I movimenti populisti e gli errori delle élite, di Angelo Panebianco
Dietro i movimenti cosiddetti populisti ci sono problemi autentici. Solo se verranno offerte risposte convincenti, essi potranno essere battuti. Se si sceglie il silenzio o il disprezzo, allora hanno già vinto e l’Europa andrà in pezzi.
Le battaglie politiche sono condotte usando le parole e se le parole di qualcuno sono sbagliate la sua sconfitta è sicura. Chi continua a usare come un insulto la parola «populisti» per bollare gli attuali movimenti di protesta in crescita in tutta Europa (ma anche negli Stati Uniti), sembra non capire quanto grande sia il favore che ha già fatto e che sta facendo a quei movimenti. Senza rendersene conto sta dicendo all’opinione pubblica, agli elettori, che di qua ci sono coloro che comandano, le élite al potere, con il loro palato fino e il birignao e le arie da aristocratici, e dall’altro lato i «populisti», gli uomini e le donne rudi che si rivolgono al popolo, chiedono il voto del popolo (contro le suddette élite) e parlano anche «come» il popolo. Una volta ascoltate le élite fare concioni contro i populisti, per chi altri, se non costoro, potrebbe mai votare il «popolo»?
Il vero problema, e il tarlo, delle democrazie occidentali non sono i suddetti movimenti di protesta. Sono le non risposte o le risposte sbagliate delle élite, degli establishment. Sono loro a portare la responsabilità per la crescita dei movimenti che li sfidano. Questi ultimi non sono la malattia ma la febbre che segnala la malattia. Di fronte alla marea montante dei movimenti di protesta le élite hanno fin qui risposto con due strategie. La prima è consistita nell’inazione: non fare niente, limitarsi a condannare con parole dure tali movimenti, delegittimarli in ogni modo, e aspettare che passi «’a nuttata».
L a seconda strategia, a cui talvolta si è fatto ricorso quando ci si è accorti che la prima non funzionava, è consistita nel cavalcare la protesta: come hanno fatto i socialisti austriaci al governo minacciando la chiusura del valico del Brennero. Entrambe le strategie sono fallite. La prima perché, ignorando i problemi che hanno fatto insorgere le proteste, non facendo nulla per affrontarli, le ha alimentate. La seconda perché, legittimando implicitamente le tesi dei protestatari, ha convinto gli elettori che fosse meglio fidarsi degli originali anziché delle copie, dei protestatari anziché di coloro che li scimmiottavano. È così che i partiti storici austriaci (socialdemocratico e cristiano – sociale) si stanno suicidando, stanno aiutando chi vuole spazzarli via.
Sono problemi autentici quelli che alimentano i movimenti di protesta. Solo se alle opinioni pubbliche verranno offerte convincenti soluzioni, diverse da quelle proposte da quei movimenti, essi potranno essere battuti. Al di là delle differenze, anche al di là del fatto che essi si collochino a sinistra (come Sanders) o a destra (come Trump o Le Pen o tanti altri), o in qualunque altro luogo, ciò che li accomuna, il loro minimo comun denominatore, è la voglia di isolazionismo politico e di protezionismo economico. Il cosiddetto antieuropeismo ne è una conseguenza. È il loro modo di intercettare le paure (più che comprensibili, da non disprezzare affatto) delle persone di fronte a un mondo interdipendente, di fronte a ciò che viene malamente riassunto con il termine «globalizzazione». Se si sceglie il silenzio o il disprezzo nei confronti di quelle paure, allora i cosiddetti «populisti» hanno già vinto: l’Europa andrà in pezzi, al pari dei legami transatlantici, ci troveremo in un mondo occidentale completamente «ri-nazionalizzato» che ricorderà una delle fasi più buie della storia europea recente, gli anni Trenta dello scorso secolo. Solo se quelle paure verranno prese sul serio e si riuscirà a mostrare alle opinioni pubbliche che proprio grazie all’Europa e al suo mercato comune, nonché grazie all’interdipendenza globale, si potranno avere più sviluppo, più posti di lavoro, più benessere, solo allora sarà possibile contrastare efficacemente la propaganda dei movimenti di protesta. Se invece si sceglierà un atteggiamento protezionista (come ha già fatto Hollande a proposito del trattato di libero scambio con gli Stati Uniti) allora si darà ragione a Marine Le Pen e a tutti gli altri come lei, non si offrirà agli elettori un buon motivo per non votarli.
La stessa cosa vale per l’immigrazione. O le classi di governo europee riusciranno a trovare la forza di fare una politica comune mostrando alle opinioni pubbliche che in tal modo è possibile governare senza troppi traumi questo fenomeno, oppure i movimenti che vogliono la chiusura delle frontiere nazionali, quali che ne siano i costi economici e politici, alla fine vinceranno.
Occorre anche smetterla con le sciocchezze e le superficialità politicamente corrette (anch’esse alimentano il voto di protesta) in materia di multiculturalismo. Che le nostre società siano multiculturali è un fatto. Ma ritenere che questo non sia anche un problema che richiede di essere governato è un atteggiamento che prepara disastri. Occorre soprattutto chiarire alle opinioni pubbliche che non si intende permettere che si formino ordinamenti giuridici paralleli, che non possono e non devono esserci eccezioni, culturalmente o religiosamente giustificate, all’uguale trattamento di tutti i cittadini. Se si vogliono rassicurare le opinioni pubbliche occorre scolpire questi principi nella roccia, nelle leggi e, meglio ancora, nelle costituzioni. Abbiamo bisogno di un melting pot, di una pacifica convivenza fra persone di diversa origine all’insegna di leggi uguali per tutti, non di una «segmentazione» di tipo libanese (tanti gruppi organizzati, ciascuno con le proprie leggi) delle nostre società.
Oltre che ridicolo, il «vade retro» rivolto agli attuali movimenti di protesta è politicamente controproducente. È la regola della democrazia: devi saper offrire agli elettori, alle prese con problemi veri, soluzioni migliori, più convincenti, di quelle del tuo avversario. Queste soluzioni convincenti non sono state ancora proposte.
Da “Il corriere della sera, 27 maggio 2016