La Sardegna nell’ultimo ventennio del Seicento, di Federico Francioni
Sommario – Ringraziamenti – Andare oltre il paradigma della “decadenza” – La Sardegna come “laboratorio di storia coloniale” – Crisi demografica ed economica – Il peso di meccanismi propri dell’Antico Regime – Un’onda lunga che parte dalla seconda metà del Seicento – Importanza degli atti di procura – Governo e Stamenti – Per concludere.
Nel pomeriggio di venerdì 22 maggio 2016 sono stati presentati a Cagliari, nell’aula del Consiglio regionale della Sardegna, in via Roma, i tre tomi di Acta Curiarum Regni Sardiniae, vol. 22, Il Parlamento del viceré Nicola Pignatelli duca di Monteleone (1688-1689), a cura di Federico Francioni, edito dallo stesso Consiglio regionale, Cagliari, 2015, di complessive 1984 pagine. Il presidente dell’assemblea legislativa, on. Gianfranco Ganau, ha ricordato il primato della Sardegna, unica Regione dello Stato italiano che sia riuscita a procedere nella pubblicazione dell’imponente mole di materiali prodotti da un Parlamento di Antico Regime: nel caso sardo i tre Stamenti (Ecclesiastico, Militare, Reale), riunitisi per la prima volta nel 1355. Dopo il saluto dell’on. Michele Cossa, presidente del Comitato scientifico, ha preso la parola Marcello Verga, docente nell’Università di Firenze.
Egli ha fatto riferimento in primo luogo alle antiche istituzioni parlamentari della Sicilia e del Friuli. L’impegno civile e civico degli storici al riguardo ci ha reso coscienti dell’importanza di un pluralismo istituzionale, ha dimostrato il ruolo degli studi di scienza politica nel rafforzare e nel rendere sempre più vigile la coscienza costituzionale. In particolare gli anni Ottanta del Seicento, ha continuato Verga, vanno riconsiderati alla luce della critica al paradigma della “decadenza”, impostosi a lungo per il significato assai negativo che la cultura del Risorgimento diede ai secoli della dominazione spagnola. Certamente le due rivoluzioni inglesi ed in particolare il Bill of Rights del 1689 conferiscono una nuova accezione alla parola libertà che farà il suo ingresso nella cultura settecentesca grazie in particolare alla mediazione filosofico-politica esercitata da John Locke. Ma nelle vicende degli antichi Parlamenti non ci può essere spazio solo per il mito di quello inglese: a parte il caso specifico del Parlamento nazionale scozzese, ha sottolineato Verga, fu uno studioso eminente, il sardo Antonio Marongiu, a porre in risalto la complessa e variegata realtà europea. Certo, lo stesso Marongiu considerò di scarsa importanza il Parlamento Monteleone su cui invece getta nuova luce l’edizione curata da Francioni.
Dal suo canto Italo Birocchi, docente nell’Università di Roma “La Sapienza”, ha tratteggiato con grande vigore teorico e con la ben nota chiarezza espositiva un decisivo passaggio nella storia di questi antichi istituti. Occorre infatti andare oltre la scorza, le apparenze, le forme di organismi che sembrano puntare solo alla conservazione delle norme e dei privilegi acquisiti, al consolidamento nella raccolta a stampa degli atti di un’attività plurisecolare. Le suppliche delle città, l’emergere di una soggettività nuova ed inedita delle comunità rurali – fenomeni dovuti anche alle capacità di uomini di legge senz’altro in grado di elaborare articolate e fondate analisi a supporto di proteste e rivendicazioni – ci permette di cogliere anche i processi di cambiamento che si verificano nel Seicento. Gli Acta Curiarum, ha concluso Birocchi, hanno dato un apporto decisivo agli studiosi per delineare la rappresentazione di una società non statica, per ricostruire il diritto patrio del Regno di Sardegna e l’originale fisionomia politico-istituzionale della storia isolana (si veda comunque l’articolo dello stesso Birocchi, Una società dinamica riflessa nel Parlamento Monteleone, apparso su “L’Unione Sarda” di giovedì 21 aprile 2016). Di seguito proponiamo l’intervento tenuto in Consiglio da Francioni, cui sono stati apportati solo alcuni ritocchi.
Sommario – Ringraziamenti – Andare oltre il paradigma della “decadenza” – La Sardegna come “laboratorio di storia coloniale” – Crisi demografica ed economica – Il peso di meccanismi propri dell’Antico Regime – Un’onda lunga che parte dalla seconda metà del Seicento – Importanza degli atti di procura – Governo e Stamenti – Per concludere.
Ringraziamenti. Un sincero grazie, in primo luogo, al presidente del Consiglio regionale on. Gianfranco Ganau, per le incoraggianti parole che mi ha rivolto, all’on. Michele Cossa, presidente del Comitato scientifico degli Acta Curiarum Regni Sardiniae, che ha mostrato disponibilità verso le mie esigenze di studio e di ricerca. Un ringraziamento affettuoso va ad Antonello Mattone, membro dello stesso Comitato, che per primo ha creduto nelle mie capacità di portare a termine un lavoro così impegnativo. Se ciò è finalmente avvenuto lo devo anche alla pazienza della dottoressa Maria Santucciu, infaticabile nella Segreteria del Comitato, di cui ha fatto parte il compianto Giampaolo Lallai, funzionario impeccabile ed inoltre fine musicista e musicologo. È un onore per me che questi tomi vengano oggi presentati da docenti della levatura di Marcello Verga e Italo Birocchi. Sono grato infine a Maria Assunta Lasio e a Giampaolo Salice che hanno trascritto le procure; senza la loro sollecita collaborazione forse l’impresa non sarebbe mai stata conclusa.
Andare oltre il paradigma della “decadenza”. Nell’affrontare l’esame della vasta documentazione riguardante il Parlamento celebrato e presieduto nel 1688-89 dal viceré di Sardegna Nicola Pignatelli de Aragón, duca di Monteleone e principe di Noya, appartenente ad una potente famiglia del Mezzogiorno d’Italia, è indispensabile collocare questi materiali in un più ampio contesto e nel relativo dibattito storiografico, a lungo dominato dal paradigma della “decadenza” spagnola: ripreso in anni non lontani anche da studiosi di indubbio valore, il termine è stato invece posto in discussione da autori fra i quali occorre annoverare Marcello Verga anche nella sua veste di coordinatore della rivista “Storica”. “Decadenza” fa pensare ad un organismo che si affloscia, fisicamente ma anche e soprattutto sul piano cultural-spirituale: si pensi a quanto scrisse Oswald Spengler sul declino dell’Occidente ed ai giudizi – svalutativi – intorno al barocco propri di Benedetto Croce.
Nei territori sottoposti alla Corona spagnola si riscontrano elementi di continuità e discontinuità: la ricerca più recente ha fatto riferimento alla vitalità dell’apparato economico-produttivo del Ducato di Milano. D’altra parte, proprio in favore di questo, nel periodo 1688-1697 vengono imposte al Regno di Napoli – durante il vice regato di Francisco de Benavides conte di Santisteban del Puerto, già viceré di Sardegna (gli atti del Parlamento da lui celebrato sono stati pubblicati a cura di Guido D’Agostino) – spese straordinarie per circa 2.500.000 di ducati (circa 300.000 all’anno); mezzo secolo prima tali imposizioni erano state ancor più consistenti, come ha dimostrato Giuseppe Galasso. Ciò conferma la realtà di un Mezzogiorno spolpato in favore del Nord, messa in discussione di recente. D’altra parte le dinamiche demografiche proprie del Napoletano ed anche della Sicilia contribuiscono a chiarire le notevoli distanze fra queste aree e la Sardegna, già lucidamente individuate da Antonio Gramsci, trascurate invece da accademici, studiosi e giornalisti, sardi e non, che hanno edulcorato ed immerso la specificità della questione sarda nel magma di un indistinto Mezzogiorno.
Certamente la monarchia di Carlo II (l’ultimo degli Asburgo di Spagna) è alle prese, come del resto si era verificato anche in passato, con il problema delle ingenti somme richieste dalla gestione politico-militare dell’Impero spagnolo. Il Parlamento che ho avuto l’onore e l’onere di curare per il Consiglio regionale si attesta su un servicio, cioè il donativo, pari a 70.000 scudi annui, cui vanno aggiunte 140.000 lire di propinas (una quota notevole viene destinata al viceré ed alla sua famiglia). Nelle successive Corti – presiedute nel 1698-99 da José de Solis Valderrábano conte di Montellano e curate da Giuseppina Catani e Carla Ferrante – il donativo viene ribassato a 60.000 scudi. I dati dei Parlamenti curati da Leopoldo Ortu, Diego Quaglioni, Giuseppe Doneddu, Gian Giacomo Ortu, Gianfranco Tore e Gianni Murgia, insieme all’opera del compianto Francesco Manconi, mi hanno fatto capire, fra l’altro, che la consistenza del donativo sardo, di solito giudicato assai modesto, va commisurata alle reali risorse ed alle concrete capacità contributive del Regno. A ciò bisogna aggiungere le ingenti somme stanziate nel Seicento da esponenti di importanti casate sarde – dai Castelvì agli Zatrillas – che, pesantemente sollecitati dall’alto e perseguendo, allo stesso tempo, l’obiettivo di conseguire riconoscimenti, titoli ed incarichi, sono attivi nei campi di battaglia di mezza Europa: nelle guerre di Fiandra, Lombardia e Monferrato è presente Jacopo Artaldo di Castelvì marchese di Cea; alla repressione di quella “epidemia politica rivoluzionaria” che dilaga nel Continente ed al conflitto in Catalogna – nel 1640 Pau Claris proclama la Repubblica catalana – partecipa Agostino di Castelvì y Lanza, marchese di Laconi: per non parlare della rivolte che scoppiano nel 1647 a Palermo (anche qui troviamo il suddetto marchese), nella Napoli di Masaniello e a Messina (dove interviene a proprie spese Giuseppe Zatrillas conte di Villasalto con due compagnie di fanti, atte a completare il tercio di Sardegna).
La Sardegna come “laboratorio di storia coloniale”. Un autore come il già citato Manconi – ben lontano da simpatie per una visione che possiamo schematicamente definire sardista-indipendentista – ha scritto esplicitamente, giunto peraltro ad una fase matura dei suoi studi, di una Sardegna sottoposta a una spoliazione di tipo “coloniale”. Nel suo consistente volume sul Regno sardo sotto gli Asburgo di Spagna, egli ha utilizzato anche il termine “colonia”. Un altro studioso, il franco-americano John Day, grande e sincero amico della Sardegna – anch’egli non particolarmente proclive a fare proprie definizioni di carattere, diciamo così, “terzomondista” – ha parlato dell’isola come di uno specifico “laboratorio di storia coloniale”, con un certo scandalo di alcuni accademici.
D’altra parte negli ultimi decenni del Seicento prende corpo un complesso disegno razionalizzatore – caratterizzato, bisogna riconoscerlo, anche da un’ispirazione autenticamente riformatrice – che parte dalla penisola iberica ed investe la Sardegna; lo sforzo per un cambiamento economico-sociale ed amministrativo mira, si badi bene, ad aumentare gli introiti fiscali provenienti dall’isola. Sul papel redatto nel 1685 da Joseph de Haro y Lara, protonotario del Consejo d’Aragón, aveva richiamato la mia attenzione l’amico Mattone durante una missione di studio che avevamo compiuto insieme negli anni Ottanta e che aveva toccato i principali archivi iberici. Delle attese, annunciate e proclamate riforme non si fece comunque pressoché nulla, sembra quasi scontato affermarlo, mancando allora fondi adeguati da stanziare, ma nel Settecento quell’insieme di proposte sarà comunque tenuto presente (lo sottolineava fra i primi Francesco Loddo Canepa) dal ministro sabaudo Giovanni Battista Lorenzo Bogino.
Crisi demografica ed economica. Anche le carte del Parlamento Monteleone contribuiscono a gettare luce sul problema drammatico, se non tragico, della crisi demografica che anche oggi colpisce la nostra comunità. Il saldo del XVII secolo per l’isola è indubbiamente negativo: dai 310.000 abitanti del 1627 si perviene ai 300.000 circa del 1640-41. Certo, nel 1630 la Sardegna non conosce la peste di manzoniana memoria ma, a parte quella del 1652-1656/57 – in seguito alla quale Sassari perde il primato demografico che deteneva saldamente su Cagliari – è ancora viva nei sardi e negli uomini che presenziano al Parlamento Monteleone la memoria di quella hambre y epidemia che li aveva afflitti nel 1680-81 portandosi via 1/3 della popolazione. Anche il 1687 è ricordato come anno di crisi. Nel 1688 il numero dei sardi cala sino a 230.321, quindi cresce sino ai 260.551 del 1698. In ogni caso il saldo finale del secolo, come si è detto, è negativo.
Anche in relazione a queste cifre va evidentemente analizzata la crisi economica: il picco della produzione isolana di grano viene toccato nel 1619 con un milione e mezzo circa di starelli; non a caso ciò si verifica in anni che attestano una dinamica demografica quanto mai favorevole, almeno in relazione ad altri momenti storici. Per il crollo del 1680 si fece ricorso a massicce importazioni dalla Sicilia – per 200.000 starelli circa – mentre le esportazioni dalla nostra isola crollano dai 310.000 starelli del 1617 ai miseri 9.500 di quel tragico 1680-81; forse quest’ultimo si può accostare al fatidico annu doxi, il 1812 diventato proverbiale per la fame e ricordato anche per la congiura cagliaritana di Palabanda, capeggiata da Salvatore Cadeddu, repressa nel sangue dal governo sabaudo.
Sul piano economico l’indiscusso primato della città sulle campagne provoca le proteste dei centri rurali, in primo luogo di quelli che devono approvvigionare Cagliari che procrastinava, certo, i versamenti dovuti ai villici, ma d’altra parte si vantava di aver provveduto con la sua annona a quasi tutti gli altri territori del Regno in un contesto di assoluta emergenza come quello del già ricordato 1680-81.
Il peso di meccanismi propri dell’Antico Regime. Evidentemente proteste e proposte per uscire da condizioni considerate non più tollerabili devono fare i conti con le bardature tipiche di un sistema di Ancien Règime che condiziona pesantemente la proprietà, la mobilità dei singoli abitanti e la libertà di commercio. Al riguardo si pone il problema degli ostacoli gravosi incontrati nell’Età moderna dallo sviluppo dell’individualismo possessivo, un nodo su cui hanno indagato, con approcci e conclusioni diverse, lo stesso Birocchi, Doneddu, G. G. Ortu e Mattone. Dalle carte del Parlamento Monteleone emergono posizioni del governo regio tutt’altro che favorevoli al pieno riconoscimento della proprietà privata, il quale invece prende corpo negli anni Novanta del Seicento (come ha dimostrato lo Doneddu). Nel Settecento però l’orientamento della magistratura, come ha osservato G. G. Ortu, non sarà certo lineare. Il peso delle bardature dell’Antico Regime non poteva non avvertirsi. Nel 1688-89 i sindaci delle appendici cagliaritane criticavano apertamente il baronaggio, aduso ad osteggiare il principio della libertad natural nell’alienazione dei beni, nel cambiamento di domicilio e nel commercio, principio valido per tutti gli uomini, sostenevano con vigore i sindaci, siano essi abitanti nelle città o nelle campagne. Neppure il re può concedere ai feudatari ciò che non gli appartiene. Esiste – ecco la proposizione qualificante – un derecho de las gentes antes de haver monarchias. Ciò va detto a riprova della circolazione delle idee – giusnaturalistiche e non solo – in un’isola che non è stata marginale, “parrocchiale” o tetragona al nuovo, come certa storiografia tradizionale ed ufficiale ci ha lungamente fatto credere.
Anche nel Novecento storici validi, penso in particolare a Dionigi Scano, hanno rappresentato l’ambiente socioeconomico e culturale sardo, nonché le stesse abitazioni cagliaritane dei nobili, come qualcosa di molto modesto. Emilio Lussu si riferì senza ombra di dubbio a baroni e popolani ugualmente cenciosi e servili. Nel Parlamento Monteleone ciò è energicamente smentito, fra l’altro, dalla supplica dei tre Stamenti i quali invocano provvedimenti contro il lusso e lo sfarzo, incredibilmente sfoggiati non solo da nobili e cavalieri con seguito di lacayos e lacayuelos, ma anche, e di qui lo scandalo, da alcuni dei praticanti le arti meccaniche che erano riusciti ad arricchirsi. Magari poi si erano rovinati economicamente e non pagavano il servicio. Il viceré Pignatelli pubblicò al riguardo un pregone.
I sindaci cagliaritani, dal canto loro, dovevano fronteggiare le pretese del clero che pretendeva di imporre le decime agli abitanti del distretto agrario del capoluogo, i quali da tempo immemorabile non le pagavano. Venne messo a punto un circostanziato esposto al regio fisco con testimonianze su minacce di cattura, arresto, imputazione e processo, bastonate, vendemmie prepotentemente effettuate da ecclesiastici anche contro agricoltori che avevano dimostrato ampia disponibilità per risolvere ogni controversia. Insomma, in un contesto di Antico Regime nessuno poteva dirsi al sicuro da determinate pretese, neanche all’interno del territorio cittadino. Le suppliche delle città regie e non tanto di Sassari, provata dalle piaghe del 1652-1656/57 e del 1680-81, quanto di Alghero, Oristano, Iglesias, Bosa e Castellaragonese si esprimono con un registro linguistico abbastanza elevato, sono redatte con sicura conoscenza dei problemi e riescono a conseguire qualche risultato apprezzabile, come si evince dalle risposte del viceré, dalle regie decretazioni e dai capitoli di Corte.
Un’onda lunga che parte dalla seconda metà del Seicento. Come già aveva notato Bruno Anatra, nella seconda metà del Seicento si delinea, in misura sempre più corposa, il ruolo di nuovi soggetti, le comunità rurali, che si riuniscono in piazza per eleggere i loro rappresentanti, inviano a Cagliari circostanziati documenti, chiedono addirittura di essere rappresentate nelle riunioni stamentarie e si battono contro gli arrendatori (gli appaltatori delle rendite dei feudi regi), contro i tributi signorili, contro i printzipales e non esitano ad usare, nelle loro proteste, il termine “tirannia”. Penso in particolare ad Aritzo ed all’incontrada reale del Mandrolisai. Parte da qui l’onda lunga che porterà le campagne sarde a sollevarsi in armi durante il triennio rivoluzionario sardo 1793-96, durante il quale emergerà la leadership politica di Giovanni Maria Angioy, complessa ed affascinante figura di docente universitario, magistrato, giudice della Reale Udienza, banchiere ed anche imprenditore in campo agricolo ed industriale: lo abbiamo ricordato anche quest’anno a Sassari nell’ambito delle iniziative per il 28 aprile, Sa die de sa Sardigna.
Importanza degli atti di procura. Del Parlamento Monteleone non vanno assolutamente trascurati anche gli atti di procura e gli admitatur alle congreghe stamentarie, cioè la documentazione meritoriamente trascritta dai già ricordati Lasio e Salice. Faccio solo due esempi: alcune carte riguardano il voto di Paola Fortesa Aymerich, ammessa come madre e curatrice del figlio minore barone di Serdiana. Le donne ed i minori erano regolarmente convocati con apposite lettere, ma dovevano farsi sostituire da procuratori; in proposito si può rimandare a quanto scrisse a suo tempo Antonio Marongiu, maestro riconosciuto degli studi sulle istituzioni parlamentari euopee di Antico Regime. Troviamo anche carte riguardanti il diritto di famiglia, come emerge dai documenti esibiti da Francesca Sturriza y Monrabal, originaria del Regno di Valencia, che chiede gli alimenti per i figli perché il marito era defunto dopo aver condotto i propri congiunti alla rovina economica. Dai materiali che ho esaminato si evince che tale richiesta poteva essere formulata anche da donne del ceto borghese professionale. Il governatore generale di Valencia aveva dato ragione alla Monrabal, anche in opposizione alle richieste dei creditori.
Governo e Stamenti. Fra gli uomini di governo e della magistratura sono da ricordare il reggente la Reale Cancelleria Francesco Pastor, che dispone, fra l’altro, di una ricca biblioteca. Gode di un patrimonio librario ancora più consistente don Simone Soro: avvocato, docente nell’Università di Cagliari, diventerà reggente del Consejo de Aragon. Giuseppe Delitala Castelvì, governatore dei Capi di Cagliari e Gallura, già viceré interino, poeta dotato di una certa originalità, appartiene peraltro ad una famiglia che un tempo era stata di oppositori; pensiamo alla squassante crisi del 1668: prima l’omicidio del già ricordato Agostino di Castelvì, sindaco del Regno, acclamato “Padre della Patria”, ucciso probabilmente da uomini dell’ambiente viceregio, cui segue l’eliminazione del viceré Manuel Gomez de Los Cobos, marchese di Camarassa, ordito quasi certamente come pronta vendetta del baronaggio cagliaritano. Fra gli stamentari del 1688-89 troviamo il già citato Zatrillas, appartenente allo schieramento rigidamente filogovernativo, anch’egli poeta di un certo valore (come il Delitala), un ancor giovane Vincenzo Bacallar y Sanna (diventato poi accanito sostenitore della monarchia borbonica di Spagna, storico e letterato) ed altri.
Per concludere. La necessità di andare oltre gli stereotipi di perifericità, marginalità ed arretratezza, a lungo dominanti nella ricerca e nel dibattito storiografico, è confermata dalla stazza – in tutti i sensi – di Nicola Pignatelli, viceré e presidente del Parlamento tenutosi nel 1688-89. Sarà in seguito viceré di Sicilia, a conferma della potenza della sua famiglia, nonché dei forti legami da lui instaurati ed intrattenuti con la Corte di Madrid. Da tempo questo ramo dei Pignatelli aveva ereditato i titoli del conquistador Hernán Cortes, compresi i possedimenti di Valle Oxaca e quelli derivanti dal titolo di conte di Priego in Messico, come ho avuto modo di verificare anche fra le carte dell’Archivio di Stato di Napoli (dove è custodito fra l’altro un esemplare del testamento di Cortes). Il Pignatelli dimostra tatto e capacità di mediazione concordando con i tre Stamenti la nomina del marchese di Laconi Giovanni Francesco Efisio di Castelvì a sindico del Reyno, incaricato di recarsi a Madrid. Si tratta, attenzione, di un appartenente alle famiglie dei morti ammazzati in quel tragico 1668. Ben diverso sarà l’atteggiamento del viceré conte di Montellano nel Parlamento del 1698-99 (ultimo della dominazione spagnola). Alle proteste di alcuni stamentari per la nomina a sindico di Zatrillas, ardente filogovernativo, risponderà ordinando la cattura di Salvatore Aymerich Cervellon: si tratta di un esponente dell’opposizione che, nel porto di Cagliari, sarà imbarcato a forza su una nave inglese e spedito in esilio, prima a Cadice, poi a Madrid. Il duca di Monteleone ed il conte di Montellano: due modi ben diversi di intendere le relazioni fra governo regio e istituzioni parlamentari. Tutto ciò, oltre la diversità di temperamenti, approcci e decisioni assunte dai singoli, massimi rappresentanti della Corona, va comunque inscritto, è chiaro, all’interno di quei specifici meccanismi di dipendenza coloniale della Sardegna dalla Spagna di cui si è detto prima.
Infine, ad un altro ramo dei Pignatelli apparteneva Antonio, asceso nel 1691 al soglio pontificio col nome di Innocenzo XII e scomparso nel 1700. Un breve da lui firmato figura negli atti del Parlamento Monteleone. Un altro aspetto di una vicenda politico-istituzionale che vede la nostra isola dentro e non fuori il grande fiume della storia.