La cultura politica in frantumi, un pragmatismo elettorale senza anima, anche a Cagliari, di Gianfranco Murtas

Scrivo queste note il 2 giugno, nel 70° del referendum istituzionale che donò all’Italia la repubblica, antico sogno dei migliori. E mi viene spontaneo associare la data della memoria, insieme patriottica e democratica, della nazione a questa nuova di vigilia elettorale a Cagliari.

In quel lontano 1946 la città capitale della Sardegna si espresse, come tutta l’Isola, ma più ancora di tutta l’Isola, a favore della monarchia (rispettivamente 72,2 per cento, 60,9 per cento), ed anche i risultati del voto per la Costituente, nello stesso giorno, rappresentarono un successo importante, come già era accaduto alle amministrative di marzo, per i settori più sensibili ai richiami del legittimismo – anche e soprattutto in campo cattolico e clericale – e perfino alle nostalgie di quel regime che ci aveva portati alle rovine della guerra, dopo vent’anni di dittatura.

Fino a tutti gli anni ’80 la Democrazia Cristiana tenne saldamente il controllo delle leve di comando dell’Amministrazione (e del sottogoverno), con qualche partnership dei socialisti (sindaci Ferrara e Dal Cortivo), tanto più dopo la conta al referendum del ‘74 (sulla legge del divorzio) e l’accenno di svolta registratosi alla consultazione comunale/provinciale dell’anno seguente.

Nella stagione che partì nel 1994, in uno con il maggioritario nazionale – quello della vittoriosa tragicommedia di Berlusconi e dei suoi obbedienti, quello che poi sarebbe stato anche della omologazione sarda alla patria odiata dai sardisti (i quali donarono la bandiera della storia al colonizzatore della bandana e del doppio porto a Villa Certosa e si strinsero al nuovo duce, ignari di poter mostrare, volendo, la spina dorsale) – s’avviò la stagione forzista in città. Sedici anni, con le glorie del Poetto e dell’Anfiteatro romano e la toponomastica riequilibratrice dei fasti dark.

Cinque anni fa, proprio di questi tempi, davanti alla competizione di ballottaggio per la prima magistratura civica fra Massimo Fantola – rappresentativo dello schieramento cosiddetto ancora di centro-destra – e Massimo Zedda – esponente invece dell’area non meno composita (e parimenti d’ignota, o incerta, identità) del centro-sinistra – svolsi qualche libera considerazione, nel sito di Fondazione Sardinia, come poteva svolgerla uno di formazione democratica, cresciuto nel campo assolutamente minoritario, marginale e paradossalmente eccentrico del repubblicanesimo sardo, di derivazione mazziniana e azionista, radicato in un sentimento autonomistico consapevole, sempre e comunque, di una superiore responsabilità nazionale. Per dire dell’impronta lasciata da uno dei padri della Repubblica nata dalla resistenza antifascista e antiburgunda, come Ugo La Malfa (e con lui da uomini d’eccezione, a conoscerli per davvero nelle lunghe stagioni di vita offerte, anche nelle galere! al servizio della paese contro la dittatura e per la democrazia), e da uno dei leader di maggior prestigio nell’associazione dei valori politici, in chiave ovviamente liberaldemocratica (di stampo gobettiano e filiazione dagli “Amici del Mondo”), a quelli culturali come Giovanni Spadolini.

Avevo visto, con dolore, frantumarsi per degenerazione accelerata anche il mio partito, non soltanto sulla scena nazionale ma anche in Sardegna, ed avevo imparato, liberandomi delle ultime illusioni, che molta della colla aggregatrice degli anni trascorsi era intimamente avariata perché aveva stretto fra loro, per lungo tempo, elementi che avevano un comune riferimento soltanto nel raggio corto del transitorio contingente – le posizioni di micropotere, l’ambizione elettorale –, ma muovevano da idealità profonde e da sensibilità civiche estremamente eterogenee e perfino, a renderle scoperte, incompatibili. La stessa sorte era capitata nelle aree politiche variamente contigue sullo sfondo della condivisa tradizione laica e riformatrice com’erano quelle del PSI, del PSDI e del PLI, dei partiti risorti anch’essi a vita nuova ma nella fedeltà – così doveva essere – alla propria storia ideale, nel 1943. Pari discorso ben poteva farsi per il Partito Sardo d’Azione, con tutte le sue peculiarità in cui entravano, insieme con il dibattito sulla natura e la forma della autonomia da conquistare nel quadro nazionale, le polemiche sul tanto di socialismo che i lussiani attribuivano all’istanza sardista, contro il prevalente sentire degli altri dirigenti e militanti. I nazionalitari degli anni ’90 e successivi abbracciarono la destra, a conferma dello spirito reazionario che connota ogni luogo politico che fa del territorio invece che dei valori universali tradotti in programma il centro della propria battaglia politica. Confondendo la legittimità del movimento corrente, di sua natura sociale e culturale, che ben può centrare la sua battaglia sul bilinguismo o sulla zona franca, con i ruoli dei partiti che debbono operare nelle istituzioni elaborando non un tema ma tutti i temi.

La cosiddetta prima Repubblica con le fatiche della ricostruzione e poi i piani di sviluppo socio-economico, di lato alla sistemazione dell’ordinamento, s’ è espressa in un discutere e in un fare all’interno della convinzione, portata dalla stessa storia vissuta dalle generazioni, che le grandi correnti ideali e valoriali dell’Otto-Novecento non avessero smesso di essere, e di dover essere, il propellente anche del pensare moderno, dentro le questioni, e anche le rigidezze, del quadro internazionale. Così per la persistenza della cortina di ferro in Europa, orientandosi l’oligopolio mondiale russo-americano su grandi aree di influenza economica e militare anche in Asia e Africa (e America latina) all’indomani del processo di decolonizzazione, degli svolgimenti postmaoisti in Cina, ecc. E mentre l’economia (e il costume sociale nell’economia) innescava accelerazioni tecnologiche di cui oggi conosciamo i dati evoluti. Il pensiero cattolico che poteva sostenere un De Gasperi, un Adenauer, un Monnet, soprattutto uno Schumann, s’era incontrato, dopo lo sfascio della seconda guerra mondiale, con quello democratico e socialista che in Italia ben poteva riferirsi agli ex prigionieri di Ventotene – come Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi –, od a personalità come il belga Paul Henri Spaak, e perfino (almeno per suggestioni e profili di lungo periodo, e in campo conservatore) come il britannico Winston Churchill. Né spariva di certo il retaggio ideale e popolare del primo profeta, di Giuseppe Mazzini cioè, e della sua scuola.

Erano fuori da questi orizzonti i comunisti – e quale torto essi hanno fatto all’Italia e all’Europa con i loro ritardi dottrinari e il loro filosovietismo! – e naturalmente gli estremi della destra nazionalista, qualunquista e parafascista.

La politica esiste ancora nel sentimento pubblico?

Ripenso a questo quadro “ingegneristico” della nuova realtà continentale che dal 1950 aveva preso le mosse e quasi tutti ci impegnava a contribuire. Anche noi, bambini in quegli anni, con i temi scolastici… E ripenso alla novità espansiva dei trattati della Comunità Europea, poi Unione Europea, dopo il 1989, alle partecipazioni crescenti, e non sempre felici purtroppo, anche di nazioni e stati liberati dalla morsa del comunismo di stato. Ne parlo, alla MEM, con alcuni ragazzi che si apprestano anch’essi a volare sulle rotte dei programmi Erasmus. Essi vivono l’Europa diversamente da come la viveva la mia generazione. La sensazione – soltanto la sensazione – è che si tratti però di un vivere il presente (e il futuro immediato) senza una consapevolezza del lavoro che è costato quest’oggi europeo peraltro, a guardare le scelte di governi e parlamenti così nell’economia come nell’accoglienza dei flussi migratori dal mondo povero, ancora tanto problematico e contraddittorio.

Ritorna il refrain di una riflessione più sconsolata che ottimistica: se cioè la cultura politica dell’Otto-Novecento impostata per grandi correnti ideali – il socialismo e il liberalismo che ponevano il centro della libertà nell’economico, la democrazia radicale che lo poneva invece nell’istituzionale e nel civile, il cattolicesimo pure (con tutti gli arrancamenti clericali, in specie in Italia, Francia e penisola iberica) d’impianto magari personalistico e variamente poi declinato, direi anche il comunismo nella tensione migliorista, cioè nel superamento del dogma di classe e nella proiezione, favorita qua e là da crescenti responsabilità di governo, a più generali interessi nazionali – abbia davvero esaurito la sua vitalità. O se non siamo noi a non aver saputo individuare quei passaggi attualizzatori, sicché non soltanto la tensione ideale ma anche l’impianto e la scala valoriale possano essere colti come energetici dell’oggi e del domani collettivo.

Sì, ritorna il refrain anche in questi giorni di vigilia elettorale amministrativa, deideologizzata, tutta puntata, a compensarsi reciprocamente, su figure leaderistiche e su liste cosiddette civiche per il più, invero, improvvisate, spalmate sul nulla (non tutte, quasi tutte) senza collante di alcun genere e magari, dove più dove meno, con partecipanti di quinta fila occhieggianti ad opportunità (inconfessate ambizioni) di seggio e gettone di presenza. Sotto questo profilo, tanto più le grandi aggregazioni paiono omologate al più basso livello del concorso. Quando il tifo per il candidato sindaco sostituisce l’impegnativo approfondimento della sua visione programmatica in uno alla adesione critica alla sua visione etico-civile (se ce l’ha), quando la cessione riempitiva del proprio nome prelude a possibili allettanti negoziazioni talvolta perfino venali.

Spettatore di logiche che mi paiono tutte o quasi prive di valore civico reale penso al senso e al significato del mio voto che conta uno, al diritto-dovere di riempire una scheda e imbucarla nell’urna, al dirmi domani soddisfatto e perché e come e quanto del risultato.

Sognando l’anatra zoppa e un giornale analista

Detto il no in assoluto, per personale disistima, ai due candidati che si immaginano più forti elettoralmente, ipotizzerei come male minore, per la città, l’anatra zoppa, tale da costringere a un patto civico tanto impegnativo quanto trasversale: un Massidda sindaco ma con maggioranza consiliare di centro-sinistra, oppure uno Zedda sindaco ma con una maggioranza in aula di centro-destra; con ruolo più che di tribuna però degli altri, in specie di Lobina e Matta che mi sarebbe piaciuto avessero collaborato fra loro proponendo lista e programma concordati. Entrambi – Lobina e Matta – rappresentano, nel mio sentire, il meglio che l’offerta dei candidati sindaco oggi a Cagliari pone al nostro giudizio di cittadini qualsiasi, portatori entrambi di un savio gusto insieme alla democrazia formale (il senso istituzionale) e alla democrazia reale (leggi partecipativa). Ma vorrei che una rappresentanza certa l’avessero anche quelli che si riconoscono nelle figure di Agus, Casu e Martinez, che non conosco ma immagino animati – anch’essi – da volontà positive.

E mi piacerebbe che il giornale della città, dico L’Unione Sarda che tante stagioni contraddittorie, tante cadute e tante rialzate ha conosciuto nei quasi centotrent’anni della sua storia, lanciasse – qualificandosi oggi e domani sul piano nazionale – un originale allestimento nella sua redazione: un corpo di venti-trenta personalità di riconosciuti talento e competenza nei diversi settori della vita sociale ed amministrativa, che potesse accompagnare, vigilando, criticando, controproponendo, l’azione della prossima municipalità, fra Consiglio e giunta. La pubblica tribuna dovrebbe evitare cedimenti partigiani, ma credo sarebbe soprattutto l’onestà intellettuale e il sentire comunitario – giusto di Cagliari come comunità, tanto più nella prospettiva dell’area metropolitana, e nel riordino del sistema isolano degli enti locali – dei partecipanti, a garantire la lucidità delle analisi e il loro rilancio nel dibattito cittadino nonché, in ultima istanza, nella ripresa e libera e autonoma valutazione delle istituzioni rappresentative.

Una stagione neobacareddiana

Cinque anni fa mi era parso che diversi dei candidati esordienti nella lista elettorale della sinistra potessero restituire alla città, con Zedda sindaco, uno slancio impossibile alle menti stanche della destra: Francesca Ghirra e Matteo Lecis Cocco Ortu – quanta bella storia nelle famiglie di entrambi! –, ma anche Maurizio Chessa – l’allievo prediletto dell’indimenticato Franco Oliverio! –, Tanino Marongiu – manager di livello ed esperienza democratica –, quanti altri, ancora oggi, come Guido Portoghese, che avrebbe potuto essere un eccellente assessore nella scorsa consigliatura…

Mi era sembrato che il PD e la sua coalizione potessero portare nella Cagliari del 2011 lo spirito del miglior bacareddismo del 1889 e direi però anche e soprattutto del 1911 – giusto di cento anni prima quel nuovo appuntamento elettorale – quando nel bellissimo discorso del novembre, ancora nell’antico municipio, il grande sindaco aveva segnato, con parole chiare da tradurre in opere concrete, il passaggio certo dal liberalismo alla democrazia. (E quanto fastidio proverebbe oggi un Bacaredda redivivo ad ascoltare un demagogo semplicista e pericoloso come Renzi ed i suoi obbedienti, lo saprebbe soltanto chi Bacaredda se lo è letto tutto, saggi giuridici e commedie o racconti inclusi nell’opera omnia andata in parallelo alle fatiche dell’amministrazione!)

In tema di rapporto con la cittadinanza la giunta Zedda è stata pessima. Un numero imponente di cagliaritani quidam hanno chiesto udienza non l’hanno mai ricevuta – nel novero anche il fondatore-direttore dell’Almanacco! –, altri hanno scritto e hanno offerto del loro, gratuitamente, più volte, e non hanno avuto risposta, io stesso per questioni forse meno impellenti ma comunque tutte volte al decoro pubblico… zero.

Il sindaco Zedda ha mostrato sorprendenti incapacità di visione civica, tanto più in occasione della vicenda della Marina, quando ha cercato sponda in un vescovo prepotente per non riconoscere i meriti civili – civili! e sociali, nella pedagogia scolastica (alfabetizzazione e recupero degli studi fino alla laurea!), nella accoglienza inclusiva interetnica, nelle iniziative di cultura (spazio archeologico, museo, teatro) – a un parroco-professore come Mario Cugusi. Ignaro, poveraccio, che a Firenze il cardinale Piovanelli, cresciuto con don Milani, s’era schierato col Comune, contro il muso storto dell’arcivescovo in carica, quando si trattò di premiare in municipio il fondatore della comunità dell’Isolotto… Che pena, il sindaco Zedda. (Ma immagino che pari comportamento avrebbe tenuto Massidda, che in quarto d’ora s’era convinto che Ugo La Malfa galeotto antifascista e un tale collezionista di miliardi e codazzo di Previti e Dell’Utri e Scajola ecc., avessero pari dignità politica, democratica e nazionale, e  non batté ciglio quando il padrone licenziò dalla presidenza del Senato Giovanni Spadolini – professore di storia contemporanea al Cesare Alfieri a 25 anni, direttore del Carlino a 30, per quattro anni direttore del Corriere, dieci lauree honoris causa dall’Alma Mater Studiorum bolognese a Coimbra, da Gerusalemme e Tel Aviv a Delhi, da Baltimora ad Atene, da San Pietroburgo a Beida-Pechino– perché ”abbiamo vinto noi le elezioni e le cariche istituzionali così come i ministeri sono cosa nostra! Che schifezza).

La statura degli uomini è rivelata sempre dalla loro vita vissuta, tanto più nelle circostanze più ingrate. Zedda non s’è mostrato somigliante a Gramsci neppure in centoventiquattresimo, no, proprio no, e Massidda neppure s’è presentato alla gara: ha fatto il deputato e il senatore per vent’anni, appoggiando il peggio disonorevole che la Repubblica potesse, settant’anni fa, immaginare per le proprie carni.

Auguri a Cagliari, ai ragazzini delle scuole che vogliono conoscere il sindaco, se Zedda sarà confermato nella carica o se gli subentrerà Massidda. Io sto con le minoranze critiche.

 

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