati (la città) prescrivendo ad essi le giuste diete e i giusti rimedi nonostante possano nell’immediato risultare difficili da digerire, paragona il demagogo-populista a colui che anziché seguire la linea difficile e severa della cura ammalia i suoi piccoli pazienti offrendo loro i dolci più prelibati.

L’immagine di Platone è lucidissima nell’isolare la scaltrezza del demagogo, la quale consiste nel dare al popolo quello che il popolo chiede senza preoccuparsi del destino della città. Tutto il suo operare è asservito all’ottenimento del più largo consenso nel più breve tempo possibile. È l’essenza anti-politica del populismo che comporta una disgregazione falsamente libertaria del concetto di rappresentanza. Il politico dovrebbe essere soppresso dal Popolo o dovrebbe coincidere con il Popolo stesso in una simbiosi che, in realtà, ha storicamente sempre generato mostri. È il sogno sbandierato qualche tempo fa da un movimento populista nostrano: ottenere il 100 per cento del consenso parlamentare per realizzare l’identificazione integrale dei cittadini con lo Stato. Non deve sfuggire il carattere seduttivo e incestuoso di questa ambizione: ogni differenza deve essere annullata, ogni dissenso appianato, ogni cultura particolare estinta nel nome di una coincidenza assoluta tra il Bene e il Popolo. La difficile arte dell’integrazione di soggetti e interessi differenti di cui si incarica l’arte della politica deve lasciare il posto ad una fusione tra Stato e cittadini che vorrebbe liquidare la politica come un vecchio tabù da dimenticare. I Partiti sono una casta che il capo carismatico di quello stesso movimento populista nostrano ha una volta definito “letame”. L’anti-politica cavalca l’illusione di identificare il Popolo col Bene contro la politica come difficile pratica della mediazione dei conflitti. Il conflitto politico in quanto tale viene sostituito dalla lotta tra il Bene (il popolo) e il Male (la politica e i politici) senza rendersi conto che la demonizzazione della politica coincide con il collasso della vita stessa della città. La retorica populista odia la sfumatura, l’analisi, la complessità, la contraddittorietà, gli intellettuali, il pensiero critico, il disordine che accompagna la vita della città. La sua inclinazione paranoica si sposa con una idealizzazione infantile di sé stessa che esclude il disagio che comporta il confronto con il dissenso sia interno che esterno. In un recente libro intervista titolato

Corpo e anima (Minimum fax 2016), curato da Christian Raimo, Luigi Manconi, ex-leader di Lotta continua, protagonista del movimento Verde in Italia e attualmente senatore per il Pd, prova a restituire, nel tempo dell’antipolitica, la giusta dignità all’arte della “politica” ripensandola radicalmente dai piedi”, sottraendola alle chimere totalitarie degli universali: la politica non si occupa dell’Uomo, del Popolo, della Storia, della Solidarietà astratta, ma solo di nomi propri, di persone in carne e ossa, di corpi, di esistenze reali, plurali, soprattutto di quelle che appaiono ai margini della vita sociale. Dal vertice di questa allergia verso l’universalismo, Manconi propone una definizione lucida e precisa della politica come “governo del disordine”, sforzo per “trovare un posto al disordine”. È l’esatto contrario del sogno paranoico- populista dell’affermazione assoluta del Bene contro il Male. Non si tratta né di imporre l’Ordine con la violenza (tentazione autoritaria), né di annullare la rappresentanza seguendo la retorica dell’ideale benefico del Popolo (tentazione populista), ma di prendere atto che la vita della polis implica necessariamente il disordine della vita: «Intrecci, innesti e contaminazioni e non un’autarchica sistemazione di tratti originari esclusivi ed escludenti».

 

Massimo Recalcati, la Repubblica 05 giugno 2016

 

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