Io sono sardo. E tu? di Mario Cubeddu
Chi vorrà ricostruire la storia della Sardegna degli ultimi cento anni, quella che noi oggi chiamiamo “contemporanea”, che tale non sarà più tra qualche decennio, avrà a disposizione, tra le altre, due fonti importanti da cui partire. La prima è il volume dedicato alla Sardegna dall’editore Einaudi nella collana della Storia d’Italia, Le regioni dall’unità a oggi, uscito nel 1998. Un volume di 1288 pagine (quello dedicato alla Sicilia aveva 200 pagine in meno; i sardi parlano poco, ma quando scrivono non li batte nessuno), con la presenza del meglio della ricerca accademica sarda di fine millennio. Con un ruolo predominante degli studiosi sassaresi: l’opera è aperta da un saggio di Francesco Manconi, curatore del volume insieme a Luigi Berlinguer, e chiusa da un articolo di Salvatore Mannuzzu, tutto incentrato sul presente e sul destino futuro della Sardegna, dal titolo apocalittico e inquietante: Finis Sardiniae.
A distanza di soli diciotto anni esce un nuovo importante volume dal titolo La Sardegna contemporanea, pubblicato da Donzelli, un altro editore nazionale di prestigio. Con le sue 745 pagine è anch’esso un’opera di dimensioni consistenti. Curatori ed autori provengono anche in questo caso dal mondo accademico, ma stavolta a fare la parte del leone è Cagliari. I tre curatori sono infatti due storici e un antropologo che operano nell’Università del capoluogo.
Quest’ultimo lavoro è stato presentato l’11 aprile scorso al pubblico nella sede della Fondazione Banco di Sardegna a Cagliari. Nell’occasione colui che ha fatto gli onori di casa, il dottor Graziano Milia, Responsabile Relazioni Esterne e Comunicazione della stessa Fondazione, ha comunicato al pubblico presente che l’ente ha cambiato nome, eliminando il riferimento al Banco per chiamarsi semplicemente Fondazione Sardegna. Pochi rischi che il nome possa confondersi con quello quasi omonimo della Fondazione sul cui blog appare questo articolo. Diverse soprattutto le disponibilità economiche; è stato detto nella stessa occasione che la Fondazione del Banco, perché tale essa rimane, distribuisce in un anno per iniziative culturali e sociali contributi per 15/16 milioni di euro. Sui criteri con cui la “banca dei sardi” eroga questi contributi sarà il caso di ritornare, perché questa è certamente una pagina importante della cronaca della Sardegna contemporanea.
Gli interventi introduttivi del piccolo convegno hanno messo in evidenza soprattutto i caratteri innovativi dell’opera, anche e soprattutto rispetto alla raccolta di saggi della collana regionale Einaudi. L’aria politica e sociale e gli orientamenti degli studi sono cambiati nei primi decenni del nuovo millennio. Compito della ricerca postmoderna sembra essere quello di “decostruire”, smontare le conoscenze, le opere, per capirne e valutarne il funzionamento e la validità, piuttosto che accettare le nozioni ereditate.
“Decostruire la Sardegna” è infatti il titolo del paragrafo conclusivo del saggio scritto da uno dei curatori, la storica Valeria Deplano, che richiama gli indirizzi di ricerca propri degli studi postcoloniali e l’orientalismo di Edward Said. L’obiettivo primo di questa indagine critica è necessariamente il concetto stesso di identità della Sardegna. Essendo quest’ultimo un concetto geografico, la questione riguarda evidentemente l’identità dei sardi come popolo. Identico a sé e diverso per storia, lingua e cultura da quello che costituisce la base dello Stato-Nazione Italia, di cui i sardi condividono il destino dal 1720, quando la conclusione della guerra di successione spagnola li orientò da occidente a oriente, dall’area politico-culturale ispanica a quella italiana?
Un primo avvicinamento a un’opera vasta e complessa come questa conferma l’impressione generale che ci sia in effetti il tentativo di smontare un’immagine risaputa, data per scontata, della Sardegna. L’antropologo Pietro Clemente esamina il fenomeno Costa Smeralda per dire ai sardi: guardate che questo oggetto che considerate estraneo e pensate non vi riguardi, fa parte anche esso della vostra storia e della vostra identità. Meno convincente e persino inquietante il richiamo all’espressione hegeliana “il reale è sempre razionale” che può essere applicata all’accettazione supina e colpevole della cementificazione delle coste e di tutte le cattedrali arrugginite di un’industrializzazione fallita sparse nell’isola. Ogni scelta sbagliata può essere giustificata dal suo essersi tradotta in opere, anche quando queste hanno avuto breve vita.
I ventisei saggi compresi nel volume trattano le vicende demografiche, la storia e l’attualità di alcuni luoghi (con una predilezione per realtà che i sardi hanno considerato in passato marginali, se non estranee, Cagliari, Arborea, Carloforte), le classi dirigenti, l’evoluzione del modo di lavorare e dei suoi protagonisti, alcuni aspetti della vicenda culturale nella parte conclusiva.
C’è un elemento che colpisce subito al primo sguardo sull’opera. Manca del tutto il catastrofismo, che sia antropologico, economico o culturale, che caratterizzava, con il suo corollario di Sardegna moribonda, il clima culturale di qualche anno fa. Di tutto si può cercare, e qui lo si trova, l’aspetto positivo. Si tende a rivalutare anche tutta l’esperienza dell’industria petrolchimica in nome della modernità, della formazione di un ceto operaio (che sembra svanito come le nevi dell’altro anno) e di un embrione di classe dirigente per la sinistra.
Purtroppo in molti casi questa impressione nasce dal fatto che alcuni problemi vengono ignorati. Si può parlare di cultura in Sardegna ignorando la scuola, il sistema dell’istruzione? O magari si può individuare nel disastro testimoniato da una dispersione scolastica da record, dall’analfabetismo di ritorno di tanti giovani sardi, elementi che ne attestino una provvidenziale razionalità? La crisi di tutti i settori produttivi, a cominciare da un’agricoltura inesistente per finire nel fallimento della politica industriale, è sotto gli occhi di tutti. Ci si può limitare a considerare che alla fin fine ai sardi emigrare ha fatto anche bene, ha consentito loro di conoscere realtà nuove, acquisire mentalità più aperte? Si evita anche di piangere sul futuro demografico dell’isola; in questo caso è certamente condivisibile la conclusione proposta nel suo saggio da Massimo Esposito su ciò che si potrebbe fare per fermare o invertire la tendenza attuale: “un’accorta politica di programmazione e valorizzazione delle risorse locali, che rilanci e tuteli le aree deboli, salvaguardando i tratti di specialità che contraddistinguono la Sardegna”.
Ma, come si diceva all’inizio, il tema dell’identità collega come un filo i vari interventi. L’ossessione dell’Io sono sardo”, oggi diventato anche un marchio di pomodori in scatola. Durante la presentazione del volume gli interventi introduttivi, sottolineando soprattutto gli elementi di novità, mettevano in evidenza la critica alle concezioni essenzialiste dell’identità. E’ stata forse questa impostazione a provocare l’intervento di una storica contemporaneista non sarda che insegna all’Università di Cagliari; ha messo in evidenza la specialità di questa pubblicazione nell’attuale clima culturale italiano. Nessuno si sognerebbe, ha detto, di dedicare una tale fatica alla ricostruzione delle vicende contemporanee dell’Abruzzo, della Lombardia, del Lazio. Le regioni, le piccole patrie, non sono più di moda.
L’intervento ha riportato quindi il discorso a ciò che ci si proponeva di “decostruire”: la questione del presente, del passato, del futuro della Sardegna. Di questo in sostanza hanno parlato gli interventi successivi dei tre curatori. Luciano Marrocu, che è presente nel volume con un saggio sulla storia degli intellettuali e sui modelli di cultura che si sono succeduti nell’isola, ha molto insistito sulla necessità che si ritorni agli Studi Sardi, riferendosi soprattutto alla rivista, ma forse anche agli insegnamenti della Scuola di specializzazione che è esistita nell’Università di Cagliari sino a pochi anni fa. Studi Sardi come gli Women’s Studies, i Black Studies, i Jewish Studies, gli insegnamenti presenti nelle Università anglosassoni, dedicati alle donne, agli afroamericani, agli ebrei, nati dalle lotte e dalle rivendicazioni delle minoranze negli anni Sessanta e Settanta? O forse gli studiosi che hanno contribuito a questo volume risponderebbero di no, in quanto rifiutano l’idea che i sardi e la Sardegna abbiano qualcosa che li distingua dall’unica identità oggi verificabile con sicurezza, quella italiana? Anche essa da discutere, problematica, sempre in formazione; sostenuta però dalla forza politica e militare dello Stato e dalle truppe della cultura e della comunicazione.
Interessante e problematico l’intervento del giovane antropologo Francesco Bachis. Rivendicando il dovere della scienza di mettere in discussione tutte le costruzioni e narrazioni culturali, si è confrontato in maniera originale con quelle che vanno oggi per la maggiore in Sardegna sul tema dell’identità. Egli però esagera quando scrive: “Sull’identità si svolgono decine e decine di convegni e seminari, ogni anno e da anni”. In nota avremmo desiderato una dimostrazione di questa affermazione, piuttosto che i nomi degli avversari di questa “ossessione identitaria”. Discutibile appare anche l’individuazione dei tempi in cui si è avuta la ripresa delle tematiche di “diversità”. Questi si collocano non nei tempi della crisi degli ultimi venti anni, ma in quelli in cui la gioventù europea dà uno scossone al vecchio sistema politico e culturale.
Sono gli anni Sessanta quelli in cui inizia in varie parti d’Europa e del mondo una rivendicazione di libertà da parte di popoli inclusi a forza in organismi statali artificiali, come tutti in fondo lo sono. E’ vero che buona parte degli studenti universitari sardi erano persi dietro i gruppuscoli marxisti-leninisti ammiratori dell’Albania e della Cina, ma c’era anche chi assimilava la vicenda dei sardi a quella dei popoli oppressi e rivendicava l’uscita dalla subalternità: “sardo è bello”, accanto al “black is beautiful”. Il saggio di Bachis ha il merito di confrontarsi, con piglio critico, ma anche con interesse e rispetto, con i modelli di identità proposti dall’ultima ondata indipendentista.
Si può fare al volume il rimprovero di ignorare una tradizione politica e culturale ormai secolare, quella sardista (tra cinque anni si ricorderà la fondazione a Oristano del Partito Sardo d’Azione). Appare una idiosincrasia, una reazione a pelle di presa di distanza. Può essere un indizio il giudizio di Luciano Marrocu su Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni che sta esercitando una grandissima influenza sulla narrativa non solo sarda, come testimoniano tra gli altri due romanzi usciti negli ultimi due anni: Un bambino piangeva di Aldo Nove, pubblicato da Mondadori e A pietre rovesciate di Mauro Tetti, pubblicato da Tuiné. Così Marrocu valuta il romanzo: in “Passavamo sulla terra leggeri …. Atzeni sembra percepire lo spostamento del mondo culturale isolano verso un sardismo di maniera ed adeguarsi ad esso”. Dove una valutazione non positiva del sardismo sembra tirarsi dietro una critica dello stesso Atzeni.
Al fondo della questione dell’identità vi è infine come problema fondamentale quello della lingua sarda. Qui lo si affronta a partire dalla posizione che sulla questione ha avuto sempre la sinistra sarda: il sostanziale non riconoscimento della sua esistenza e l’attesa della sua fine. Ci sarebbe della coerenza nell’organizzare ogni anno un bel convegno per verificare a che punto è la scomparsa di questo fastidioso residuo del passato. L’incontro si è concluso con interventi un po’ surreali sull’opportunità di occuparsi di storia sarda e di vicende sarde in genere. Come se questo si potesse mettere ancora in dubbio. Il volume dimostra in ogni caso che vale la pena, è importante e può produrre buoni risultati, validi anche oltre il mare, una ricerca storica sulla Sardegna. Non affronta tutti i problemi, e di questo i curatori sono coscienti quando nell’introduzione dichiarano di aver preferito “dire molto di qualcosa” piuttosto che “dire qualcosa di tutto”.