“La sfida di Medea femmina folle di pietra e di ferro”, di MASSIMO RECALCATI
Resa immortale da Euripide, la madre che uccide i figli per vendetta contro il suo uomo agisce sotto il dominio di un amore cieco: una passione estrema in cui la Donna vince sulla Madre. Rifiutando anche il compromesso coniugale offerto da Giasone, in nome dei beni comuni. E rinunciando così all’”avere” pur di restare se stessa.
La cultura patriarcale ha concepito la maternità come un destino ineluttabile della femminilità, o, meglio, come purificazione del carattere ritenuto (ideologicamente) peccaminoso della femminilità. Diventare madre per una donna significava liberarsi dal carattere anarchico e irrequieto della femminilità, normalizzarsi, civilizzarsi. L’accudimento del focolare familiare e dei figli coincideva dunque con la morte della donna nel Nome della madre. Questa rappresentazione canonica della madre patriarcale — che oggi, grazie in particolare alla cultura femminista, sta finalmente rantolando — ha conosciuto rare ma significative eccezioni nella cultura dell’Occidente.
Una di queste, indimenticabile per la sua forza drammatica, è la figura di Medea raccontata nella omonima tragedia di Euripide. Essa capovolge traumaticamente la rappresentazione patriarcale della madre: uccidendo spietatamente i suoi figli Medea mostra che non è la madre del sacrificio che annienta la donna, ma è la donna che rivendica la sua assoluta alterità di fronte alla madre. Conosciamo la sua storia: non potendo sopportare il tradimento del suo uomo (Giasone) che la abbandona per unirsi a Glauce, la principessa di Corinto figlia del Re Creonte, uccide per vendetta i suoi figli.
Il carattere barbaro, indomabile, straniero e selvaggio di Medea incarna in modo radicale l’eteros della donna che non si piega alle convenzioni e ai ragionamenti utilitaristici. Ella ci ricorda, come scrive Euripide, che «quando una donna viene offesa nel suo letto, non c’è altra mente che sia più sanguinaria». Medea infrange il tabù della Madre mostrando che non esiste un istinto materno, che per una donna l’amore del proprio uomo è più essenziale dell’amore per i propri figli. Il suo amore per Giasone risponde solo alla forza pura della passione: ella lascia la sua terra, abbandona la sua patria, tradisce il padre, uccide il fratello e, in seguito al tradimento del suo amato, provoca la morte di Glauce e di suo padre prima di avventarsi sui suoi stessi figli. Medea, come ha scritto Ivano Dionigi, è «un grumo di delitti». Il suo atto non mostra solo l’insubordinazione della donna alle Leggi che regolano la vita della famiglia e che la costringono a sottomettersi al potere dell’uomo, ma, più radicalmente, mostra che nemmeno la maternità è sufficiente ad appagare il desiderio di una donna, a compensare la ferita d’amore che ha subito, che, in altre parole, diversamente da quello che crede l’ideologia patriarcale, nessuna donna può mai essere assorbita del tutto nella madre.
Giasone non ha alcuna idea di cosa possa essere una donna. Il suo ragionamento esclude l’hybris dell’amore femminile. Per questa ragione Pasolini nella sua Medea lo assimila alla ragione strumentale che tende a distruggere le radici mitiche e poetiche della verità. Giasone vuole civilizzare Medea, farla ragionare, mostrarle che l’amore è solo un buono o un cattivo affare. La sua mentalità è sterilmente borghese; vorrebbe sostituire alla passione dell’amore la pianificazione lucida proponendo a Medea di rinunciare al suo essere donna, alla passione del suo amore, per assicurare ai suoi figli un avvenire meno incerto e più sicuro. Per lui il legame d’amore è semplicemente un contratto fra gli altri. A Giasone non passa per la testa che Medea gli ha dato tutto, che per lui, per il suo amore, si è esposta al rischio più alto: «Io ti ho salvato… ho tradito mio padre e la mia casa… mossa più dalla passione che dalla sapienza… E dopo aver ricevuto questo da me, tu, infame, mi hai tradito; hai scelto un nuovo letto».
Mentre in Medea la donna rivendica l’amore come passione dell’essere, Giasone invoca l’utilità cinica dell’avere, l’importanza dei beni, dell’adattamento conformistico alla realtà. In fondo è solo alla madre che il suo discorso si rivolge saltando l’alterità indomabile della donna. Errore fatale: «Non voglio una vita felice che mi faccia soffrire né una prosperità che mi tormenti l’animo », le risponde perentoria Medea. La passione femminile oltrepassa il principio di realtà che invece costituisce la bussola irrinunciabile dell’azione di Giasone. La sua colpa e la sua imperdonabile ingenuità è questa: ritenere che il calcolo della ragione possa governare l’impeto passionale dell’amore femminile riducendo il desiderio al puro calcolo fallico dell’amministrazione ordinata e redditizia dei beni.
Medea rifiuta però il destino borghese promessole dal pragmatismo ottuso del suo uomo. L’oltraggio imperdonabile di Giasone consiste nel non intendere nulla dell’amore che muove Medea come donna al di là della madre. La sua inflessibilità ricorda quella dell’Antigone di Sofocle che nel nome dell’amore assoluto per il fratello si scontra con la Legge formale del Diritto. Tuttavia la differenza tra le due è netta: mentre Antigone mette a repentaglio la sua stessa vita, Medea si scaglia contro la vita dei propri figli. Il superamento del confine morale non avviene in questo caso immolando solo la propria vita ma sopprimendo quella degli innocenti. La malvagità di Medea rovescia così l’innocenza senza tentennamenti di Antigone. Medea agisce con “cuore di pietra” e con la forza del “ferro” e la madre viene traumaticamente cancellata dalla hybris della donna; come accade per Antigone, la follia dell’amore la spinge a valicare ogni limite.
Da la Repubblica, 8 maggio 2016