Est un’atera istoria…
di Massimo Dadea
Massimo Dadea (nella foto), nato a Nuoro nel 1950, è medico cardiologo presso l’Azienda Ospedaliera Brotzu di Cagliari. E’ stato consigliere regionale del Pci prima e del Pds poi dal 1984 al 1994. Dal 2004 al febbraio 2009 ha ricoperto la carica di assessore agli Affari Generali, Personale e Riforma della Regione Autonoma della Sardegna nella Giunta presieduta da Renato Soru.
Vi è un interrogativo che molti cittadini sardi si pongono all’indomani delle elezioni amministrative: ci troviamo di fronte a un nuovo inizio della travagliata storia della nostra isola? Oppure la Sardegna si trova ancora in quella terra di mezzo dove il vecchio stenta a morire e il nuovo non riesce ad affermarsi? Di certo una fase storica iniziata con la nascita dell’Autonomia, passata attraverso le lotte della Rinascita e la contradditoria industrializzazione per poli, si è definitivamente conclusa nel 2004
con la prima elezione da parte dei cittadini del Presidente della Regione e la nascita del governo regionale presieduto da Renato Soru.
L’elezione diretta del Presidente, il suo potere di nomina e di revoca degli assessori, quello di scioglimento del Consiglio regionale, ha modificato l’equilibrio che per sessant’anni ha retto il nostro sistema autonomistico, fondato sul bilanciamento tra esecutivo e legislativo. Ha modificato la gerarchia dei poteri stabilendo un rapporto diretto tra Presidente e popolo sardo. L’elezione diretta pone al centro il cittadino. E’ il cittadino che sceglie liberamente il Presidente, il programma di governo e la maggioranza consiliare, stabilendo così un vincolo indissolubile. Se questo vincolo si rompe, tutti a casa e la parola ritorna ai cittadini.
La nascita della Giunta Soru, la sua idea precisa di Sardegna, la sua febbre del cambiamento, la sua forte carica etica e morale, ha definitivamente chiuso una fase storica caratterizzata da un modello di sviluppo incentrato sul consumo del territorio. Contro quell’esperienza di governo si è scagliata prima la stupidità del pensiero debole, di coloro cioè che non né hanno capito la portata innovativa, e poi l’arroganza dei poteri forti: un intreccio d’interessi affaristico- editoriali, minacciati dall’azione riformatrice della giunta. Un patto scellerato tra conservatorismi di sinistra e di destra finalizzato a salvaguardare interessi, privilegi, rendite di posizione. Si sono persi così oltre due anni: la Sardegna, per una precisa responsabilità della giunta Cappellacci, è ricaduta nell’anonimato e nella mediocrità scivolando, come indicano tutti gli indicatori economici, agli ultimi posti tra le regioni italiane.
Una condizione che condanna la Sardegna alla marginalizzazione economica, politica e culturale. La Sardegna è ancora in mezzo al guado e la prospettiva è assai allarmante. Nel 2047 la Sardegna, secondo le previsioni ISTAT, avrà appena 1.250.000 abitanti, il 27% in meno della popolazione attuale, in conseguenza della più bassa natalità in Europa e una delle più alte percentuali di popolazione anziana al mondo. Le dinamiche demografiche altro non sono che l’epifenomeno di processi politici, sociali, economici e culturali. Di un modello di sviluppo sbagliato che sta portando allo spopolamento delle “zone interne” o meglio della “Sardegna di dentro”, quella profonda, dove risiede l’anima di quest’isola, l’essenza stessa della nostra identità.
Il rischio è che nei prossimi anni si arrivi non solo allo spopolamento ma alla desertificazione della “Sardegna di dentro” e alla polarizzazione verso le aree costiere e quelle urbane più dinamiche. La Sardegna nel prossimo futuro assomiglierà sempre più a una ciambella con il suo bel buco in mezzo. La prospettiva è di una desertificazione del tessuto produttivo, specie della “Sardegna di dentro” a tutto vantaggio delle aree costiere, una sorta di “genocidio” sociale, culturale, economico, che potrebbe portare alla fine di una cultura millenaria.
Ed allora, che fare? Tre sono le condizioni indispensabili: un “progetto” incentrato su una precisa idea di Sardegna; un nuovo assetto istituzionale; una nuova classe dirigente. Un progetto capace di traghettare la Sardegna verso la modernizzazione, senza snaturare la propria identità culturale, storica, coniugando nel contempo modernizzazione ed identità. Iniziando con il tutelare e valorizzare i nostri beni comuni ed identitari: l’ambiente, il paesaggio, lo straordinario patrimonio naturalistico, culturale, linguistico. Nella convinzione che conservare e gestire responsabilmente il paesaggio, prodotto del millenario lavoro dell’uomo su una natura difficile, significa conservare l’identità di chi lo abita. Un popolo senza paesaggio è un popolo senza identità e memoria.
Un nuovo assetto istituzionale che parta dall’assunto che l’Autonomia speciale è oramai uno strumento consunto, inadeguato rispetto ai bisogni di autogoverno e di autodeterminazione del popolo sardo. Dobbiamo con coraggio intraprendere strade nuove, inoltrarci in territori sconosciuti, infrangere tabù sinora ritenuti intoccabili. Tra le tante opzioni sul tappeto due sono quelle più meritevoli di attenzione. La prima, rinegoziare il patto costituzionale con lo Stato italiano sulla base di due requisiti irrinunciabili. Uno di tipo “formale”: il principio della intangibilità del rapporto singolo della Sardegna con lo Stato, un patto costituzionale tra eguali. Uno di tipo “sostanziale”: più poteri, più sovranità. In buona sostanza, poter decidere su temi dove più invadente e invasiva è la presenza dello Stato: ambiente, paesaggio, servitù militari, energia, patrimonio archeologico, ruolo internazionale della Sardegna nel Mediterraneo.
La seconda, iniziare a misurarsi con l’opzione indipendentista. Questo non vuol dire sposarne interamente le tesi, ma iniziare a misurarsi con un’idea d’indipendenza da raggiungere a conclusione di un percorso consensuale che porti alla costruzione di un rapporto paritario, tra eguali, senza vincoli gerarchici con lo Stato italiano.
Una terra, il suo popolo, la sua specificità culturale, il suo essere un’isola “distante”, sono il fondamento di diritti particolari, propri di una comunità distinta. L’identità di un popolo, fa di quel popolo una nazione, una nazione a cui non si può negare l’aspirazione a diventare Stato. Una nuova classe dirigente. Le elezioni amministrative hanno dimostrato che esistono, spesso fuori dai partiti, competenze, professionalità, volontà. Una nuova classe dirigente coraggiosa, animata da un forte senso di legalità e di responsabilità pubblica, capace di ripristinare un rapporto di fiducia e di lealtà con i cittadini sardi. Una classe dirigente giovane, concretamente generosa con i giovani.
Affrontare positivamente queste tre questioni significa accelerare l’uscita della Sardegna dal guado, da quella terra di mezzo della mediocrità e della marginalità a cui sembra averla condannata la giunta di destra.