Israele, il caso Yaalon e la Palestina impossibile, di Lorenzo Cremonesi

Le dimissioni del ministro della Difesa, le sue dure accuse — «Israele è in mano agli estremisti» — e la sua sostituzione con il super falco Lieberman sono l’ultimo anello di una catena avviata oltre vent’anni fa con l’uccisione di Rabin. Il risultato è che l’opzione della divisione della terra in due Stati non esiste più.

 

 

«Perché non hai sparato anche a Shimon Peres, che pure era a pochi metri da te?», chiesero i poliziotti israeliani a Yigal Amir, il giovane estremista ebreo che aveva appena ucciso il premier Yitzhak Rabin durante una grande manifestazione per la pace nella piazza centrale di Tel Aviv. «Rabin era disposto davvero ad abbandonare la nostra terra. Peres solo a parole», spiegò senza esitare Amir.

L’era di Bibi

Sono trascorsi oltre vent’anni da allora. E la storia prova che aveva ragione Amir. Peres, che pure era uomo di punta del laburismo israeliano e poi ricoprì ancora ruoli centrali nella politica nazionale, non fu più in grado di rilanciare il processo di pace. Eliminato Rabin fu anche eliminato il «pericolo» della pace, così come concepito in quel negoziato. Anzi, da allora Israele è gradualmente entrato nell’era di Benjamin Netanyahu, che oggi è al suo quarto mandato di premier e resta lontanissimo da qualsiasi possibilità di intesa con l’universo palestinese, il quale peraltro da allora si è frantumato e diviso tra Olp e Hamas (tocca l’icona blu per il link agli articoli di Lorenzo Cremonesi).

La fine della «Two-States Solution»

Se con Rabin aveva trionfato il principio della resa della terra in cambio della pace, vero motore primo degli accordi di Oslo nel 1993 con Yasser Arafat, da diverso tempo appare invece evidente che quella logica è stata completamente superata dai fatti. Con un pericolo in più: la crescita dell’estrema destra nazionalista israeliana vede imporsi al governo dello Stato personaggi che sono ideologicamente e nella prassi molto più vicini ad Amir che a Rabin, a Peres o allo stesso Netanyahu. La realtà evidente a chiunque oggi compia un viaggio per la Cisgiordania è che le regioni una volta idealmente destinate a costituire il cuore dell’eventuale Stato palestinese sono state occupate dalle colonie ebraiche connesse tra loro da una fitta rete di strade e infrastrutture difficilissime da smantellare. In poche parole: l’opzione della divisione della terra in due Stati non esiste più, ad essa si sovrappone ormai con prepotenza quella dello Stato-binazionale, oppure dell’apartheid, o eventualmente dell’espulsione forzata di masse di civili palestinesi come avvenne nel 1947-49 e, parzialmente, ancora nel 1967 (nella foto sopra il titolo, un’operazione lanciata dall’esercito israeliano all’alba del 30 maggio nel villaggio palestinese di Salem, vicino a Nablus; sotto, una donna dopo la perquisizione della sua casa, Afp).

 

Il destino di milioni di palestinesi

Come ha scritto di recente Thomas Friedman in un editoriale sul New York Times(tocca l’icona blu per leggerlo), «Israele sta sprofondando sempre di più in un de facto Stato bi-nazionale controllato da estremisti ebrei». Lo provano i recenti atti di terrorismo contro civili palestinesi, i continui vandalismi contro campi coltivati, moschee e persino chiese. Il problema è che, svanita ormai da tanti anni l’opzione della pace negoziata, Israele deve fare i conti con il futuro degli abitanti palestinesi nelle terre occupate nel 1967. I quasi due milioni di residenti nella Striscia di Gaza sono come «congelati» in un limbo blindato, che vede ora la cooperazione più o meno ufficiale tra Israele e l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi. Più complicata è peraltro la coesistenza con gli oltre due milioni e mezzo di palestinesi della Cisgiordania.

Il caso Yaalon

Che fare? Le recenti dimissioni da ministro della Difesa di Moshe Yaalon, uomo della destra moderata e prima di tutto militare professionista, e la sua sostituzione con un super falco della statura di Avigdor Lieberman (sotto — a sinistra — con Netanyahu dopo la formalizzazione del loro accordo, il 25 maggio; Afp) mostrano che tutto si sta tentando, tranne che la via del dialogo. Nahum Barnea, noto commentatore del quotidiano Yediot Ahronot, parla del nuovo gabinetto a Gerusalemme come «del più estremista nella storia d’Israele» (tocca l’icona blu per leggere il suo articolo). Il rischio è che ora vengano legittimate le posizioni dei coloni più oltranzisti, che in nome di Dio e del «sacro diritto degli ebrei alla terra di Israele» possano intaccare i ranghi dell’esercito, del ministero della Difesa e dei massimi organi dello Stato. Yaalon, nel congedarsi, ha affermato che «elementi estremisti e pericolosi hanno preso il controllo di Israele e del Likud e ne stanno scuotendo le fondamenta». Due ex ministri della Difesa come il laburista Ehud Barak (che è stato anche premier) e Moshe Arens del Likud (lo stesso partito di Netanyahu) non hanno esitato a lanciare segnali di allarme. Barak è arrivato a dire che il governo di Israele «è infettato dai germi del fascism0».

 

Le «falle morali»

Non a caso hanno sollevato polemiche e perplessità i commenti del vice capo di Stato maggiore, Yair Golan, il quale in occasione delle commemorazioni dell’Olocausto ha puntato il dito contro le «falle morali» emerse tra i soldati nel reprimere le violenze palestinesi. Alcune di queste polemiche sono antiche, se ne trovano echi già nelle guerre del 1948, 1956 e 1967. Ma se quel tragico novembre 1995 Yigal Amir appariva a tanti come un isolato, quasi un caso clinico. Oggi il suo gesto acquista una forte connotazione politica e tanti tra gli annessionisti ne condividono le ragioni ultime.

Il corriere della sera, 30 maggio 2016

 

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