Vindice Gaetano Ribichesu, il servizio alla libertà nel giornalismo militante, di Gianfranco Murtas
E’ passato rapido questo anno, dacché abbiamo perduto il nostro Vindice Gaetano Ribichesu, militante civile per la democrazia nelle varie applicazioni di vita pubblica cui vocazione e talento, formazione intellettuale e scelte morali lo hanno indirizzato da giovanissimo: così è stato nel giornalismo, così è stato nell’associazionismo. Nel giornalismo praticato – collaboratore di redazione, ancora studente, dell’Unione Sarda (dove il direttore Crivelli, giunto in Sardegna nel 1954, volle progressivamente creare qualcosa più d’un ufficio di corrispondenza a Sassari e dopo Filippo Canu e Paolo Fadda e Angelino Demurtas incaricò della fatica Manlio Brigaglia – un Brigaglia giovanissimo allora anche lui – che poté contare sulla partecipazione alla fattura del notiziario locale di giovani studenti, fra i quali appunto Ribichesu); poi, nell’ultimo anno della sua uscita, al Corriere dell’Isola, il quotidiano di emanazione DC-Etfas, che (nella pagina della cronaca sassarese) fu palestra comunque anche di giovani piuttosto lontani dalla matrice politica del giornale. Dal 1958 alla Nuova Sardegna, così fino al giugno 1974, diciassette anni, redattore, caposervizio e caporedattore, condirettore responsabile per sette mesi dell’edizione del lunedì, prodotta negli stessi stabilimenti del giornale da una cooperativa apposta costituita. Tanto valore, tanto impegno, tanta battaglia trasparente, leale e coraggiosa, e sacrificata, per la difesa della autonomia della testata dalle crescenti e intollerabili pressioni censorie della proprietà, quella della SIR di Nino Rovelli, che nel 1967 aveva rilevato l’antico quotidiano “frumentario” dagli azionisti storici, in primis Arnaldo Satta Branca (che avrebbe poi lasciato la direzione ad Aldo Cesaraccio).
Nel 1974, dopo aver affiancato, fattivamente ma anche con la discrezione di quelli che scrivevano ma non potevano firmare, l’esperienza del settimanale Il Lunedì della Sardegna, a direzione di Manlio Brigaglia – stampato alla STEF di viale Elmas e compilato tutto da quella dozzina di redattore della Nuova fatti prigionieri in casa, in quell’anno circa che accompagna e segue immediatamente il referendum sul divorzio (1973-1974), si dimise dal suo amatissimo giornale – amatissimo per quel che la Nuova significava per un sassarese appassionato – ed entrò all’ufficio stampa del Consiglio regionale. Qui presto subentrò ai colleghi tanto nella direzione della rivista Sardegna Autonomia(e/o del Notiziario informativo) quanto poi dello stesso ufficio chiamato a dar conto alla pubblica opinione delle attività istituzionali e, per converso, a supportare l’assemblea ed i suoi membri con ampie rassegne-stampa ecc. Così per vent’anni pieni.
Sassarese fattosi cagliaritano con la sua città nel cuore, sempre, sviluppò progressivamente, con maturità ed evidenze ammirevoli, quel senso nobile della Sardegna come sistema integrato, in cui ogni parte fosse necessaria all’altra in uno scambievole generoso rinforzo, contro ogni deriva di campanile. Partendo così da questa sua sardità consapevole, colta e moderna, ampliò il giro delle sue riflessioni, delle sue ricerche, dei suoi scritti, ora puramente giornalistici ora più impegnativamente saggistici, delineando una giusta presenza della nostra Isola in quadro che sul piano istituzionale aveva una connotazione federalistica ma restava ancorata, per antiche radici – quelle stesse cui aveva alluso il suo concittadino Camillo Bellieni nella famosa lettera «agli amici del movimento cagliaritano» del 1920 (cf. La Voce dei combattenti, 31 dicembre 1920) – ad un senso italiano associante cultura e democrazia, letteratura e civismo, arte e patriottismo, l’amore congiunto alla bandiera dei quattro mori ed alla bandiera tricolore. Insomma, combinante le produzioni alte dello spirito, di fianco a quelle industriali – del nostro artigianato ad esempio –, a quei riferimenti larghi e intensi dell’Italia risorgimentale e dell’Italia antifascista, dell’Italia resistenziale e dell’Italia repubblicana.
Sono almeno duecento gli articoli, i contributi, gli interventi convegnistici che segnano la sua militanza civile e democratica in quei vent’anni della residenza, professionale e familiare, cagliaritana (dato il lavoro nel Consiglio regionale) e in diversi di quelli a seguire il suo pensionamento (e sono altri due decenni). Naturalmente nel gran numero mi parrebbe giusto richiamare una specie di predilezione che Vindice avvertì, almeno fino all’autunno del 1978, per Tuttoquotidiano, il giornale nel quale era confluita quella dozzina di colleghi della redazione centrale della Nuova che nel 1974 fecero il gran passo, dimettendosi anch’essi dal foglio “rovellizzato” (e guarda caso in quel tempo ad ampia, accresciuta incombenza di suggestioni nazionalitarie e indipendentiste: si pensi alla firma di prima pagina di Gianfranco Pintore).
Cofondatore della Edes, editrice sarda dal catalogo tanto ricco quanto rilevante e qualificato, presidente prestigioso di Fondazione Sardinia, consigliere non meno attivo e presente dell’Istituto Gramsci in Sardegna, studioso di Lussu, gemellato idealmente – mi posso permettere questa associazione – a Michelangelo Pira (che lo aveva preceduto nell’ufficio del Consiglio) fin dalla giovinezza, fin da quella comune partecipazione al congresso universitario tenutosi a Cagliari nel 1954.
Sono una trentina le testate che hanno accolto gli scritti di Vindice, perché un segno della sua militanza civile, sempre libera, gentile e insieme ferma, è stata la gratuità. A chiunque gli chiedesse – anch’io gli ho chiesto più volte, sia per la presentazione di vari miei studi sul sardoAzionismo negli anni di fondazione della Repubblica sia per ricostruire l’identikit storico-sociale della Nuova Sardegna in vista del convegno in onore di Alberto Mario Saba all’università di Sassari nel 1994 – era sempre pronto a darsi disponibile.
Ebbe una militanza coerente e certa, durata ben quarantacinque anni, nella Libera Muratoria, prima sassarese poi cagliaritana, dalla loggia Gio.MariaAngioy n. 355 a quella Risorgimento n. 770 obbedienti entrambe al Grande Oriente d’Italia. Dalla liberalità di entrambe ho ottenuto tutte le carte fraternali che documentano un percorso insieme morale e intellettuale in logica associativa che meriterebbe d’essere conosciuto, e che appena possibile presenterò perché anch’esso diventi occasione e ragione d’onore alla sua memoria.
Restano questi i fari identificativi della sua personalità pubblica che anche nel privato presentava i tratti di educazione e signorilità, la virtuosa propensione all’ascolto, la non meno scrupolosa attitudine a opporre, quando necessario, alle idee altre idee non mai però con superbia apodittica bensì sul piano degli argomenti, direi in un gioco alto fra senso del relativo – quello dialogico e tollerante, proprio del confronto fra diversi – e saldezza valoriale.
Sto lavorando da qualche tempo ad una scheda biografica e ad un regesto tendenzialmente completo degli scritti giornalistici e saggistici di Vindice Gaetano – io lo chiamavo col nome carducciano che era il suo primo, so che i colleghi di mestiere hanno sempre preferito dire Gaetano o Gaetanino – Ribichesu. Non avrei mai immaginato di dovermi un giorno impegnare su questo fronte: ci incontrammo nel 1975, l’anno successivo al suo trasferimento di residenza. Un idem sentire democratico e repubblicano, il taglio azionista che condividevamo – seppure le nostre provenienze anche ideali più remote fossero diverse – ci ha affratellati per oltre quattro decenni e scrivo queste note senza potermi distaccare dal tanto che, nell’umanesimo penetrato e vissuto da entrambi, e nonostante lo scarto generazionale, è stato fra noi un costante dato empatico.
Ho creduto di onorare oggi pubblicamente la sua gratissima memoria, appunto nell’anniversario della dolorosa scomparsa, con tre, anzi quattro, suoi scritti mirati al biografico di tre illustri personalità che anch’io ho amato e, in parte almeno, anche frequentato: Emilio Lussu, Dino Giacobbe e Mario Melis.
Ribichesu scrisse di Lussu, due volte, all’indomani della morte, consegnando le sue cartelle alla pagina culturale di Tuttoquotidiano (rispettivamente il 7 marzo e il 6 aprile 1975). La seconda volta il suo articolo fu una bellissima simulazione d’intervista con Michelangelo Pira. Scrisse poi di Giacobbe e di Melis sulle pagine del periodico Il Messaggero Sardo, destinato ai circoli e a tutta l’emigrazione sarda in Italia e nel mondo (così nel febbraio 1984 e nel dicembre 2003).
Tutti questi articoli entreranno nella ampia antologia che la Edes ha in preparazione per la prossima tarda estate. E mi pare bello, oltreché significativo, confondere i nomi di tanto biografo e dei grandi nostri, che anch’io repubblicano e azionista considero, al di là di qualche distinguo politico, autentici maestri di civiltà democratica – per il pensiero – ed umanità –, data la testimonianza di vita.
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L’eredità di Lussu (Tuttoquotidiano, 7 marzo 1975)
Quale l’eredità che Lussu lascia ai giovani sardi di oggi? Questa la domanda che mi è stata posta e che in effetti è – al di là di quanto io saprò dire – la vera chiave per leggere la figura di Emilio Lussu.
E’ inevitabile che, in queste occasioni, i ricordi personali, gli episodi anche minuti si affollino nella mente e si sia tentati di far, in qualche modo, partecipe la propria, modesta, storia personale con la più grande vicenda dell’uomo eminente, di quest’uomo in particolare, che è stato il più significativo personaggio della storia sarda di questo secolo. Ma è già questo sentire da parte di tanti sardi (forse di tutti, ché sono coinvolti anche coloro che non hanno condiviso le sue scelte) Emilio Lussu come parte della propria storia personale, una prima risposta sull’eredità di Lussu.
Egli è già nella coscienza dei giovani sardi: se sono sardi, se sono giovani.
Lussu, infatti, ha prima di tutto fornito un esempio morale: non ha mai piegato la schiena di fronte a nessuno, ha insegnato a tutti – anche, ripeto, a chi non ne ha condiviso le scelte – che prima di lottare si deve essere convinti che la causa per la quale ci si batte è giusta, e, se giusta, la causa meriti qualsiasi sacrificio con assoluta intransigenza. Anche quando si è in pochi, anche quando si è all’opposizione, anche quando l’avversario è potente. Saper dire di no, anche quando è difficile: non è un caso se al film tratto dal suo libro “Un anno sull’altipiano” è stato dato il titolo di “Uomini contro”. Contro che cosa? Prima di tutto contro l’ingiustizia sociale e contro chi comprime la libertà dell’individuo e dei popoli.
Emilio Lussu ha universalizzato il concetto di autonomia: è un principio morale prima che politico. Significa libera scelta dell’individuo e autodeterminazione per i popoli. E ciò non per attuare chiusure di classe o vieti regionalismi, ma per realizzare comunità di uomini liberi in un consorzio di paesi liberi. E’ significativo che le ultime annotazioni politiche di Emilio Lussu siano state l’amara constatazione che le squadracce fasciste, dopo trent’anni di democrazia claudicante, girano nuovamente per le strade di Roma. Non è certo per questo che gli uomini come Lussu hanno speso tutte le loro energie e la loro stessa vita. Il mandato che lascia è dunque quello di continuare, e rinvigorire quella lotta che egli ha fatto per combattere tutto ciò che il fascismo, vecchio e nuovo, significa.
L’eredità, dunque, è la sua stessa storia, ma è anche un progetto politico. Questa che noi abbiamo ottenuto – diceva, per esempio, dell’autonomia sarda –, assomiglia a quello stato federale che noi auspicavamo come il gatto assomiglia al leone, essendo entrambi della famiglia dei felini.
Ecco un altro mandato che Lussu lascia alle nuove generazioni di Sardi: una rifondazione dell’autonomia per una rifondazione dello stato unitario, repubblicano e democratico nella sostanza. «»
Alla Costituente Lussu ad un deputato socialista che era contrario alla concessione dell’autonomia della Sardegna e che si faceva scudo dell’affetto che portava ai sardi disse: «Non basta questo affetto per i sardi, il quale si cambia poi molto spesso in una concezione di guida dal di fuori: noi abbiamo bisogno di ben altro: noi abbiamo bisogno di una vita nostra. E’ vero: noi sardi siamo terribilmente arretrati, ma questa è la storia del nostro piccolo popolo, storia che non è mai stata la sua storia, ma quella dei conquistatori e dei dominatori che vi hanno governato. Un socialista sardo che non sia autonomista non può essere un socialista».
E questo vale anche oggi, anche se si tratta di altro tipo di conquistatori e di dominatori. Ed anche oggi è valida la scelta che Lussu fece nel clima di assurda violenza che è la guerra: una scelta per la classe dei diseredati, dei poveri, di chi deve subire la violenza e la prepotenza degli altri, per quei pastori e contadini sardi che venivano mandati a morire senza che sapessero nemmeno perché: Lussu e gli altri che formarono poi il movimento combattentistico e quindi il partito sardo d’azione diedero un perché a quei sacrifici e trasformarono quella crudele esperienza in una forza politica di rinnovamento e di riscatto. Anche oggi battersi per una vera autonomia (che significa autodeterminare il proprio futuro, partecipare, sentirsi parte dello stato e soggetto della propria storia) significa battersi per la libertà, per l’uguaglianza, per una comunità di uomini liberi in un paese libero.
Nel bellissimo commento che, negli anni ’60, fece precedere al suo racconto “Il cinghiale del diavolo” scritto durante l’esilio parigino negli anni ’30, Lussu si lascia andare ai ricordi che, forse, per il suo carattere, considerava quasi dei cedimenti. Trattando delle antiche società sarde di pastori e contadini e cacciatori, accenna al governo di queste comunità; esso era esercitato dagli anziani in virtù, non tanto della loro esperienza, quanto della stima che avevano saputo conquistarsi nella libera comunità: «Credo di aver vissuto – scrive – gli ultimi avanzi di una comunità patriarcale, senza classi e senza stato». Una debolezza, forse, una visione idilliaca certamente non realistica, ma che rivela una segreta speranza in un mondo migliore che certo non può ispirarsi alle antiche comunità patriarcali (la nuova realtà è molto più complessa e articolata) nel quale possa effettivamente vivere tra fratelli e non tra lupi. E questa visione per un uomo che seppe essere duro quanto è possibile, che agli altri, ma soprattutto a se stesso, non ha mai concesso cedimenti significa un obiettivo di pace e di serenità. Quella pace e serenità che egli, in vita, non ebbe mai.
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Il gusto della autonomia: «La libertà non esiste: è una conquista»(Tuttoquotidiano, 6 aprile 1975)
Non un’intervista, ma una chiacchierata d’una sera, davanti al camino acceso nella sua semplice e bella casa in collina fuori città da dove si ammira il golfo di Cagliari, una casa che cresce e perciò in subbuglio per i muratori: occorre far posto ai figli e ai libri. Michelangelo Pira – giornalista, scrittore, studioso della lingua e della società sarda, una lunga milizia politica sardista e di sinistra, polemista acceso soprattutto sui temi del banditismo e della rinascita della Sardegna, ora docente di antropologia cultuale all’università – non ha voluto accettare d’essere intervistato su Emilio Lussu, ma voleva parlarne proprio così, chiacchierando e bevendo, ogni tanto, un goccio di tequila (il filu ‘e ferru sarebbe stata un’affettazione): «Vedi – dirà più tardi – noi ora parliamo di Lussu nella maniera giusta, fuori dalle convenzioni celebrative: come si fa ancora nei villaggi quando muore qualcuno: se ne parla senza astio e senza esaltazione; così, semplicemente, intorno al fuoco: ha fatto questo, non ha fatto quest’altro, forse avrebbe dovuto fare così…».
Entrambi abbiamo qualche ricordo personale da legare alla figura di Lussu, ma è inutile palarne: «In questi anni il sardismo non è stato più pensato o ripensato: ci sono tante cose da recuperare che sono latenti, quasi nell’inconscio, troppo rapidamente liquidate come tendenze romantiche e che Lussu invece esprimeva spontaneamente. Lo si constata ora che è morto. Non c’è contraddizione tra Lussu sardista e Lussu socialista e, a questo proposito, è significativo il discorso che tenne ad Ales per le celebrazioni gramsciane». Manda un figlio a cercare il discorso di Ales, il ragazzo ritorna poco dopo e non l’ha trovato, ma il tema, intanto, si è spostato: «non era un teorico, ma un combattente, ma le scelte più importanti non le ha sbagliate mai: la scelta contro il fascismo, il sardismo, la guerra in Spagna, la fondazione di Giustizia e Libertà… Anche i rapporti con il PCI: siamo fratelli – diceva – ma entrambi abbiamo moglie e figli. Siamo insomma due famiglie apparentate, ma diverse…».
Se però si dovesse scegliere nella complessa personalità di Lussu una valenza che possa connotare l’eredità che Lussu lascia ai giovani, ai sardi di oggi? «L’insegnamento principale consiste nella costante dell’autonomia, nel gusto dell’autonomia. L’autonomia la viveva, anche a livello personale; lui prendeva le distanze dal suo stesso elettorato, anche dai gruppi che pure voleva rappresentare e rappresentava». Il discorso cade quindi sull’impatto che deve avere avuto quest’uomo “autonomo” nel generone politico romano dove la mentalità del gregario, del ”cliente”, del “guardaspalla”, del “sottopancia” è così diffusa (ed anche a Cagliari ormai alligna questo sottobosco petulante e becero), e Michelangelo Pira ricorda le interviste che Lussu rilasciava ai cronisti politici romani: quando questi gli domandavano se, per caso, egli fosse con Tizio o con Mevio rispondeva: «Sì, ma con molte divergenze». Nel mondo del conformismo non c’è posto per le “divergenze” soprattutto quando sono “molte” e così non è stata certo senza conseguenze, senza astii e rancori questa continua affermazione di autonomia di Emilio Lussu.
«Era incapace di adagiarsi sulle posizioni conquistate: non solo nel successo, ma anche nelle difficoltà. Una volta arrestato e inviato al confino un altro si sarebbe adattato a vivere a Lipari, ad attendere lo scadere della condanna: lui invece scappa». E’ stato, questo di scappare, il suo primo pensiero fin da quando era detenuto a Buoncammino e sapeva che, nonostante l’assoluzione del giudice penale, per lui non ci sarebbe stata libertà. Il tentativo non andò in porto. «La biografia di Lussu pone soprattutto il rapporto tra sardisti e comunisti, rapporto che non è certo risolto con l’elezione di Columbu nella lista del PCI: è, in definitiva, il rapporto tra contadini e operai, tra la cultura popolare (quella non indotta, non acculturata) sarda e la cultura marxista. In Sardegna – ed è questo in sintesi il significato di Lussu – c’’è l’esigenza di una linea politica autonoma di sinistra. Il che evidentemente – come proprio Lussu ha dimostrato – non vuol dire isolazionismo: lui partiva da qui, gli altri arrivano qui. Questi umori li aveva anche Gramsci: certe cose dell’Italia Gramsci li capisce meglio di altri proprio perché è sardo; proprio perché proviene da una cultura di tipo antropologico che gli viene dalla Sardegna. Non è integrato e non può essere integrato».
E’ un po’ – si parva licet … – ciò che è successo per certi giornalisti sardi che si battono per la libertà d’informazione: c’è stato un momento nel quale sono stati all’avanguardia in Italia su questi temi: non perché fossero particolarmente bravi, ma perché l’elementarietà, l’essenzialità stessa della realtà sarda, rendevano qui il problema più chiaro che altrove. E’ stato così anche per il banditismo quando, qui in Sardegna, sono risultate più evidenti (e prima) le discrasie del sistema dell’amministrazione della giustizia e dell’attività di polizia.
«Non siamo in ritardo – aggiunge Michelangelo Pira –, qui siamo spesso in anticipo: siamo stati prima il laboratorio del Piemonte per le tecniche colonialiste che ha poi applicato in tutta l’Italia meridionale; poi il laboratorio del grosso capitale, delle multinazionali. Non siamo in ritardo, siamo avanti».
Forse per la stessa insularità, forse per la scarsa popolazione. Sotto quest’angolo visuale la stessa eradicazione della malaria può assumere significati diversi da quelli celebrati. «L’esperimento ERLAS, ha detto una volta Saragat, non aveva tanto lo scopo di eradicare la malaria, quanto quello di distruggere una specie animale; ma la culex ha vinto, perché continua ad esistere anche se non è più malarigena». E’ un paradosso naturalmente ma non paradosso vi è sempre un fondi di verità.
La linea alternativa, dunque, deve venir fuori da una politica autonoma di sinistra che nasce in Sardegna: del resto anche Gramsci, anche Togliatti più tardi, assegnavano questo compito al movimento sardista. «Per Lussu “popolo sardo” significa classe subalterna in Sardegna e la sua visione coincide, in pratica, con la ricerca antropologica che ha fatto Cirese. Non c’è mai stata, in alcuna fase, un popolo sardo indistinto: Lussu ha sempre elencato quali dei sardi avevano capacità e interessi rivoluzionari: i piccoli coltivatori, i piccoli pastori, i piccoli commercianti… tutti piccoli insomma. Anche la borghesia, che pure è sfruttatrice, è spesso sfruttata. Lussu pensava di aggregaer tutti gli sfruttati della Sardegna e portarli su posizioni socialiste».
Vi è però in Lussu un atteggiamento quasi aristocratico nei suoi rapporti personali con le masse: un po’ è dovuto, come si è detto, al suo gusto dell’autonomia anche nella dimensione personale, un po’ forse anche alle sue origini piccolo borghesi, al suo maturare come leader in trincea, da ufficiale. «In effetti in “Un anno sull’altipiano” mentre gli ufficiali hanno tutti nome e cognome i soldati sono sempre confusi nella massa, uno aggiunge una parola al discorso di un altro. Tranne “zio Francesco” non ci sono altri personaggi-soldati. Questo però anche perché per lui le divisioni sono nette, manichee quasi: tra i soldati non ci sono contraddizioni, le contraddizioni sono dall’altra parte. E’ sardo anche in questo Lussu: non ci sono posizioni mediane, gli uomini, le idee sono sempre in contrapposizione netta. E’ il suo stile, per antifrasi».
Lussu letterato: Michelangelo Pira sta scrivendo uno studio su questo argomento, ma ne accenna appena. «Aveva un vero disprezzo per il letterato e un grande rispetto per la cultura. Per il letterato però no. Non ammette la letteratura come istituzione. Soprattutto irride al letterato di tipo dannunziano e classico. Le citazioni del marchese Zapata, le citazioni latine del deputato Lissia in “Marcia su Roma e dintorni”. In questi personaggi riversa tutto il suo disprezzo. La cultura per lui è Machiavelli, lo scienziato, il matematico, il poeta anche, ma né lui né Gramsci cadono mai nella trappola della letteratura fine a se stessa, nel limbo dell’arte per l’arte tanto caro agli intellettuali italiani sempre succubi del potere. Per Lussu, da buon patriarca armungese, la cultura deve essere fruibile: la letteratura ha senso soltanto nella divisione del lavoro borghese. La distanza tra Lussu e i letterati è la stessa che c’è tra la Sardegna e la cultura borghese. Ricordi il personaggio del gen. Leone in “Un anno sull’altipiano”? Lussu lo disprezza, per lui è un pazzo. Soldati, Mario Soldati – che pure non è di destra, ma è piemontese – dopo il film di Rosi tratto dal libro di Lussu, difende il personaggio del gen. Leone. Per lui è un “valore”, per Lussu invece è proprio pazzo».
«In Lussu c’è sempre la tendenza a ricollegarsi alla cultura originaria sarda: alla Costituente fu l’unico che parlò della lingua sarda. In effetti, anche quando è morto tutti hanno messo in rilievo più la valenza sardista che altro. E’ stato da tutti ricordato più come fondatore del partito sardo d’azione che come fondatore del partito d’azione, di Giustizia e Libertà.
«Lussu non aveva una grande cultura economica, credo anzi che quasi la rifiutasse, non perché non ne valutasse l’importanza, ma perché per lui era più importante fare prima altre scelte: quella dell’autonomia, appunto. E del resto qualcuno ha detto che anche Gramsci non sarebbe stato Gramsci se avesse avuto una cultura marxista più rigorosa: ma è proprio per questo che è andato anche più di là.
«Il sindaco di Lula probabilmente non ha letto Marx e non ha letto nemmeno Lussu: ma è certamente il personaggio più “lussiano” che ci sia in Sardegna oggi. Anche se, evidentemente, a livello municipale».
Un nuovo Lussu potrebbe venir fuori, forse, soltanto dai nostri emigrati, ma dovrebbero essere tutti insieme. Quando il sardo si trova in un ghetto fa la Brigata Sassari… «Ed è perciò che io – soggiunge Pira –, ancora, non capisco la scissione del ’48 del PSd’A. Se io potessi dimostrare scientificamente perché Lussu ha sfasciato il partito sardo, mi riterrei scientificamente soddisfatto e arrivato. Perché sfascia il PSd’A? Forse per i limiti della sua capacità di democrazia, forse per un fenomeno di provincialismo del quale anche lui è toccato e vuole dare dimensione nazionale a se stesso? Forse anche questo, ma non solo questo. In definitiva Lussu non è riuscito a conciliare il sardismo con la rivoluzione italiana, anche se porta il concetto di autonomia a livello nazionale e internazionale. In un certo senso si potrebbe dire che nazionalmente Gramsci è più sardista di Lussu. Anche se nel Gramsci dei gramscisti prevale l’interpretazione nazionale e il suo sardismo viene connotato come provincialismo (a parte alcuni come Cardia e Berlinguer che, per ovvie ragioni, non sottovalutano questo aspetto), mentre invece è vero il contrario: la sua connotazione è proprio sardista. E mentre in Lussu non è risolta la contraddizione tra sardismo e socialismo, in Gramsci è risolta con l’alleanza tra operai e contadini ciascuno secondo la propria identità. Credo che Gramsci non avrebbe commesso l’errore di spaccare il PSd’A».
Un altro po’ di tequila e la chiacchierata continua sul laicismo di Lussu, anche su suo anticlericalismo, sulla sua mentalità «da generale castrista» per poi arrivar ai “famosi” contatti che – secondo alcuni – avrebbe avuto con il gen. Gandolfo per portar il sardismo nel fascismo. «Lussu non poteva essere fascista: l’antifascismo di Lussu è strutturale; lo strutturalismo insegna che non sono gli eventi che contano nell’esame storico, ma, nella lunga durata, le mutazioni delle strutture sociali. Lussu nel fascismo rifiuta una struttura dello stato che è inconciliabile con la società sarda. Lui sa che il fascismo non è tanto Mussolini o il PNF, ma è la “controstruttura”. La negazione di quella società essenzialmente egualitaria e libertaria che egli progetta. Nella sua società – in virtù proprio del suo gusto per l’autonomia – c’è posto per qualsiasi anticonformismo. Gli storici democratici borghesi affermano che il fascismo è sovversione di destra. E’ il capitalismo che, per evitare che il suo stesso sviluppo porti al socialismo, oppone come forza di reazione, il fascismo, l’arresto cioè della democrazia rappresentativa borghese perché non prevalga la valenza socialista che pure è dentro la società capitalistica. La versione antifascista di Lussu è anche questo, ma c’è in più anche il vedere nel fascismo la negazione di ogni libertà non solo individuale, ma anche delle culture antagoniste del capitalismo.
«Lussu era soprattutto un istinto: quando cerca di teorizzare finisce per fare il narratore; e gli riesce bene. L’ideologia, per uno strutturalista, è l’equivalente moderno della mitologia dei popoli primitivi. L’efficacia della struttura sociale si misurava con la capacità di aderire al mito. Il “re pastore” del quale parla nella prefazione del “Cinghiale del diavolo” non è mai esistito, ma il mito serve per conservare l’armonia del villaggio. Ecco, Lui era il mito, ma egli stesso – che aveva un retroterra critico – non vi si riconosceva. Autonomo anche nei confronti del proprio mito. Lenin, Stalin creano il mito di se stessi. Lussu no: sa che il mito è falsa coscienza. Il gruppo che lo ha chiamato a rappresentarlo è un gruppo in definitiva composito che ha bisogno di identificarlo mitologicamente, ma lui non sta al gioco. Era il superego non di una sola generazione, ma di varie generazioni. Ricordo che da ragazzino nei quaderni scrivevo non soltanto “W io”, ma soprattutto “W Lussu”. Era l’antifascista del quale parlavano bene anche i fascisti perché con lui non tornavano i conti alla propaganda partigiana. Ed egli stesso ha liquidato il suo mito. Per operare la saldatura sarebbe dovuto essere o troppo piccolo o troppo grande. E non era né l’uno né l’altro».
E’ un personaggio, Lussu, sul quale bisogna comunque misurarsi oggi in Sardegna. Una pietra di paragone. Almeno perché non ha mai disertato: «La libertà – diceva – non esiste: è una conquista». Bisogna crearsela.
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Un combattente per la libertà. La scomparsa di Dino Giacobbe, uno dei padri dell’Autonomia (Il Messaggero Sardo, febbraio 1984)
Finché ha potuto Dino Giacobbe ha vissuto nella casetta che s’era costruito poco fuori Nuoro, su uno sperone di roccia che domina la vallata verso Siniscola: un punto splendido, un “nido d’aquila” che si addiceva perfettamente alla figura di quest’uomo che, pur essendo stato protagonista di alcuni dei più importanti fatti politici della nostra storia, aveva preferito mettersi in disparte o, meglio, aveva finito per non riconoscersi in questo mondo che era nato anche perché lui aveva combattuto per esso. Succede a molti padri di non riconoscersi nei figli, immaginate in politica!
Dino Giacobbe non era di quegli uomini che su un episodio della loro gioventù costruiscono tutta la loro vita. Non aveva i vezzi del reduce e raccontava soltanto dopo molte sollecitudini e soltanto se si fidava delle persone che aveva dinnanzi. Preferiva parlare, ancora una volta, del futuro, di come questa Sardegna potrebbe essere e non è ancora. E’ morto a 88 anni, ma fino a poco prima aveva ancora la forza e la fantasia per progettare per la Sardegna un futuro diverso da quello attuale. Non si riconosceva in questa autonomia che, come diceva Lussu, assomiglia a quella che avevano progettato i padri dell’autonomismo come il gatto assomiglia al leone: entrambi sono felici, quanto diversi. E Dino Giacobbe era un lussiano e, si può dire, lo è stato per tutta la vita anche quando, proprio per il suo spirito d’indipendenza, non era del tutto d’accordo con lo stesso Lussu.
Dino Giacobbe era nato nel 1896 e quando partì per il fronte della “grande guerra” aveva vent’anni. Ingegnere, aveva fatto l’ufficiale d’artiglieria, ma soprattutto visse quella durissima esperienza come esperienza politica. Così come le migliaia di altri sardi della Brigata Sassari e degli altri reparti combattenti, la vita di trincea fu per lui soprattutto scuola politica. Certo, la guerra ebbe tra le sue vittime anche alcuni, come Attilio Deffenu, che se fossero vissuti avrebbero dato al movimento dei combattenti prima e autonomista dopo un’impronta di non secondaria importanza. Quella esperienza di guerra maturò un’intera generazione che fu fondamentale per la storia moderna della Sardegna. Tornato in Sardegna si trovò tra i dirigenti del movimento che fondò il Partito Sardo d’Azione. Con Emilio Lussu, Luigi Oggiano, Francesco Fancello, Camillo Bellieni, Giovanni [recte: Luigi] Battista Puggioni, Pietro Mastino, Dino Giacobbe fu tra i protagonisti della lotta politica.
Come professionista aveva preso servizio alle dipendenze della Provincia di Nuoro ed aveva partecipato ai lavori per la costruzione della diga sul Tirso, allora la più grande d’Europa.
Quando il fascismo conquistò il potere Dino Giacobbe non si nascose e non nascose le sue idee. Cominciò dapprima a perdere il posto alla Provincia, poi ad essere continuamente sorvegliato anche nella sua attività professionale, nei suoi spostamenti per i lavori di bonifica etc. Non è che non ci fossero per la polizia politica ragioni di sorvegliarlo. Egli infatti era diventato uno dei terminali sardi del movimento di Giustizia e Libertà che i fratelli Rosselli avevano fondato a Parigi insieme con Emilio Lussu appena fuggito dal confino di Lipari. Fu probabilmente una soffiata che dette inizio all’inchiesta che mandò in prigione Francesco Fancello, Cesare Pintus, Michele Saba e convinse Dino Giacobbe a fuggire all’estero. Si imbarcò in una barca di pescatori a Siniscola, grazie all’aiuto di alcuni amici tra i quali Alessandro Nanni (diventato poi un esponente socialista) e raggiunse la Corsica. Di là il grande salto a Parigi dove, insieme con Lussu, partecipò al movimento di Giustizia e Libertà e collaborò al giornale con lo pseudonimo barbaricino di “Garroppu”.
I critici un po’ superficiali di Emilio Lussu lo descrivono come un mirabile e coraggioso uomo d’azione, ma un debole teorico: un esecutore di progetti politici d’altri. Niente di più falso: c’è, casomai, il versante, non sufficientemente indagato, dell’imperativo morale di una generazione che, appunto alla scuola della trincea, aveva imparato che anche in politica ci si deve esporre di persona. E, quando è necessario, pagare. Così fu anche per Dino Giacobbe. Non fu soltanto un capo militare per apprezzabile che sia questa funzione quando si combatte. Fu un politico che scendeva in campo aperto. Anche quando era molto pericoloso. Anzi, soprattutto allora. C’è una bellissima pagina della figlia, la scrittrice Maria Giacobbe (la maestrina a Orgosolo), che racconta della grande rivelazione che, a lei bambina, fece il padre. Lei riteneva che suo padre, che combatteva contro i potenti della terra facendo cose mirabili, fosse un uomo coraggiosissimo, incurante dei pericoli e superiore ad essi. Il padre, con molta semplicità, le rivelò invece di sentire una grande paura nel fare quelle azioni, solo che riteneva di avere il dovere di farle e allora le faceva, anche se con grande paura. La bambina, dopo un momento di delusione, deve aver imparato ad amarlo di più, a stimarlo di più e, forse, a tremare un po’ di più per lui. Perché ciò che faceva non era certamente di tutto riposo.
Quando infatti il “golpe” militare di Franco divise in due la Repubblica spagnola i democratici del mondo (ma non tutti i governi delle grandi democrazie) compresero che in Spagna passava lo spartiacque tra democrazia e fascismo e che là si combatteva la prova generale di quello che sarebbe stato il secondo conflitto mondiale. Il movimento di Giustizia e Libertà non ebbe esitazioni e, anche su impulso di Emilio Lussu, partecipò alla formazione delle brigate internazionali che accorsero in Spagna a dar man forte alla Repubblica. In quelle formazioni c’era anche la “Batteria Rosselli” comandata proprio dal vecchio ufficiale d’artiglieria Dino Giacobbe; sulla bandiera, oltre al simbolo di Giustizia e Libertà, anche i quattro mori del PSd’A, l’unico partito regionale che partecipò con tutti gli altri movimenti democratici alla guerra di Spagna.
Nella casetta fuori Nuoro di Dino Giacobbe, quella bandiera era affissa al muro, unica testimonianza visibile del passato di quello straordinario personaggio che non parlava mai di se stesso. Preferiva parlare di quei sardi che erano morti a Monte Pelato e nelle altre battaglie di quella sfortunata guerra. Dopo la sconfitta Dino Giacobbe ritornò in Francia e quindi fuggì in America dove divenne amico di Gaetano Salvemini. Seppure in contatto con Lussu, insieme con lui progettò di ritornare in Sardegna per provocare una rivolta popolare contro il nazifascismo: gli alleati respinsero il progetto e preferirono lo sbarco in Sicilia.
Tornato in Sardegna dopo la liberazione, non volle accettare cariche pubbliche ma partecipò attivamente alla vita politica, sempre dalla parte di Lussu. La scissione del PSd’A lo vide tra coloro che fondarono dapprima il Partito Sardo d’Azione socialista alla vigilia delle prime elezioni regionali, che confluirono nel Partito Socialista e, alla scissione, fondarono il PSIUP. Giacobbe però, ormai, non partecipava più alla vita politica. Soltanto negli ultimi anni, quando ha sentito più vivo l’interesse dei giovani per ricercare le radici dell’autonomismo sardo ha ricominciato a frequentare convegni e a parlare, non di se stesso, ma, come per i morti di Monte Pelato, di coloro che hanno avuto una parte importante nella nostra storia e che invece sono stati sommersi dal mare del conformismo e del burocratismo.
Quando è stato commemorato al Consiglio regionale dal presidente Rai un consigliere regionale ha fatto questa considerazione: «Se avessimo avuto più uomini dello stampo di Dino Giacobbe, oggi la Sardegna sarebbe in ben diverse condizioni». Era il giudizio di uno che certo non condivideva le idee di Giacobbe, ma che riconosceva il valore della sua testimonianza politica e culturale.
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La Sardegna piange la scomparsa di Mario Melis(Il Messaggero Sardo, dicembre 2003)
Con Mario Melis è scomparso un vero capopopolo. Tale si sentiva quando assunse, primo sardista, la carica di Presidente della Regione, tale è sempre stato durante l’assolvimento dei suoi numerosi incarichi politici, ma anche nel suo intimo fino all’ultimo.
«Amministrare la Regione sarda, scrisse lui stesso qualche anno fa, significa riaccendere alla speranza su tutti i valori che illuminano e danno senso al travagliato cammino di ogni popolo: specie nel caso dei Sardi che sono stati oggetto di pressione coloniale per oltre due millenni. Solo il tradimento delle classi dirigenti, il loro subalterno e ancorché rissoso accettare il prevaricante potere esterno, sono all’origine della sconfitta storica». La sincerità del Presidente, la sua lealtà, l’entusiasmo e l’impegno, l’intimo identificarsi con il travaglio spirituale del suo popolo diventano messaggi che il popolo coglie, fa propri identificandosi con il suo Presidente.
Era un discorso generale sulla figura del presidente della Regione, ma era anche un autoritratto. Fedele all’originale si può dire ora. E ciò senza alcun intento agiografico, ma riandando con il pensiero alla sua lunga carriera politica, ai cento e cento episodi che lo hanno visto protagonista ed anche ai suoi sfoghi, alle sue invettive, alle sue speranze e alle sue confidenze che spesso affidava agli amici, soprattutto a coloro coi quali faceva progetti per il futuro. Progetti dei quali il soggetto era naturalmente la Sardegna, vista nella sua realtà di oggi, ma nel contesto mediterraneo ed europeo e cioè in un prossimo e possibile futuro.
La storia si scrive sine ira et parte, senza rancori e senza partigianerie ed anche lontano nel tempo dagli accadimenti. Ma per Mario Melis si può dire fin d’ora, quando la sua scomparsa è recentissima, che è già entrato nella storia dell’autonomia e della Sardegna. Lo testimonia l’unanime cordoglio suscitato dalla sua scomparsa: in Sardegna e altrove.
Chi ha avuto il privilegio di frequentarlo anche dopo la sua uscita dalla scena politica (situazione che ha sempre considerato provvisoria) ha potuto constatare che per la gente incontrata magari in un caffè o all’edicola dei giornali rimaneva “il presidente Melis”.
Nel mondo politico, sardo o romano, una volta che si è stati presidenti di qualcosa si viene appellati sempre con presidente. Per la gente comune quel Presidente Melis sembrava non un appellativo, ma il nome proprio, connaturato con il personaggio. Molti di coloro che gli capitava di incontrare si presentavano dicendo «lei non mi conosce, ma lei…». Ed allora domandava subito da quale paese o città proveniva, come si chiamava ed era raro che non conoscesse qualcuno con lo stesso cognome e che non si fosse interessato da assessore o da presidente regionale, da parlamentare italiano od europeo, di qualche problema della zona dell’interlocutore: ne ricordava i particolari, i protagonisti ed anche gli antagonisti.
Oratore di grande forza cominciava il suo dire a bassa voce, quasi mormorando per poi man mano sollevare il tono a seconda del sentimento che sapeva trasmettere, fino all’entusiasmo, fino all’esaltazione soprattutto quando doveva difendere la Sardegna, soprattutto con interlocutori esterni. Si ricordino, a questo proposito, le reazioni che la stampa italiana, ma anche estera e soprattutto di alcuni avversari politici di caratura nazionale, riservarono alla sua elezione alla Presidenza. Ci fu addirittura chi lo definì mezzo terrorista.
A tutti seppe rispondere con grande dignità, intelligenza ed anche ironia («perché mezzo?»).Si precipitarono in Sardegna frotte di giornalisti italiani e stranieri, spesso animati da pregiudizi nei confronti della Sardegna paese di banditi, ignoranti e queruli, incapaci di utilizzare i fondi che la Nazione aveva elargito A tutte le domande più insidiose sapeva dare una risposta convincente facendo la storia, quasi sempre ignorata dall’interlocutore, della lunga lunghissima marcia dell’autonomia speciale, delle lotte e degli impegni mai mantenuti dai vari governi per secoli. Sapeva contestare i pregiudizi, anzi aveva l’abilità di servirsene per spiegare la vera natura dei molti problemi dell’Isola e inquadrarli nel contesto politico contemporaneo di sviluppo e di nuove relazioni con il mondo. Il mare, ripeteva spesso, «non è e non deve essere un confine, ma è un mezzo di comunicazione. Non autoreferenzialità, ma apertura al mondo».
I giornalisti, talvolta venuti per accusare, se ne ripartivano convinti di dover difendere la Sardegna e il suo Presidente. Lo testimoniano i servizi pubblicati. E così Mario Melis divenne il paladino non soltanto della Sardegna, ma di tutte le autonomie locali e quando fu organizzata a Montecitorio un’assemblea straordinaria che vedeva riuniti il Parlamento e tutte le Regioni a parlare per le autonomie speciali fu scelto Mario Melis e i cronisti parlamentari, quando si presentò alla Camera, si assieparono intorno a lui per domande e immagini. Soltanto al presidente Pertini, giunto poco dopo, fu riservato lo stesso omaggio.
Quando fu invitato a colloquio con l’ambasciatore statunitense Raab per trattare della base di sommergibili atomici a La Maddalena (oggi ancora all’ordine del giorno), il diplomatico americano nel congedarsi gli disse: «Credevo di dover parlare con un amministratore locale e mi rendo conto di aver parlato con uno statista». La base naturalmente è rimasta dov’era, ma il giudizio che non era soltanto un diplomatico eccesso di cortesia era anche un riconoscimento della… speciale specialità della Sardegna, e ci si perdoni il bisticcio di parole.
Tutta la sua vita è testimonianza di dedizione alla Sardegna e ai Sardi, anche coloro, moltissimi, che sono espatriati in cerca di lavoro.
Mario Melis, anche quando non era impegnato in cariche pubbliche non ha mai rinunciato agli inviti che gli rivolgevano le varie associazioni di emigrati. È stato un po’ in tutto il mondo e sempre ha portato un messaggio non soltanto di speranza, ma soprattutto di orgoglio e di dignità. Nel discorso programmatico da Presidente indicò nel mezzo milione di emigrati sardi non soltanto un legame sentimentale e di appartenenza, ma una risorsa per la Sardegna del futuro. Quella che dialoga con il mondo e mette a frutto le nuove professionalità conquistate a prezzo di enormi sacrifici. E tra gli emigrati poneva anche i tanti cervelli, di imprenditori come di ricercatori scientifici, sparsi nel mondo.
Al potenziamento della ricerca scientifica in Sardegna ha dedicato una parte notevole della sua attività di governo, vista come fattore di sviluppo culturale ed economico. Così anche per il carbone del Sulcis considerato dai più come un pozzo senza fondo di contributi pubblici, mentre per lui rappresentava un patrimonio per la Sardegna e per l‘Europa che avrebbe assicurato l’autonomia energetica alla Sardegna.
Era andato in America per constatare quanto rilevante fosse la quota energetica fornita dal carbone anche in un paese produttore di petrolio e come le tecnologie moderne possano consentire uno sfruttamento privo di inquinamento. Ma come, per altre questioni, Egli era più avanti di altri e il contesto politico non gli permise di realizzare quanto aveva progettato. Oggi sono i congressi scientifici (come quello che si è tenuto a Chia pochi mesi fa) a dimostrare che aveva visto giusto e, tra l’altro, che proprio il carbone potrà essere decisivo per la realizzazione del nuovo motore ad idrogeno. Colui che riesce ad antivedere spesso deve attendere anni perché gli si dia ragione. Così è stato per la zona franca, per l’economia marittima, per le banche, i trasporti aerei etc. Tutti nodi dell’economia sarda e della sua insularità. Che può essere una risorsa in un quadro di politica mediterranea-europea diversa da quella dei suoi tempi.
Mario Melis era coetaneo del Partito Sardo d’Azione essendo nato nel 1921 a Tortolì. Figlio di un maresciallo dei Carabinieri frequentò le elementari a Baunei dove il padre era comandante della stazione e le finì a Nuoro dove la famiglia si trasferì definitivamente: Laureato in giurisprudenza faceva l’avvocato come il fratello Titino, Giovanni Battista Melis, il quale fin da ragazzo (fin dall’epoca delle camicie grigie lussiane) era sardista. Mario era l’ultimo di otto fratelli (quattro maschi e quattro femmine) ed era ancora un bambino quando il fratello Titino fu arrestato a Milano per attività antifascista insieme con Lelio Basso, Giorgio [recte: Ugo] La Malfa, Flavio Batzella, sardo, in un’inchiesta nella quale erano stati coinvolti anche altri sardi come Francesco Fancello, Cesare Pintus, Michele Saba accusati di contatti con Lussu che aveva fondato a Parigi Giustizia e Libertà con i fratelli Rosselli.
Pur appartenendo ad una famiglia antifascista e pur venerando i fratelli e le sorelle (Pietro che fu più volte assessore regionale, Pasquale che divenne un alto dirigente della Regione) e in particolare Titino che gli fece da padre quando rimasero orfani, il giovane Mario si iscrisse nelle organizzazioni giovanili fasciste, non soltanto come difesa della famiglia, tenuta sotto sorveglianza dall’OVRA, ma anche perché suggestionato dalla propaganda patriottica del Fascismo. Così, scoppiata la guerra, partì per il fronte sloveno dove vide afflosciarsi tutti i discorsi magniloquenti della retorica fascista e vide le condizioni miserevoli del nostro esercito e il vuoto politico e di valori del regime. Riuscì a farsi trasferire in Sardegna dove già si lavorava per un’alternativa al fascismo.
Alla caduta del regime collaborò con i fratelli alla rifondazione del Partito Sardo d’Azione, alla costituzione di nuove sezioni e a propagandare un nuovo modello di stato di tipo federalista quale era stato concepito dal primo Sardismo negli anni ‘20. Del primo statuto del PSd’A amava ricordare soprattutto l’europeismo: parlare di stati uniti d’Europa nel 1921 non era infatti cosa di poco conto.
Cominciò così la sua carriera politica, prima consigliere comunale ad Oliena, paese d’origine della sua famiglia, e poi sindaco per circa nove anni. Quindi consigliere regionale, poi nuovamente sindaco di Oliena, ma per poco più di un anno perché fu eletto senatore: lasciato il Senato fu rieletto al Consiglio regionale e divenne assessore all’Ambiente. Nel 1983 si dimise dal Consiglio per presentarsi alla Camera e fu eletto, ma restò in carica poco più di un anno per presentarsi nuovamente al Consiglio regionale. Era la stagione del vento sardista Il PSd’A aumentò i suoi consensi e la sua rappresentanza in Consiglio crebbe del 400%. Fu eletto Presidente della Regione, carica che mantenne per tutta la legislatura. Fu rieletto consigliere regionale e una settimana dopo deputato europeo.
Anche nel Parlamento europeo il suo impegno fu tale che si procurò un infarto, ma, ripresosi, continuò con il consueto fervore. Numerosissimi suoi interventi a favore della Sardegna, ma non solo. Fu relatore sulle questioni dei rapporti tra Europa e stati africani per la tutela ambientale del Mediterraneo, sulle nuove tecnologie per l’utilizzazione del carbone a scopi energetici e soprattutto sui temi istituzionali quale l’istituzione della Commissione consultiva delle regioni europee. Come si vede, anche trattando temi generali la Sardegna rimaneva l’obiettivo.
Anche da semplice cittadino non diminuì il suo impegno politico e culturale. Non soltanto nel suo partito, ma anche all’esterno, nel tentativo di realizzare il suo sogno che era quello di riunire tutto il Sardismo che c’è in Sardegna, dentro e fuori del PSd’A. Non a caso il suo ultimo impegno pubblico fu l’assemblea del luglio scorso intitolata “Sardegna libera”. Un sogno che rimane ancora tale, forse anche perché non c’è più chi sapeva infiammare gli animi e indicare un futuro possibile.