Una gita di piacere e d’istruzione ad Ozieri ed Ardara, di Gianfranco Murtas


Una recente visita al museo diocesano di Ozieri e alla basilica giudicale di Nostra Signora del Regno in Ardara ha suggerito a Gianfranco Murtas di stenderne la cronaca, offrendogli anche lo spunto di ricostruire, in una logica quasi di filo ininterrotto, i molti e vari argomenti di conversazione (soprattutto di storia religiosa isolana) con i cagliaritani suoi compagni di viaggio. Fra i primi temi trattati v’è, ancora una volta, la figura di Giorgio Asproni, del quale cade giusto oggi il 140° anniversario della morte, avvenuta a Roma, nel compianto generale. Per lui, unico deputato dell’opposizione, la Camera dei deputati dichiarò il lutto ufficiale, mentre lo stesso Giuseppe Garibaldi, già deputato di Ozieri, si recò, pur malato (era con le grucce), nell’abitazione del parlamentare bittese per onorarne le spoglie.

Non si dà per norma, ma può darsi per eccezione, di partecipare ad altri quanto un tal quidam che ha vissuto una giornata intensa, potrebbe consegnare, la sera, al suo diario personale, ove avesse la buona abitudine di coltivarlo. Mi metto nell’eccezione e idealizzo un altro quidam destinatario del racconto. Rapido sì, però risultato di un ripasso di memoria che ha i suoi indugi, anche per rigustare scene e momenti saporiti e nutrienti a tutto tondo.

Dunque lunedì 4 aprile ho potuto finalmente raccogliere l’invito, tante volte con squisitezza tutta sua rivoltomi, di don Tonino Cabizzosu, storico importante della Chiesa, docente nella nostra facoltà di Teologia e autore di una cinquantina di corposi saggi illustrativi di uomini (e donne) ed eventi dell’Otto-Novecento ecclesiastico sardo (e anche di mille articoli di stampa, a partire da quelli usciti su “L’Osservatore Romano”), a raggiungerlo nel suo quartier generale di Ardara. Presidente della comunità di Nostra Signora del Regno, un santuario basilicale quasi millenario, uno splendore d’architettura ed arte che rimanda ai giudici di Torres e alle stagioni successive della nostra storia, civile e religiosa, isolana: tanto più, per l’arte, quella del Quattro-Cinque-Seicento.

In missione con amici d’ingegno e cuore come Paolo Bullita, già direttore del Centro servizi informatici e amministrativi della nostra Università e autore di alcuni dei più importanti studi della storia dell’ateneo, ed Andrea Quarta, per lunghi anni operatore dell’Archivio storico diocesano di Cagliari e dottorando di ricerca alla Sorbona di Parigi (alle prese ora con una innovativa tesi sui rapporti fra d’Annunzio e la Francia, come innovativo fu quel progetto che ideò per lo studio del manoscritto de “La Gioconda” del Vate abruzzese, riletto nelle sue stratificazioni di scrittura addirittura con i macchinari dei RIS-Reparti Investigazioni Scientifiche!).  Con Bullita e Quarta compagni di gita alla volta del Logudoro, Ozieri prima di Ardara. Un godimento dell’amicizia, per la conversazione di viaggio – andata e ritorno – prima che per i condivisi acquisti di conoscenza lungo le tappe guidate, appunto ad Ozieri ed Ardara, dal nostro ospite e dai suoi collaboratori.

Propongo, di quei temi balzati aritmicamente dal nostro discorrere incrociato, una certa sequenza perché mi pare essi meritino, al di là della cronaca d’occasione, una ripresa, qualche considerazione supplementare. Li voglio richiamare anche perché questo serve a rendere onore, ancora onore, a chi, entrato nel dibattito privato, onore pubblico merita ancora oggi, in benedizione: al professor Tito Orrù, a monsignor Alberti, al compianto don Tonio Pittau, al poeta martinista Vincenzo Soro fra i primi…

 

Tito Orrù e Giorgio Asproni

Al professor Orrù tanto per cominciare. Di lui tanto abbiamo ricordato in macchina, noi che gli siamo stati debitori di molto o moltissimo, in questo mettendo anche l’amore grande a Giorgio Asproni che egli, con altri, ci ha inspirato rivelandoci la cifra della testimonianza patriottica e democratica del canonico e parlamentare originario di Bitti. Di più: del militante della scrittura con quel suo ponderoso Diario più che ventennale, documento narratore del cuore del risorgimento patrio e sperato repubblicano – fra istituzioni e pubblicistica –, e agenda di note da Nuoro e Cagliari, da Torino e Firenze, da Napoli e Roma. La facoltà di Scienze Politiche pubblicò in sette volumi, proprio per il decisivo intervento del professor Orrù (e con lui fu sempre il professor Carlino Sole) quell’opera straordinaria la cui scoperta si doveva al mio indimenticato amico Bruno Josto Anedda, giornalista RAI, collaboratore della facoltà, esponente repubblicano. Chissà come, il magazzino di quelle centinaia di grossi tomi stampati da Giuffrè fra il 1974 ed il 1991 venne alleggerito all’improvviso, un certo giorno, o una certa notte, e la cosa fu uno schianto morale, senza rimedio, per il professore nostro. Fu come perdere, dolorosamente, una parte di sé, della propria energia di studio ed autorivelazione, energia che la pagina stampata aveva come materializzato non perché si andasse poi, per librerie o convegni, ad una dispersione egotistica o narcisistica, ma per una funzione di apostolato: perché si conoscesse e quindi si amasse, attraverso la vita e il pensiero di Giorgio Asproni, l’idea dell’Italia in divenire nell’unità dell’ordinamento – autenticamente comunità delle comunità territoriali –, perché si conoscessero ed amassero la profezia democratica di Mazzini e la missione dei suoi, perché si entrasse con competenza nei travagli della società sarda e nuorese specialmente di quella metà Ottocento, stretta nelle maglie oppositive, e oppressive, del clericalismo (anche diocesano, non soltanto quirinalizio o vaticano) non meno che del centralismo ministeriale della Destra e poi della Sinistra storica…

Il professore aveva visitato, pochi mesi prima che ci lasciasse, i locali di un centro studi che stavo allestendo, intitolandolo a Paolo De Magistris, nel quartiere della Marina, per l’offerta gratuita (ma prontamente e inopinatamente revocata) della sede dalla Congregazione del SS. Sacramento in Sant’Eulalia: si erano ipotizzati, con lui, allunghi tematici sulla Cagliari risorgimentale, e molto poteva e doveva esserci, combinandoci al meglio, anche su Francesco Cocco Ortu sr. e la città di cui l’allora giovane parlamentare era stato consigliere e sindaco ff., prima dell’età bacareddiana e prima anche del dirompente crollo bancario del 1887… Perché Tito Orrù aveva ampliato, con il suo “Bollettino” ed altri tavoli, il paniere delle ricerche pilotate in proprio o condivise con altri – nello specifico, Cocco Ortu con la Marinella Ferrai, discepola prediletta, ma poi anche altro e nel mucchio erano i garibaldini sardi (Portoghese-Pigurina fra essi) ed il mutualismo operaio isolano anticipatore dello stato sociale. Filone, quest’ultimo, condiviso in specie proprio con Paolo Bullita, abilissimo nel rendere ancor più universale la ricezione delle storie – le storie della storia – attraverso le proiezioni fotografiche di personaggi e luoghi, di monumenti e documenti, e le didascalie esplicative precise fino allo scrupolo…

 

Il Fondo De Magistris e Villacidro

Mi aveva incoraggiato, il professore, a dare anima a quel centro che raccoglieva i libri e le carte di Paolo De Magistris, un patrimonio affidatomi con liberalità piena dal figlio Luigi, nel nome di una fedeltà all’amicizia più intima che mi legò per un decennio pieno, e dopo una più lunga frequentazione soltanto epistolare e mediata, a don Paolo. Gli avevo poi dovuto comunicare la rinuncia e la cessione della biblioteca, o della parte prevalente di essa – oltre duemila volumi – alla Fondazione Giuseppe Dessì di Villacidro, in cambio dell’impegno della stessa, non formalizzato ma tutto morale, a promuovere ricerche storiche sulla relazione (che fu intensissima su molti piani) fra Cagliari e Villacidro, tanto più nel passaggio di secolo, fra Ottocento e Novecento, giusto l’età del dessiano “Paese d’ombre”. La presidenza di Giuseppe Marras garantiva che quell’impegno la Fondazione avrebbe mantenuto, incoraggiando tesi di laurea sull’argomento, focalizzando magari le figure di Antioco Loru (il futuro rettore e senatore che fu anche sindaco di Cagliari, nel 1850), di Giuseppe Todde (economista e magnifico rettore anche lui, cui il Comune di Cagliari ha sbagliato il nome nella intitolazione della strada a San Benedetto), di Giuseppe Fulgheri (il generoso e geniale organizzatore dei consorzi proprietari delle campagne sarde e direttore, dapprima, de “L’eco de’ comuni della Sardegna”, originale testata a supporto, nella metà del XIX secolo, delle autonomie territoriali tanto più sul piano amministrativo-economico e civile, includendo in esso l’espansione dell’istruzione primaria “incivilizzatrice”; quindi, de “L’Associazione. Giornale del Comizio Agrario Centrale di Cagliari”).

Spadolini, le relazioni fra Stato e Chiesa

L’Asproni rivelato dal suo Diario, ma anche l’Asproni raccontato da Tito Orrù riportava nella storia la quotidianità della vita e merito dei grandi storici, quando assistiti da un’intenzione pedagogica, generosa sempre, è quella di allineare la vita dei minimi alla scena del mondo per far comprendere come quest’ultima sussuma fatti ed emozioni, propensioni e riserve o astensioni, complessità ed accidenti. Quando alla sapienza dello storico professionale si unisca la disposizione didattica, e magari la penna esperta (ed all’apparenza meno esigente e meno costretta) del giornalista, il risultato può essere meraviglioso. Lo dico sempre, fra i sardi nostri contemporaneisti ed anche columnist, del professor Brigaglia – per il quale ho un’antica ammirazione –, e sulla scena nazionale l’ho sempre detto di un caposcuola a me carissimo, anche sul piano personale, come Giovanni Spadolini. Che alla cattedra al Cesare Alfieri di Firenze associava appunto le direzioni dei grandi giornali: dal bolognese “Il Resto del Carlino” (aveva trent’anni quando ne prese la responsabilità, nel 1955) al lombardo “Corriere della Sera” (dal 1968). E nella scrittura dei suoi elzeviri in terza pagina, e talvolta anche negli editoriali, così come nei capitoli dei suoi libri non mancava, per speciale vocazione dunque, di partire dall’episodio per arrivare alla grande questione ideale. Come quella volta che riferì del buonumore e anzi dell’allegria di Camillo Cavour, testimoniati dal conte Ruggero Gabaleone di Salmour il quale aveva appena incontrato il presidente del consiglio ancora soltanto sardo-piemontese, per aver ricevuto assicurazioni dal padre Giacomo da Poirino, il suo curato, che al momento giusto non avrebbe mancato di assolverlo dai peccati senza esigergli nulla che egli non potesse consentire con onore. E il riferimento era certamente a quella massima-obiettivo di “libera Chiesa in libero Stato” che Cavour aveva recepito da un autore calvinista e ripetuto mille volte, fino alla seduta parlamentare che sarebbe venuta, il celebrato 17 marzo1861, per la sobria proclamazione del Regno d’Italia. Si sa come finì la vicenda: scontentato Pio IX e il Sant’Officio, alla morte del capo del governo divenuto ormai italiano, il religioso fu punito per lunghi vent’anni con la revoca della facoltà di confessare e anche del parrocato torinese di Santa Maria degli Angeli.

Come non passare, per sequenza logica, agli ultramontani d’oggi, ai venti-trentenni lefebvriani delle nostre stesse diocesi sarde, imberrettati e pomponati che scambiano per la nobile tradizione della Chiesa certe anticaglie liturgiche, suggestive e solenni ma irrispondenti ai tempi nuovi?… Un discorso lungo, inevitabilmente puntuto sulle nostre labbra di conciliari, preso e ripreso a più momenti.

 

In scena monsignor Alberti

Ecco qui: da Tito Orrù a sant’Asproni, da sant’Asproni  alla prosa diaristica, da questa e dalla memorialistica ad un cattedratico innovatore e anticipatore, in specie fra i risorgimentisti, come fu Giovanni Spadolini, e da lui alle relazioni Stato-Chiesa ed alle declinazioni di queste sulla scena anche regionale. Da qui – forse nel passaggio di Campeda, nel raggio orientativo della sua Nuoro, da una parte, e di Lussurgese delle Sietes Fuentes e di San Leonardo di cui tanto, riferendosi alle compagnie militari-ospedaliere, aveva scritto, dall’altra – eccoci arrivati a monsignor Alberti, storico anche lui e vescovo. Don Ottorino, illuminato patrono dell’Archivio storico diocesano di Cagliari, fondato già dal 1974 dall’arcivescovo Bonfiglioli e per ventidue anni affidato alle cure del francescano padre Cannas: trasmesso poi alla sapiente direzione di questo nostro amico giovane professore (da dieci anni, dal 1985) nella facoltà Teologica del Sacro Cuore, don Tonino Cabizzosu del clero ozierese, allievo di padre Giacomo Martina e già di ottimi accrediti scientifici ed accademici, fra Gregoriana, Archivio Segreto Vaticano e Biblioteca Apostolica Vaticana. (E mi sovviene in proposito l’obbligo di un riconoscimento che sempre gli andrebbe confermato perché, vedendosi aperte le migliori possibilità di carriera – leggi: valorizzazione del suo talento – proprio in Vaticano oltreché, a scelta, nel Vicariato, da sardo di parola oppose il no agli allettamenti, per tornarsene nella sua terra sarda a servire comunità e altri studi).

Ecco, monsignor Alberti centomila volte più e meglio del suo successore, e di quest’altro successore del successore, seguì e accompagnò l’Archivio storico diocesano di Cagliari affidato dal 1996 (e dopo un decennio di direzione del “Bollettino Ecclesiastico Regionale”) a don Cabizzosu. Il quale in più circostanze questo tributo o rimbalzo di gratitudine ha presentato, pubblicamente, al suo arcivescovo, tanto da dedicargli, alla morte avvenuta nel luglio 2012, un numero speciale – l’ultimo? – del “Notiziario” archivistico: “Artifex recentis sedis tabularii calaritanae ecclesiae”, un libro tutto da leggere. E direi anche: da leggere magari combinandolo con quel volumone riunente gli “Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti” che, d’intesa con Francesco Atzeni della nostra facoltà di Lettere, Cabizzosu stesso esitò, in ambito di Sacro Cuore, di Archivio Arcivescovile e di Centro studi “Damiano Filia”, nel 1998. La bibliografia di quel nostro presule, compilata appunto da lui, copre una quindicina di pagine e raccoglie più di quattrocento titoli fra libri e monografie, contributi in opere collettanee, articoli su riviste e giornali, presentazioni e prefazioni, note varie di natura pastorale…

San Pio V e le crisi identitarie dei giovani preti

Un argomento tira sempre l’altro, si sa, in viaggio così come a tavola, e noi viaggiatori da un capo all’altro della Sardegna, appunto forse nel superamento fisico del centro isolano, ad Alberti saremo arrivati raccontandoci ora di questo ora di quello fra storia ed attualità, di certo chiericume  temporalista, anche sardo, del tempo studiato (e anche amato!) da don Ottorino – quello del nostro Asproni e del suo avversario carmelitano monsignor Demartis! – ,e di altro chiericume non meno balordo e spaventoso, purtroppo correntissimo, di cifra anticonciliare, che sta mandando fuori di testa, nelle presenti comunità di paese, chi dal prete si aspetta un consiglio esperto e mite e si trova invece il tamburo di un dogmatico di sartoria, paludato come nell’Ottocento, con il mantello sopra la sottana neropece e la cotta trinata, in testa il saturno spaziale o la berretta pomponata.

Non era cosa leggera quel temporalismo che macellava le carni, fino alla cancrena e alla morte, di Goffredo Mameli poeta ventenne (difensore armato della Repubblica Romana), quel temporalismo che azionava ancora per decenni, come già da secoli (non per metastorici principi… non negoziabili, quelli evangelici) la lama della ghigliottina, nel cuore dell’Urbe; non è cosa leggera questa miseria espansiva dei talarini nel clero isolano, fra lo sconcerto impotente dei professori della facoltà Teologica, che non trovano il guizzo parlamentare necessario a formalizzare – come io penso dovrebbero con fermezza e d’urgenza – una ingiunzione ai vescovi: che si fermino con le ordinazioni scriteriate, ordinazioni fuori misura e tempo e scienza…

Ottanta-cento cosiddetti “tradizionalisti” fra Cagliari e Sassari, e Tempio e Nuoro ecc., quasi il dieci per cento del clero regionale, forse la metà di quello giovane: è la massa di preti da poco tempo in esercizio, non di rado borderline e portatori di crisi identitarie, come più volte documentato. Una bomba a scoppio immessa dai vescovi sardi e sardissimi – altro che virtuosismo nazionalitario! – nei circuiti parrocchiali rurali più che urbani (si pensi alla vicarie insistenti nel Gerrei, nella Trexenta e nel Sarcidano, avamposto storico – si fa per dire – delle ansie lefebvriane in terra di Sardegna). Per vent’anni, prima che i magistrati intervenissero al posto del vescovo, s’è subito il ricatto del parroco che minacciava il suicidio in caso di trasferimento, o la permanente sceneggiata dell’esorcista con la pistola ed i rosari girocollo e giropolso davanti alla telecamera ed alle assemblee misticheggianti. Si è andati a minimi spostamenti di parrocchia di preti sul conto dei quali erano giunte notizie inquietanti e tutte da approfondire tempestivamente e non da tralasciare o banalizzare. Tanto più se potevano, dalle utili istruttorie, derivarsi motivi di rispetto ed onore ai calunniati.

Ce n’è, ed i correttivi del vescovo sono, alla prova, risibili. Nel mucchio mettici i pasticci seriali ed inenarrabili della cattedrale, mettici il sermone di quel tale che dall’altare auspicava il suicidio (corda, macina e pozzo d’acqua) ai genitori dei bambini disertori della messa estiva, mettici lo slalom tra le (delicatissime) cappellanie ospedaliere di chi non si sa come e dove farne fruttare il talento… Ma d’altra parte, se a Villasor così come a Serri – per citare due piazze e risparmiare l’elenco – era di dominio pubblico, dieci anni fa, il tariffario vescovile per l’amministrazione dei sacramenti (che invece avrebbero dovuto essere donati, non venduti!), tutto può essere, tutto può avvenire, fra la sofferenza dei pochi e l’indifferenza dei più, gli acritici plaudenti.

Mi obiettava, tre lustri fa, don Ottorino: «Hai ragione, ma noi abbiamo bisogno di preti! ». Rispondeva anche, candido innocente, ancora in indubitabile buona fede, con un altro «Hai ragione» quando, da lui eccepito che pure i vertici della Chiesa eran fatti da uomini fallibili e bisognava dunque accordare loro il tempo per maturare quanto, magari per gli anticlericali evangelici, poteva esser chiaro da subito, mi capitava di ribattere: «Ma nel frattempo ci sono le vittime dell’incomprensione, le vittime dell’autorità supponente, e sono vittime alle quali si dovrà poi chiedere perdono. Evitiamo dunque di essere ingiusti oggi, non togliamo la messa a quel prete che osa dire del profilattico, non colpevolizziamo questo o quello per la libera lettura di un libro all’index, o la libera visione di una pellicola anch’essa all’index, o per il voto a un partito del libero pensiero». Ricordavo come a Nuoro e Oliena ecc. si fossero negati i sacramenti ai sardisti – né assoluzione né comunione né funerali – quando nel 1946 Lussu era vissuto dai preti come l’azionista pro divorzio ed anticoncordatario, vivente more uxorio e con un bimbo non battezzato… (Ne abbiamo un bellissimo lunghissimo documento a firma di Marianna Bussalai, ma poi testimonianza in lettere, articoli di giornale, ecc.).

 

Quando bisognava essere democristiani

L’istituzione, lo scandalo soffocato per non danneggiare l’immagine della istituzione: questo è stato insegnato nei seminari per lunghi decenni, e secondo questa linea è andata a finire che, per ammissione dello stesso attuale pontefice (e del suo predecessore), i preti pedofili sono stati garantiti più delle loro vittime… Oggi si rovesciano giustamente le priorità, almeno sul piano teorico e senza che questo debba significare, ovviamente, mandare all’inferno i carnefici, che restano comunque creature bisognose di aiuto. Ma sono ormai le vittime, spesso minori d’età e indifese, al centro delle prime e più urgenti cure. (Invero non del vescovo attuale di Cagliari, questo s’è detto. All’invito rivoltogli perché si trasferisse per alcune settimane, giorno e notte, nei due paesi feriti da un prete suo fiduciario, e recuperasse così confidenza e fiducia della gente nella intimità della relazione familiare, ha continuato a fare vita ordinaria da impiegato, con l’agenda delle visite tocca-e-fuggi e delle cosiddette udienze. Povera Chiesa di Cagliari! dopo Mani che deportava gli studenti di Teologia nelle facoltà romane, oggi c’è Miglio che guarda l’orologio quando parla con le persone).

«Hai ragione», confidava don Ottorino, e questo suo secondo successore è poi venuto addirittura con il pastorale operaio e il conformismo ma anche l’ingenuità (incolpevole) dei buoni hanno applaudito alla novità. Come se potesse bastare il nome di monsignor Bettazzi a convincere tutti della sana novità in diocesi. A convincere che un don Efisio Spettu non avrebbe più potuto subire l’onta riservatagli dalla CES tutta intera, non soltanto dal presidente Mani, con la mancata ricezione della sua denuncia allarmata e appassionata per quanto non andava nel seminario regionale.

Lo dico con altre parole, tornando ai ripensamenti autocritici in materia di disciplina sanzionatoria, o meglio risolutiva, dei casi tremendi balzati all’onore della cronaca. Perché… a una riscoperta del più elementare criterio di giustizia ed umanità non corrisponde, in generale e neppure nella maggior diocesi sarda, una piena affrancazione dagli impacci sinedrici che sono l’aspetto più sgradevole della spocchia clericale.

 

La letizia del romanico logudorese

Questo press’a poco sostenevo nella conversazione con gli amici, certo di trovare orecchie attente e comprensive, non necessariamente piena o pienissima adesione alle mie idee. Mentre l’inoltro nel Logudoro, accendendo le suggestioni del paesaggio, ci imponeva i rimandi alle età millenarie dei grandi manufatti dell’architettura romanica e dell’età giudicale là in giusta posa, combinando uno strano mix fra i grandi tempi e le miserie dell’oggi, ancora ostacolando pensieri conciliativi…

I santi profeti Elia ed Enoch a Montesanto, onorati a pasquetta, e Santa Maria di Mesu Mundu (complesso bizantino, ora soltanto in memoria) ai piedi della villa imprestata dagli arcivescovi Carta ed Atzei al circuito di Mondo X Sardegna del padre Morittu, che vi ha allestito nel 1982 la comunità di S’Aspru, in comune di Siligo; la Santissima Trinità di Saccargia in territorio di Codrongianus, San Pietro di Sorres in agro di Borutta e Sant’Andrea e Santa Maria di Cabuabbas nei pressi dell’abitato di Torralba, certamente poi anche Santa Maria del Regno di Ardara, la cappella palatina meta nostra finale… ecco il primo rapido elenco delle chiamate, che valevano già soltanto per le pietre e i disegni a motivare le laiche preghiere di chi suole onorare, nell’umano, la dignità della storia.

Ma poi, più prossimi ad Ozieri, eccoci come già conquistati dal tanto rimasto delle glorie di Bisarcio e Castro che furono entrambe diocesi per quattro o cinque secoli, dal Mille al Millecinquecento… Ogni comunità di qui ha il suo tesoro. Parlano romanico il Logudoro e, in esso, il Monteacuto, così il Meilogu ed il Goceano (ma in generale questo potrebbe dirsi di tutto il magnifico Sassarese), compresi Ploaghe, Ittireddu, ecc. Ce ne ha offerto una guida l’indimenticato professor Roberto Coroneo che ogni posto ti presentava facendoti convinto di stare nell’incontro fra il magico ed il familiare… Ancora suggestioni ed ancora laiche preghiere per le architetture e per la storia vissuta, nella solennità della cattedrale di Sant’Antioco di Bisarcio (che è in territorio comunale di Ozieri) così come in quella, forse soltanto ideale, del duomo campestre di Santa Maria di Castro (in territorio di Oschiri).

 

Bisarcio e Castro: Don Melis, don Dettori, padre Pittau SJ

A proposito, e pensando al nuovo e giovane vescovo ozierese che è di provenienza della diocesi di Ales (in rimbalzo o restituzione dell’andata proprio ad Ales, nel 2004, di don Giovanni Dettori, che era allora arciprete della cattedrale dell’Immacolata ad Ozieri!): osservo che don Corrado Melis, in ultimo parroco di Santa Barbara a Villacidro, copre idealmente una casella che, in territorio logudorese, era stata di un suo compaesano elettivo. Perché? perché il titolo di vescovo di Castro – rilanciato anch’esso dopo lungo sonno, all’indomani del Concilio – era stato attribuito dal papa Giovanni Paolo II nientemeno che a padre Giuseppe Pittau S.J., chiamato dal Giappone a Roma per il governo commissariale dell’Ordine dei gesuiti nel 1981 e trattenuto dapprima come rettore della Gregoriana (e cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze, e del doppio delle Scienze Sociali) e poi, con il rango arcivescovile, come segretario della Congregazione per l’educazione cattolica (seminari e istituti degli studi). Scomparso padre Pittau, il titolo di Castro è andato a un professore benedettino tedesco, Dominicus Meier; ciò non di meno, data la parentela di Castro con Ozieri, tutto ritorna, ed Ales con Villacidro costituisce il polo combinatorio con quello di Ozieri-Castro!

Mi sembra sempre molto significativo scoprire le coincidenze, e dare significato anche alle casualità. E’ tutto nella logica dei “ponti”, delle associazioni, della fraternità che può costruirsi,se si vuole davvero, anche con niente!

 

Petizione per Welby

Ritorno al sinedrio e alla pagana autoreferenzialità clericale, quando autoreferenzialità c’è. Non basta l’autocritica in un capitolo, se nel successivo tutto resta come era. Sì autocritica, sì rettifica e innovazione, sì maggiore prudenza o minore avventatezza negli atti di comando, eppure… Ancora non si è fatta ammenda, da parte degli uomini della Chiesa, della bestialità che ha offeso, nel 2006, una persona come Piergiorgio Welby giunto al capolinea dei suoi trent’anni di SLA. Si sono negati a lui i funerali religiosi, espressamente richiesti dalla famiglia al Vicariato del papa al tempo del presidio Ruini: si è concesso soltanto il sagrato a Piergiorgio Welby, e chi ha osato tanto – l’ho ripetuto e scritto cento volte – è stato un cardinale notoriamente ateo. Verrà il giorno in cui si chiederà perdono alla memoria dei malati di SLA che, sfiancati dalla tortura della malattia, hanno ottenuto da mani pietose la liberazione dalle cannule nutritive e dei ventilatori polmonari, e per questo sono stati reietti da qualche dogmatico senza cuore? Certamente, così come è avvenuto con i suicidi, oggi onorati con un surplus di prossimità e un tempo, invece, seppelliti lontano, in terreno non consacrato e senza accompagnamento e suffragio.

Papa Bergoglio ha ricevuto, poche settimane fa, il vescovo punito (e confinato a Partenia) Jean Gaillot, il monsignor Soave nelle pagine introduttive al mio “Lo specchio del vescovo”. Riabilitazione tacita al presule di Evreux ormai ottantenne e profeta come gli altri variamente puniti non secoli fa, soltanto decenni fa, da Mazzolari a Milani, da Turoldo a Balducci. Tutti vincitori al tribunale della storia, dopo che del vangelo. E che trionfo per la memoria di monsignor Romero che pure era stato tenuto in lunga anticamera dal papa Giovanni Paolo II depistato dai rapporti incredibili del nunzio apostolico e dalle lettere degli altri vescovi parafascisti di El Salvador, e anche dalle paurose cautele del cardinale Baggio!

Siamo nel decennale della morte di Welby. Proporrei – ho già proposto, nella conversazione simulata (consegnata ad internet) con don Angelino Becciu – ai nostri preti ed ai nostri religiosi con il cuore di carne, da padre Salvatore Morittu a don Marco Lai, da don Angelo Pittau a don Ettore Cannavera, da don Andrea Raffatellu  a don Mario Cugusi, da don Mario Simula a don Tonino Cabizzosu a quant’altri, magari al vescovo Roberto Carboni ed al vescovo Corrado Melis, di officiare insieme, nella basilica di Bonaria, un solenne pontificale funebre in suffragio di Piergiorgio, invocando anche, per l’indecente cardinale vicario del papa, il perdono della famiglia Welby (e di Domineddio).

Ritorno alle libere conversazioni in macchina, con Paolo Bullita e Andrea Quarta, salendo da Cagliari ad Ozieri ed Ardara. (Le sgradevolezze maggiori – qui di necessità enfatizzate, o meglio organizzate ex post – sono tutte mie, s’intende).

 

Un altro vescovo che si astiene, dimenticato don Tonio Pittau

Assediato da giovani pre/anticonciliari (sorte condivisa dai suoi colleghi della CES) e mostratosi finora  incapace di un disegno di medio-lungo periodo per la pastorale di comunità di paese, l’arcivescovo Miglio, invece di rappacificarsi con le popolazioni shoccate di Mandas e Villamar, s’è degnato al più – come hanno scritto i giornali – di regalare loro, nei giorni caldi, un quarto d’ora di prima mattina, dati gli altri impegni in agenda, avvertendo che chi avesse da protestare si facesse vivo nel suo ufficio a Cagliari. L’odore delle pecore? L’arcivescovo è deodorantissimo – questa è la mia personale opinione. Ha colto l’occasione per… fare a meno di don Cabizzosu, ha preferito la partita di calcio nello stadio interdetto (da magistratura e prefettura) di Is Arenas all’assemblea al SS. Salvatore di Serdiana, s’è infischiato di una bestemmia pubblicata sul settimanale diocesano (nonostante la dettagliata segnalazione), confermando come virtuose le censure allo spirito critico e perciò comunionale.

Tutta la vicenda di don Tonio Pittau, e della giustizia che è negata alla sua memoria e alla sua famiglia, si è anch’essa impastata con questi altri argomenti, nella confidenza dello scambio di cui sto riferendo (iniziato in macchina e continuato poi nella pausa conviviale, mai tanto fraternamente impegnata per me, anche per la qualità dei commensali).

La domanda più semplice è stata: perché l’arcivescovo Miglio non è mai intervenuto presso la procura della Repubblica (o quella generale) “esigendo”, in supporto alla istanza infinite volte reiterata dai fratelli, e sempre respinta dall’autorità giudiziaria, l’esame autoptico, pur tardivo, tardivissimo, quasi trent’anni dopo il giorno in cui doveva esser fatto, delle spoglie pietrificate di quel parroco buono di Santa Cecilia in Castello? I magistrati hanno detto di no e di no e ancora di no ai familiari e a noi tutti, senza mai spiegare perché, come pur doveva essere. La Repubblica si fonda sui diritti di cittadinanza e non può esserci norma che consenta la loro rimozione. Davide contro Golia? Non sarebbe onore per la magistratura essere rappresentata come Golia, prepotente senza ragione, invece che come operatrice di giustizia nel rispetto per il popolo cui si deve sempre parlare il linguaggio della verità. Come nelle beatitudini, che sono, notoriamente, norma costituzionale vincolante: norma laicissima di uno stato laicissimo.

Apertasi la vicenda tragica e ingiusta di don Tonio Pittau nell’anno primo dell’episcopato cagliaritano di don Ottorino Alberti, mai a fondo veramente indagata durante i tre lustri del suo governo, messa in non cale da don Mani pur essendo egli informato della cosa da don Dino – fratello e successore nella guida della parrocchia di Santa Cecilia –, ignorata dal nuovo arcivescovo, essa rimane al nostro cospetto ancora con tutti i suoi misteri. E si dovrà segnalare ancora una volta al papa stesso l’incapacità non soltanto dei nostri magistrati di volerci capire qualcosa, ma soprattutto la diserzione vescovile dai doveri di verità e giustizia, guardati con l’occhio del sospetto.

Gli echi del “frataccio” nuorese

Quel che potevo fare e scrivere e dire io l’ho fatto tutto, con un libro e con gli articoli di giornale, con le lettere a papa Benedetto e ai vescovi sardi, con una serata intera spesa a Sant’Eulalia e sostenuta dalla saggezza di uno scrittore come Bachisio Zizi. Ma il peso specifico di un vescovo è evidentemente, nelle negoziazioni civili, mille volte maggiore del mio e se questo peso negoziale è sprecato nel poco o nulla, nella indolenza o nella fuga, una responsabilità morale dovrà essere annotata nel libro della storia della Chiesa cagliaritana.

Asproni scriveva, riferendosi a monsignor Demartis, fiduciario e anche amico di Pio IX, definendolo “frataccio” («sarà sempre causa di dissidi e di turbolenze»), così in qualche nota del Diario, anno 1868, l’anno dei moti nuoresi di su connottu, che lui attribuiva – chissà se a ragione – alla regia del presule ancora fresco di nomina (la pratica presso il governo, per l’exequatur, si era sbloccata l’anno prima, come per Ales dove arrivò, proveniente proprio da Nuoro, il vicario capitolare Zunnui Casula), e già pronto per le assise conciliari in San Pietro convocate con la bolla “Aeterni Patris” giusto un mese dopo  la dura, e credo eccessiva, qualificazione diaristica.

Sono abbonato da trent’anni a “L’Ortobene” e tanto ho scritto e detto dei vescovi che l’hanno sostenuto, con impostazioni diverse e anche opposte, nel tempo, fra filofascismo ed antifascismo e dopo ancora, nella diocesi di Nuoro. Così da Fossati a Cogoni – soprattutto Cogoni –, da Beccaro a Melas – il vescovo che ordinò prete don Ottorino e a lui carissimo –, da monsignor Melis Fois, con cui ebbi molti contatti personali ed epistolari anche dopo il ritorno delle spoglie di Francesco Ciusa a Santu Caralu (avvenuto nello sconcerto per la diffusione di un giornale in cui riferivo della professione massonica dello scultore!), al suo successore, studioso ed affabulatore, Pietro Meloni, a don Mosè Marcia che oggi governa, mi dicono, fra tanti triboli e lettere anonime di denuncia di nepotismi invero, detti così, incredibili. Chissà. Don Mosè è una persona specchiata, semplice e di animo buono – tutti lo ricordano nel pieno accudimento filiale al vecchio e malato arcivescovo Bonfiglioli –, non saprei se tutti quelli che ne godono la fiducia vantino la stessa sua leggerezza evangelica, la libertà da certe categorie che hanno inchiodato l’ecclesiologia alla casta o alla fazione a Nuoro come a Cagliari e altrove.

Per i miei rapporti personali con i Canepa, l’affezione – di recente rinnovata a Santa Maria della Neve – all’anima bella, celebrata (?) anche ne “Il giorno del giudizio”, di don Luca (e con essa direi anche all’anima inquieta e dolente del fratello Emanuele, avvocato e poeta garibaldino, ateo e folle, e a quelle di Filippo il notaio etnografo e dialettologo, di Serafino e Nicolina, la madre del professor Francesco Loddo Canepa…), il richiamo nuorese è fortissimo, e prende don Pietro Marcello e naturalmente don Salvatore Bussu… Sempre cerco di contagiare il mio amore nuorese, all’humus democratico (votò repubblica al referendum del 1946, Nuoro solo capoluogo in Sardegna!), al sardismo repubblicano della città dei Melis e di Gonario Pinna e Pietro Mastino, e Luigi Oggiano… un pezzo della migliore Sardegna.

La Nuoro di Bachisio Zizi e dei suoi romanzi migliori, e appunto di don Ottorino incontrato a Valverde, la prima volta, nell’estate 1988 e dopo ancora, in via d’Azeglio 35 in città, oltreché in episcopio a Cagliari, per lo scambio dei doni, e così fino alla fine, nel 2012. E’ un altro argomento che porto alla conversazione.

 

Il beato Pio IX e la santa ghigliottina, meglio la Collina

Un quarto di secolo, con diversi vuoti, in mezzo, e le diffidenze e le contestazioni, tanto più in quel centrale anno giubilare 2000: doveva esserci un rimedio alle mancate rendicontazioni dell’8 per mille (oltre i  duemilacinquecentomilioni di lire ogni anno) – caso quasi unico in Italia e infatti poi corretto con intervento d’autorità della CEI, anche per sanare il vulnus gemello di Napoli e del suo disinvolto cardinale Giordano che aveva finanziato un congiunto a rischio di fallimento; doveva esserci un rimedio anche agli altri inciampi del suo governo pastorale, a partire dalle sanzioni comminate a questo o quel prete con gusto di parresia, don Cannavera in testa. Inciampi addebitatigli e da lui successivamente riconosciuti per tali, riconosciuti con i fatti correttivi più che con le parole di scusa, come quella volta alla Collina, nel buio della cappelletta foucauldiana prima, nella tavolata con i ragazzi in sconto-pena dopo… Nessuno, non io, gli addebitò più ritardi o colpe. Anzi, ne “Lo specchio del vescovo”, egli, il vero protagonista, ha un finale moto di vivido recupero, direi di riscatto, dalle ruvidezze del clericalismo sempre distorsore della verità ed offuscatore delle coscienze, accostandosi idealmente alla purezza di monsignor Soave.

Gli ho dato merito di questa finezza del suo intimo bisognoso di relazione amicale nella conquistata e concessa fiducia piena e gratuita, quasi impreziosita dallo scarto anagrafico fra noi. Fino a quando mi chiese di collaborare con lui, a me affidando il suo stesso nome – e che nome! – per il discorso omiletico agli “stati superiori cittadini” (sindaco e giunta, prefetto e presidente della Provincia, governatore e comandante della Regione militare e capi di reggimento e caserme ecc.) per una ricorrenza liturgica di San Saturnino… Potrei dire di essere stato testimone di prima fila del moto dell’anima di un generoso e dotto arcivescovo, impaurito all’inizio e ritroso, del tutto oblativo poi, alla scoperta della intenzione comunionale presente nella critica a un fare e a un dire che i cosiddetti collaboratori, autoretrocessesi a signorsì, non avevano mai osato confutare, magari anch’essi giustificando la ghigliottina del beato Pio IX (che Mazzini, nella Repubblica del 1849, aveva abolito per quanto aveva potuto governare, cinque mesi appena…).

 

Il socialismo e don Zedda dopo don Montixi

Com’è bello (e purtroppo sorprendente) quando gli uomini di Chiesa si mostrano capaci di autocritica! Lo fece, alcuni anni fa, in una sua lettera pastorale, il vescovo di Iglesias, don Giovanni Paolo Zedda: senza mezzi termini aveva scritto del ritardo della Chiesa “docente”(?) sul socialismo rispetto ai termini essenziali, ed esistenziali, della questione operaia… Non so se anche ad Iglesias vi sia qualche covo di lefebvriani, forse no, il vangelo minerario ed operaio – quello di Arturo Paoli e Gerard Marie Fabert e dei Piccoli Fratelli di Bindua, oggi quello della disoccupazione – non concede spazi al gioco.

Iglesias peraltro ha avuto un grande precedente “liberale”: con don Giovanni Battista Montixi, il vescovo che non votò il dogma della infallibilità, al Concilio del 1870. Fu lui per molti anni, il solo vescovo operante in Sardegna, perché ai decessi o ai trasferimenti degli ordinari, il governo non concedeva le sostituzioni… Ebbe vita lunga: era cagliaritano, nato negli anni iniziali della rivoluzione francese, e fu vescovo per quattro decenni giusti, dal 1844. Una figura eccellente che ristorava gli umori liberali e dei cattolici liberali isolani, come quel gigante che fu il tempiese canonico Tommaso Muzzetto, tanto ammirato da don Cabizzosu il professore perché osò chiedere a papa Mastai Ferretti di rinunciare al trono e non lamentarsi più…

 

Vincenzo Soro il massone martinista

Entrando ad Ozieri il motivo di conversazione è caduto sulla figura illustre di Vincenzo Soro, filosofo e poeta di qualche rilievo anche oltre Tirreno ed oltralpe, un massone scozzese e martinista degli anni ’10 e ’20 (perfino vescovo gnostico, vescovo pure lui!), nato mazziniano e autonomista del primo PSd’A, passato poi alla transigenza fasciomora vissuta tutta in chiave romanticamente patriottica e spirituale. Fu il primo biografo, per le edizioni nobili di Il Nuraghe (di Raimondo Carta Raspi) di Sebastiano Satta del quale era stato, lui ancora ragazzino e logudorese di nascita ma iscritto alla Normale di Nuoro, lo scrivano, quando il grande poeta, perduto l’uso di braccio e mano per la dolorosa emiparesi, pur doveva e voleva restare in corrispondenza, per gli aggiornamenti paesani, con i molti giovani barbaricini comandati sul continente per il servizio di leva… Divenne insegnante, scrittore e poeta ammirato ma schivo sempre, spirituale sempre. Nicola Valle fu fra i primi a commemorarlo, nel 1949, perché morì quasi nelle stesse settimane di un altro grande sardo, Francesco Ciusa.

Conversazioni di memoria, anzi di memorie, scambio di nicchie di conoscenza. Soro è una gloria ozierese, fu in rapporti (forse anche massonici, non soltanto letterari), con Gabriele d’Annunzio: un altro di quei tanti sardi che ebbero relazioni non sa poco con il fatal Gabriele. In epoca relativamente recente ne era stata riproposta la figura da un ecclesiastico di nome in Ozieri, don Francesco Amadu, benemerito cultore e studioso e bibliofilo, scomparso pochi mesi fa alla bella età di 93 anni…

 

Viaggiando viaggiando con Bullita e Quarta

In questa communicatio cordis, nella piena confidenza in cui entravano le puntate di lettura e studio o di relazione di ciascuno dei viaggianti, l’abbrivio era sempre, tematicamente, remoto e, guarda caso, quasi sempre di marchio clericale. Per condizionamento mentali, potrebbe dirsi. Forse per la meta, o la doppia meta di Ozieri – il museo diocesano nei locali del seminario – ed Ardara.

Un abbrivio tematicamente “remoto”. Chissà se proprio così, perché in realtà in tutti e tre noi viaggiatori vinceva la consapevolezza dei… cicli vichiani della storia (sennò non avremmo oggi, che è tempo di sonda spaziale su Marte, i talarini, che sono attori di scena, sfiziosi per la scena ma soltanto per quella, non per il gusto – oserei dire – di Domineddio). Tutto partiva, nella nostra comitiva, dalla patente d’autorità di Paolo Bullita – l’uomo, gli dico sempre e lo ripeto adesso per l’ennesima volta, che fa parlare le lapidi, e con arte leggera, nelle sue conferenze per sodalizi della più varia natura, sa umanare monumenti e pitture, portando ad attualità l’antico come un mago provetto. Per parte sua, Andrea Quarta aveva da portare lo specifico, non meno fascinoso, del suo oggi letterario alla Sorbona insieme con le fatiche di anni e anni spese nell’abbinata di sa Duchessa – anche con i suoi sondaggi sardi nell’entourage dannunziano, allora più militare che letterario, tanto più a Fiume nel passaggio da 1919 a 1920 –, con l’Archivio diocesano. Preciso meglio: fiduciario di don Cabizzosu negli inoltri complessi, qualche volta avventurosi, nel pieno delle preziosità riunite (con quelle capitolari) dentro gli spazi sul fianco destro del seminario arcivescovile riconvertito in college Sant’Efisio: fra i faldoni delle visite episcopali, le serie dei Quinque libri e delle Contadorie così come del Patrimonio ecclesiastico, i regesti dei benefici e legati pii, cappellanie e canonicati, gli atti dei Tribunali di appellazione e gravami – di competenza regionale non soltanto diocesana –, procure, difese e sentenze dei Tribunali ecclesiastici ora per le cause civili ora per quelle criminali ora per quelle matrimoniali (dispense e sponsali, fedi di stato libero e nozze segrete)…

Certamente quello che ha prodotto negli anni scorsi il team archivistico strettosi attorno a don Cabizzosu ha del prodigioso. Primo fra tutti Andrea Quarta, con Giuseppe Lisei e Nicola Settembre, ed altri ancora, numerosi e validi collaboratori, ha come ridato vita alle carte secolari sepolte e poi dissepolte, non soltanto ha reso fruibili agli storici i reperti di studio… ma ha portato ad edizione migliaia e migliaia di pagine, risvegliato nomi e vicende, compiuto un miracolo risurretivo. Un miracolo vero, quello di restituire il fiato del loro tempo terrestre ai protagonisti di quei remoti episodi fissati nei dispositivi giudiziari, nei titoli degli inventari parrocchiali, nei repertori delle confraternite e dei culti dei santi, nelle rubriche contabili, nelle sezioni degli stati clericali secolari e religiosi (con tanto di patenti e casi morali) come anche degli ordinamenti regolativi del seminario tridentino, ecc.

Ecco qui. Le avventure intellettuali di Paolo Bullita con il professor Orrù sul fronte della nostra storia civile – non soltanto in Sardegna, a Cagliari, ma anche a Villacidro e Sanluri, a Bitti e La Maddalena e Tempio Pausania, ecc. o in continente presso i circoli dei nostri emigrati in Piemonte, e per dire di Asproni e Garibaldi, di mutualismo e risorgimento –, e quelle di Andrea Quarta con don Cabizzosu sul fronte della storia religiosa, quel continuo rilancio fra l’antico ed il moderno, fra lo spirituale e il temporale, offrendomi spazi o spunti d’intervento, hanno riempito le ore del viaggio nell’andata e nel ritorno. In supplemento a tutto, dovrei aggiungere perché anch’essi emersi nel lungo discorrere incrociato, alcuni quadri di storia privata e familiare, quella del 1943, anno di nozze dei genitori di Paolo e dei miei. Fra gli spezzonamenti aerei degli alleati, le tragedie e i lutti. L’anno più tremendo forse dell’intera storia isolana e l’anno santo-santissimo per la caduta della dittatura e poi per l’armistizio e l’inizio della stagione partigiana. Raccontava, Bullita, di suo padre militare che dal comando corso raggiungeva Nuxis, micro cuore del Sulcis, dove la famiglia dell’amata, sfollata come molte altre: dopo esser giunto a Cagliari da Bonifacio, proseguiva verso Nuxis con un treno che era riuscito fortunosamente a frenare nella corsa e ad imbucare alla stazione là ad Acquacadda o a Campanasissa, dopo la spaventosa perdita del macchinista, mitragliato a morte dai tedeschi, quasi tranciato a metà; quindi arrivò dalla sua amata a piedi, sporco di sangue per aver soccorso il macchinista ferito … Episodio drammatico, sul filo divisore fra vita e morte.

 

Il museo diocesano di Ozieri

Finalmente eccoci poi giunti ad Ozieri, nel cuore di Ozieri avvitato dalle strade collinose, panoramiche tutte, perché Ozieri è uno splendore nato, e peggio per Garibaldi se, essendone deputato eletto al Parlamento, non se l’era goduta quando e quanto poteva.

Il museo d’arte sacra, la tappa programmata, in piazza su Cantareddu, convive con l’archivio storico e con la biblioteca nel palazzo antico che ha ospitato per due secoli il seminario tridentino. Non è antico però, il museo: conta pochi anni, anzi sembra ancora in divenire, e forse nella sua apparente povertà – per numero di pezzi esposti, non per il loro valore storico ed artistico – rivela però anche la sua forza: che è quella della osmosi fra il compendio espositivo e la cattedrale (quella del Cima) e le altre parrocchie della diocesi – delle diocesi, loro sì antiche, di Bisarcio e Castro rivivificate e associate come Chiesa Bisarchiensis, nel 1803, da papa Pio VII. (Curiosità: quello stesso pontefice, chiamato l’anno successivo a benedire obtorto collo a Notre Dame l’autoincoronazione imperiale di Napoleone, portava per cognome quello di Chiaramonti, giusto come il comune sardo confinario di Ozieri ed Ardara!).

Il seminario vescovile s’era insediato in quel principio del XIX secolo in un palazzo certo di grandi dimensioni, seppure non granché alto. Era un edificio nato, nel Cinquecento, come residenza… d’ufficio dei Borgia – i tremendi Borgia spagnoli –, al tempo feudatari dell’Incontrada, diciamo del mandamento, del Monteacuto. Verso la fine del secolo successivo essi donarono questa sobria ma imponente residenza rurale ai gesuiti, che dovevano adoperarsi ad istituire e condurre le prime scuole pubbliche nel territorio. Storia di cento anni, o di qualcosa meno di cento. A seguito della soppressione della Compagnia di Gesù lo stabile passò al demanio statale, al governo Savoia cioè, per essere riconsegnato ad Ozieri e alla sua gente quando appunto fu istituita, con bolla papale, la nuova diocesi (che recuperava autonomia dalla amplissima giurisdizione del vescovo di Alghero).

A guidarci nella visita del palazzo, o almeno del suo primo piano espositivo, è Demetrio Mascia, curatore ed anima dell’intero compendio. Di lui colpisce subito, più ancora che la competenza – una bella e soda competenza! –, l’amore al suo mestiere e all’oggetto di questo, all’arte sacra cioè, direi anzi all’arte in quanto tale, creazione visionaria e talento tecnico, nonché alla sua necessaria e gustosa storicizzazione. Non solo questo: colpisce anche l’interrelazione che egli sviluppa spontaneamente con il visitatore, l’interesse a donare il tanto che conosce ma anche l’interesse a raccogliere, dal sapere o magari dalla esperienza umana e culturale dell’interlocutore proveniente da altri territori, quegli elementi che possono ancor meglio classificare i tesori affidatigli. Persona amabile e straordinaria!

Gli spazi sono articolati per aree tematiche, a cominciare dalla ricostruzione delle tappe secolari della diocesi (denominata precisamente “di Ozieri” soltanto dal 1915, erede allora del lavoro già di cinque vescovi: Azzei, Pes religioso scolopio, Carchero religioso cappuccino, Corrias e Bacciu). Parlano di questo alcuni manufatti lapidei scolpiti nell’età giudicale, una pergamena dell’XI secolo (la “Bibbia Atlantica”), un incunabolo francese opera degli allievi di Gutemberg (“De lepra morali”), i sigilli vescovili (compresi quelli  dei presuli post 1915: Carmine Cesarano religioso redentorista, Francesco Maria Franco, Igino Serci – nipote dell’omonimo arcivescovo di Cagliari e sfortunato per la morte che lo colse nel 1938 al rientro dal congresso eucaristico in Ungheria –, Francesco Cogoni – quartese che resse la diocesi per 36 anni e fu anche padre conciliare –, Giovanni Pisanu, Sebastiano Sanguinetti, Sergio Pintor).

Ripercorre, con noi, i due secoli della nuova diocesi don Cabizzosu, che a questa storia ha dedicato molti studi. In particolare  ricorderei la curatela di “Duecento anni al servizio del territorio”, un bel volume contente gli atti dei convegni svoltisi in preparazione al bicentenario del 2003: i contributi che vi confluiscono sono tutti di prim’ordine a firma, oltreché di Cabizzosu stesso – sono suoi tre saggi distinti per tema –, di Antonio Virdis e Manlio Brigaglia, Lorenzo Del Piano e Francesco Atzeni, Sebastiano Broccia e Leonardo Pisanu, Francesco Birocchi e Leonardo Sole, Giuseppe Ruiu e Salvatore Bussu,  Mauro Dadea ed Edoardo Cerrato, Vincenzo Rini e Giuseppe Sini, Sebastiano Sanguinetti  e Franco Cocco, Luigia Leoni e Maria Vittoria Casu, Francesco Amadu e Renato Iori – entrambi di recente scomparsi. Nel novero anche il defunto cardinale Pompedda, originario della diocesi egli stesso.

Sono curiosità, o circostanze curiose che sono apprezzabili forse soltanto da chi ama la materia e la sa manipolare combinando il presente al passato e viceversa… Pensare che il titolo di Bisarcio sia stato recuperato nel 1997, mezzo millennio dopo l’imperativa dismissione ad opera del terribile Giulio II – un francescano! –, per accompagnare nelle formulazioni ecclesiastiche l’ufficio arcivescovile di presidente della Corte d’Appello dello Stato della Città del Vaticano affidato all’ozierese Mario Francesco Pompedda ozierese… Pensare a questo presule, dottissimo giurista, che lascia dopo quattro anni quell’ufficio e quel titolo, per essere chiamato al cappello cardinalizio (come si diceva un tempo) e, con esso, alla prefettura del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica ed alla presidenza della Corte di Cassazione dello stesso Stato vaticano… Da cardinale egli ebbe la diaconia dell’Annunciazione della Beata Vergine Maria a via Ardeatina in Roma, ma il titolo di Bisarcio fu comunque suo dal 1997 al 2001 (oggi appartiene al messicano Jorge Bautista Cuapio, vescovo ausiliare di Tlalnepantla).

Magnifici, nell’esposizione museale, i pezzi della statuaria, come un San Giorgio che, a cavallo, uccide il drago (del XVI secolo), e quelli della quadreria – e ve ne sono, oltre ai retabli, e qui il Maestro di Ozieri domina ben a ragione: sue e forse in parte della sua scuola sono le sette tavole del mastodontico retablo di Nostra Signora di Loreto con le scene dell’Annunciazione, della Visitazione, della Crocifissione, con l’Ecce Homo, ecc.

Sono diversi gli ostensori, le pissidi, i piatti, i turiboli o le navicelle ecc. che, qui esposti, in verità vanno e vengono dalle sedi proprietarie, come a dire – ma i talarini lo capirebbero al rovescio – che non smettono mai la loro funzione gli arredi sacri provenienti dalle botteghe artigiane più remote, non smette mai di poter esser chiamata a materializzare i discorsi liturgici la oggettistica dell’altare, di servire nel simbolismo del dialogo umano con Domineddio.

Certamente fascinoso il settore riservato ai paramenti del tempo che fu e che oggi possono vedersi, oltre che al museo, soltanto in qualche filmato di liturgie preconciliari: le pianete invece delle casule, i guanti vescovili, i verdi e i rossi… Ma fra mensole, vetrine orizzontali in lunga sequenza, teche a muro protette, ecc. sono croci – bellissima quella astile del duomo locale rimontante al Quattrocento e già nelle dotazioni dell’antica cattedrale di Bisarcio – e reliquari, rosari, mazze processionali canonicali o di confraternite, perfino una corona della Vergine dormiente e Assunta, manufatti vari dell’arte sarda dei secoli spagnoli e anche del Settecento…

A tavola con Roberto Lai

Gustoso cento volte più del pur gustosissimo pranzo anfitrionico è, proprio a tavola, l’incontro con Roberto Lai, che per lunghi anni ha lavorato (e anche diretto, in quanto luogotenente) la sezione operativa dei Carabinieri deputata al recupero delle opere d’arte trafugate dal patrimonio nazionale. Presente ad Ozieri per chiudere le settimane espositive del tour “Il santo venuto dal mare” curato dall’Associazione Arciere e costituito da ben 35 tavole d’arte contemporanea dedicata a Sant’Antioco. Va detto che Sant’Antioco – proprio il santo di origini africane mauritane, medico vissuto nel secondo secolo – è il patrono massimo della Sardegna, proprio il numero uno (in ex-aequo con la Vergine Maria di Bonaria) e fra gli altri patronati ne ha concesso uno, da mille anni, ad Ozieri, tant’è che la cattedrale di Bisarcio si intitolava proprio a lui.

La presenza di Roberto Lai arricchisce tanto quanto non avremmo immaginato la conversazione. D’altra parte la sua “seconda vita” – dopo quella operativa che gli ha meritato i più alti riconoscimenti istituzionali per i risultati portati a casa (presidenti Scalfaro e Napolitano, papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) – è quella di promotore ed organizzatore di cultura, conferenziere e scrittore (anche di fumetti storici) e ancora e sempre ricercatore storico a largo spettro ma certamente con Sant’Antioco – il suo territorio e il suo patrono protomartire, la sua storia e il suo mito – al centro di tutto. Sicché gli episodi di vita – di vita di carabiniere, cioè di servitore dei superiori interessi nazionali – che vuole parteciparci rientrano pienamente in una didattica della missione che tutti – don Cabizzosu e il dottor Mascia oltreché noi tre ospiti – coinvolge come in una fantastica narrazione del… “c’era una volta”.  Così, sopra tutto, il recupero – fra gli altri ventimila della sua carriera (arte archeologica e arte storica, d’antiquariato e contemporanea)! – di una statua nuragica di tremila anni e neppure trenta centimetri stilizzante un arciere, sottratto, con uno scavo clandestino a Grutt’e Acqua, alla città di Sant’Antioco, all’antica Sulki, mezzo secolo fa e incautamente acquistato da un museo americano, il Cleveland Museum of Art. L’arciere benedicente con l’arco in spalla è tornato al museo sulcitano, nonostante le pretese (legittime ma ingenerose) di quello cagliaritano. Un’impresa da manuale!

Nel santuario basilicale di Ardara, il duomo nero

Un pomeriggio ad alta intensità di bello. Ancora altra bellezza, questa architettonica in primo luogo: Nostra Signora del Regno in Ardara. Ma anche pittorica , anche storica. Sono migliaia e migliaia i visitatori, non soltanto italiani – sardi o del continente – ma anche stranieri, di tutte le nazionalità, che aggiungono questa tappa ai lori giri o alle loro permanenze turistiche isolane. Ardara può rientrare nei percorsi del romanico – lo ha fatto il professor Coroneo, lo hanno fatto meritoriamente i suoi continuatori (di recente è stata presentata alla Cittadella una bella guida articolata in dodici itinerari, ed il primo della serie s’intitola proprio “San Gavino – Santa Maria del Regno. Itinerario dei Re da Porto Torres a Ardara”).

E’ don Cabizzosu stesso, titolare di questa chiesa storica e della comunità parrocchiale che vi fa riferimento, a presentarci il gioiello di pietra e d’arte. Un monumento basaltico (dunque di pietra vulcanica, precisamente di trachite scura) risalente alla fine dell’XI secolo, al tempo cioè in cui Ardara venne scelta come capitale del giudicato di Torres (nei suoi pressi era anche il castello regio). Il cantiere durò forse una decina d’anni e nel 1107 fu consacrato l’altare maggiore. La funzione della chiesa si legava intimamente alle vicende della famiglia giudicale: qui i giudici giuravano alla loro investitura, qui forse erano stati battezzati, qui si erano uniti in matrimonio, qui venivano seppelliti. Fra i molti nomi che rimbalzano dal gran vaso dei novecento e passa anni certo non sono poca cosa quelli di Adelasia di Torres e re Enzo di Svevia… Qui anche, se non so male, si celebrò qualche sinodo ecclesiastico.

Una grande navata centrale con copertura in legno, due navate laterali invece con volte a crociera: questo l’impianto. I sedici pilastri cilindrici con capitello(che reggono ampie arcate a tutto sesto) restituiscono ancora, quasi tutte, le decorazioni, purtroppo mal restaurate, con le immagini di apostoli e santi, datate al secolo XVII. Semicircolare l’abside, probabilmente affrescata nei primi tempi, impreziosita da un magnifico retablo tardogotico, datato fra il Quattro e il Cinquecento: dodici metri di altezza, forse è, per dimensioni, il maggior polittico sardo del suo tempo. Le tavole rappresentano i “misteri gioiosi” della vita di Maria di Nazareth: dall’Annunciazione alla Natività, dall’adorazione dei Magi alla Resurrezione, dall’Ascensione di Gesù al cielo alla Pentecoste – la discesa dello Spirito sugli apostoli e su Maria stessa –, alla Dormizione infine (che è tratto cultuale che rimanda all’influsso bizantino formidabilmente tenace nell’Isola). Nella predella è la mano di un artista sardo – Giovanni Muru – e la data di esecuzione dell’opera (il 1515): nella tavola frontale del tabernacolo è raffigurato Cristo “in pietà”, in un’altra è San Gavino a cavallo con la bandiera recante lo stemma turritano. In una nicchia che costituisce come il cuore del grande retablo è la statua della patrona, cioè di Nostra Signora del Regno, la Vergine modellata in legno dorato, secondo un profilo tardogotico.

Committente del tutto, si ipotizza, un canonico di San Pietro di Sorres, arciprete a Bisarcio. Al tempo, si sa, la funzione dei retabli, oltreché di abbellimento degli spazi sacri, era didascalica, o didascalico-narrativa, o chiamala ancora catechetica: si trattava di insegnare le verità di fede al popolo analfabeta non attraverso i libri ma attraverso l’iconografia.

Di importanza pittorica è anche il retablo cosiddetto minore, collocato pressoché al centro del fianco perimetrale destro. Purtroppo danneggiato, è di un autore anonimo e fissa nelle sue tavole vari episodi della passione di Nostro Signore. Di grande rilievo è altresì il pergamo, rimontante forse già all’anno uno di vita del grande manufatto architettonico, giustamente riportato ora dove era la sua collocazione originaria, fra due delle colonne alla destra dell’imponente navata.

Il ritorno a Cagliari

L’ospitalità finale nella casa canonica, fra i libri di don Cabizzosu – minima porzione di quelli che egli custodisce con intelletto d’amore nella sua Illorai –, è spesa a commentare la bella giornata ed a ringraziare. A ragionare anche sulla destinazione delle nostre biblioteche, dei nostri archivi, delle nostre raccolte documentarie… perché il tempo degli uomini è breve, e ogni generazione che si sa debitrice di chi l’ha preceduta sente il dovere di trasmettere, a sua volta, a quelli che verranno e sapranno ancora far fruttare per il bene pubblico e dei singoli.

Giornata finita. Le considerazioni generali che s’aggiungono nella discesa da capo nord a capo sud, fino a Cagliari nostra cioè, rimandano in primo luogo alla pienezza di sollecitazioni morali e spirituali, intellettuali ed affettive che la giornata ha donato a noi cagliaritani pellegrini in terra lugudorese. A far ponti di amicizia ed ammirazione ai fratelli del capo di sopra. Sardi siamo, e sbagliamo quando ci dividiamo.

Commentiamo con entusiasmo – questa è la parola giusta – come abbiano corrisposto i talenti delle persone incontrate alla virtù dei luoghi ed al pregio di manufatti che ci è toccato conoscere da vicino. Demetrio Mascia e Roberto Lai, di fianco a Tonino Cabizzosu. Foto di gruppo per condividere il meglio.

Ma naturalmente non possono restare fuori, al ritorno come all’andata, le altre ennesime questioni che s’affacciano nell’attualità e suscitano polemica. Perché sempre rimane, in omaggio alla comunionalità, lo spirito critico. E giù allora a riprendere, bissando e precisando, dalla cronaca del giorno, questa o quella uscita di Renzi statista piccolo piccolo, il dibattito pubblico, e anche parlamentare, sulle materie che paiono scabrose alle anime belle e che i cristiani per primi dovrebbero invece avere il coraggio di sdoganare, con un intento testimoniale non impositivo. Vivendo e proponendo un modello, alimentando la pedagogia dell’esempio, mai copulando con il legislatore. Metti – a riprendere il discorso su Welby e il suo carnefice spirituale – le questioni della bioetica, del testamento biologico o del fine vita, della eutanasia, oppure quelle della morale familiare in trasformazione fra esperimento ed accettazione, della ingegneria genetica, delle nuove forme di procreazione assistita, delle famiglie allargate o arcobaleno, della comprensione o della incomprensione, del giudizio sociale che ha il respiro del ghiaccio…

Si ricorda che proprio un vescovo originario dell’Ozierese, don Angelo Becciu oggi sostituto della Segreteria di Stato vaticana, era stato incaricato dal pontefice di intrattenere Walter Piludu, costretto dalla SLA e interrogante o invocante il fine vita, e una disciplina legislativa di alto profilo… «Il Papa è rimasto colpito dal fatto che lei, anche in questa tragica situazione e pur non avendo alcuna fede religiosa riesca a dare ancora un senso alla sua esistenza…».

L’architettura e l’arte, i campanili e i retabli, la bibbia e la teologia, la storia e i libri, l’ospitalità degli amici anche, e gli incontri con i migliori… poi, a fine giornata, il pensiero ritorna però alla crudezza del vivere, ed ai modi possibili di condividere i pesi del quotidiano anonimo, senza visibilità e senza compensi.

 

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    2 Comments to “Una gita di piacere e d’istruzione ad Ozieri ed Ardara, di Gianfranco Murtas”

    1. By Salvatore Cubeddu, 30 aprile 2016 @ 07:29

      Caro Gianfranco,
      dev’essere stato veramente gradito e meritevole di ricordo il viaggio verso l’incontro di un amico che abita una delle più belle chiese della Sardegna! Il pezzo riesce gradito anche al lettore e anche all’editore. Le (pochissime) mie precedenti precisazioni hanno sempre avuto due oggetti: l’eccesso di severità con cui giudichi il presente episcopato di Cagliari e il rapporto tra la Sardegna e l’Italia, con gli inevitabili nostri differenti punti di vista, sui quali ci siamo altre volte intrattenuti. Scusami se – del bel resoconto del viaggio – sono spinto a svolgere delle precisazioni su tre o quattro capoversi isolati del lungo articolo.
      Quel che so della condizione della Chiesa di Cagliari (io provengo da quella oristanese) l’ho conosciuta soprattutto attraverso conversazioni con te, e lettura di cose tue, e dalla pratica con la parrocchia di S. Eulalia. Delle vicende di quest’ultima mi sono (“giocoforza”) occupato personalmente a partire dai ‘fatti di Mani’ del 2010. Siamo stati insieme, ed è da te che ho ricevuto racconto e testimonianza in merito all’omicidio di don Pittau, parroco della Cattedrale (avvenuto nel primo anno della gestione Alberti), sul quale peraltro tu non hai smesso mai (unico, al di fuori della famiglia) di occuparti.
      I tuoi riflettori hanno illuminato i comportamento omissivi e inspiegabilmente liquidatori di mons. Ottorino Alberti, diffidente per ogni seria indagine sul delitto, quella che allora avrebbe potuto e dovuto arrivare a quella verità, ogni giorno diventata più lontana. Interrogarsi sul “se”, “perché” e “come” quell’Arcivescovo abbia in tutta fretta accettato l’ipotesi ‘suicidaria’ invece – pure sollecitata – di quella omicida porta a risposte dalle conseguenze devastanti. Eppure necessarie.
      Tu insisti con i successori di Alberti – Mani e Miglio – perché richiedano alla Procura di riaprire le indagini sulla morte del parroco della cattedrale. Immagino che ti renda conto che in esse sarebbero comprese gli atteggiamenti e le scelte dell’Arcivescovo di quei giorni. Una forma indiretta di denuncia del proprio predecessore. Fossero dimostrate solo metà delle tue valutazioni, la buon fama dell’uomo e del vescovo Alberti ne uscirebbe a pezzi. Cose che la storia non teme, quando si ricerca la verità, ma renderebbe meno giustificate le tue valutazioni complessivamente positive sull’uomo e sulle sue scelte, per lo meno nel governo della diocesi cagliaritana.
      Infatti, anche in questo articolo, tu riprendi la questione ma facendoti annunciare con un “… onore pubblico merita ancora oggi, in benedizione: al professor Tito Orrù, a monsignor Alberti, al compianto don Tonio Pittau, al poeta martinista Vincenzo Soro fra i primi…”. La vicinanza tra il secondo e terzo nome (Alberti e Pittau) è francamente imbarazzante: alla luce di quello che affermerai dopo, quell’’onore pubblico’ non risulterebbe meritato.
      Certo, mons. Alberti si prende da te gli onori per i suoi studi, ma pure la reprimenda per aver iniziato ad accettare all’ordinazione sacerdoti non preparati (facevano numero) e per non aver stroncato il fenomeno, che tu descrivi gravissimo, dei preti ‘talarini’, il cui moltiplicarsi consideri la piaga che ci aspetta nel futuro. Ma tutto viene detto nel calore dell’amicizia per mons Alberti che il passare del tempo sembra quasi comporre nell’indulgenza e nel perdono.
      Su Mani getti il giusto sguardo corrucciato e quasi “non ti curi di lui … ma guardi e passi” perché Mani ha peggiorato tutta la situazione e non risolto niente.
      Ma arrivi a mons. Miglio e fai pagare a lui tutto quello che gli altri hanno lasciato, giudicandolo con una severità prima non utilizzata e proponendo sottolineature eccessivamente critiche, in cui dei fatti, per molti versi discutibili, vengono amplificati nella gravità prima che nel significato.
      Quello che tu giustamente chiedi a lui è di farsi guida di una Chiesa secondo il Vangelo. Cosa normale, corretta, obbligatoria persino, ma sapendo da dove partiamo, dai preti-religiosi-suore-laici che abbiamo, dai duemila anni di storia con cui fa i conti quotidianamente quella figura – tra il manager da filiale di grande impresa, leader religioso e civile, direttore di ruoli e professionalità – che la designazione affida ad un vescovo in Italia. Ruolo da discutere, certo; da contestare, e sono con te; da stravolgere, mi trovi al tuo fianco. Ma non possiamo pretendere di giudicare questa persona, caricandogli la terribile eredità trovatasi sulle spalle, sulla base delle idee ed ideali che noi stessi facciamo fatica ogni giorno a testimoniare. E, soprattutto, senza conoscere le sue ragioni.
      Io credo che dobbiamo usare i nostri strumenti di analisi storica, sociologica e psicologica con serenità perché ci aiutano a pulire i nostri occhi e a rendere più limpidi i nostri giudizi.
      Abbiamo sotto gli occhi la vicenda del parroco di Mandas, del cui sviluppo restiamo attenti osservatori. Ma ieri abbiamo letto anche che monsignor Miglio ha arricchito la sua riconosciuta apertura alla realtà sociale sarda con le tematiche dell’identità e della lingua, congiungendosi necessariamente con la costruzione della prosperità complessiva dei Sardi. Non è stato sempre così, ed il fatto che sia un vescovo non sardo ad assumere la guida di un percorso culturale ed ecclesiale di così lunga ed importante prospettiva, me lo rende decisamente più vicino dei suoi predecessori. Un uomo ed un vescovo con il quale mi auguro sia possibile collaborare.
      In amicizia, ti saluto,
      tuo SALVATORE CUBEDDU

      • By Salvatore Cubeddu, 2 maggio 2016 @ 15:06

        Caro Salvatore,

        le tue osservazioni al mio scritto circa le libere conversazioni con amici di valore in occasione del viaggio e della permanenza di qualche ora fra Ozieri ed Ardara meritano a loro volta – come mi pare tu stesso solleciti – precisazioni o chiose da parte mia.

        Paiono, quelli che tu evidenzi, temi in parte diversi fra di loro, ma poi tutto si tiene, gli affacci sono reciproci fra i versanti della politica e della religione, perché le autonomie sono infine sussunte nella visione complessiva che ciascuno di noi ha di sé e di sé nella vita di relazione, si tratti di relazione civica, o associativa od ecclesiale. La mia, irrinunciabile e irriducibile, tanto più ora che la salute mi fa sentire all’angolo, è quella della testimonianza libera a favore di una società inclusiva, e dei ruoli d’autorità riportati alle rubriche del servizio dialogico, mai all’autoreferenzialità imperiale. E in questo contesto, a me non importa nulla di far vincere il mio punto di vista, mi importa argomentare il mio libero convincimento e metterlo agli atti, valendo come testimonianza di uno che non si è tirato indietro. Chi ha vissuto come me quarant’anni e più nella quotidiana confidenza con i libri e l’emeroteca, le carte d’archivio ed i memoriali, conosce bene l’importanza della traccia documentale. Per questo temo più di tutto, come Dante, l’ignavia, l’astensione dalla riflessione critica e dall’impegno. Ho fatto la mia parte, finendo anche in tribunale, per difendere una causa nobile, quella dei ragazzi con l’aids e malcurati, vent’anni fa. Tante cause nobili, anche in politica, anche nell’associazionismo umanistico che ha cercato sponde d’intervento operativo presso i giudici minorili, anche nel privato con l’allestimento degli spazi privati per i malati oncologici e poi per il reinserimento sociale dei comunitari già tossici. Nessuna medaglia, lo sforzo di dare senso ad una vita rimasta volutamente marginale, nella sequela dei valori semplici della pedagogia domestica.

        Nella considerazione poi del flusso permanentemente vitale fra il passato e il presente, nella convinzione della necessità della risalita permanente del presente al passato, cioè dell’attualità alla esperienza già vissuta ed elaborata. Tanto più questo processo ideale, che vale come metodo, mi è sembrato e mi sembra ineludibile quando si tratti di istituzioni, che vivono di continuità storica. La Chiesa è, da questo punto di vista, così nella sua dimensione comunitaria come in quella ministeriale, propriamente una istituzione, e fra il molto altro che frulla nella Chiesa come sistema comunionale, considero che un episcopato relazioni di necessità con i precedenti (ormai esauriti), di cui è chiamato ad assorbire o rettificare le inadeguatezze e perfino gli errori.

        Non potrei pretendere emendazione – lo dico con altre parole – da don Ottorino Alberti nulla di quanto fu fatto o non fatto perché la vicenda di don Tonio Pittau, il parroco della cattedrale nostra, vittima innocente in quel dicembre 1988, fosse chiarita. Ma posso chiedere a chi oggi vive la mia stessa vita di non perdere tempo ed attivarsi per recuperare trascorse omissioni, rimediare perfino a depistaggi, se questi effettivamente ci sono stati da parte della autorità ecclesiastica per tema dello scandalo. Giusto così come per anni e anni si è fatto in tema di pedofilia, quando l’evitare lo scandalo sembrava prioritario sul soccorso alla vittima. Potrei anche dire, oltre questo recinto del perbenismo ipocrita, … di quando si è voluta difendere una onorabilità di facciata e invece che “ospedale da campo”, come la chiama papa Bergoglio, la Chiesa pareva e si presentava come “tribunale di primo secondo e terzo grado”, sempre e comunque. E ci si permetteva di seppellire in terra sconsacrata i suicidi, quelli stessi cui oggi giustamente si riversa pietà e tenerezza e anche pentimento per i mancati e tempestivi soccorsi. In un giorno dell’ottobre 1894 a Cagliari il feretro di una Caterina Devoto fu abbandonato, a metà corteo, dal prete chiamato all’accompagnamento, quando questi seppe che la poverina s’era suicidata disperata per la morte del marito, e si proseguì, lungo la via Roma e il viale Bonaria, soltanto con l’altro carro che portava al sepolcro il buon Salvatore Onnis, negoziante della via Manno, dal cui balcone tre anni prima aveva parlato addirittura Felice Cavallotti… Il don Pinna cagliaritano aveva anticipato il cardinale Ruini di 112 anni. Si potrebbe anche dire che il cardinale Ruini – colui che s’era permesso di condannare chi cercava pace dopo trent’anni di SLA – non aveva capito la lezione di 112 anni prima… Continua il chiaroscuro.

        Che senso ha, Salvatore, la petizione di perdono lanciata da papa Wojtyla quando fece riferimento allo schiavismo, e magari alle crociate e all’inquisizione, o al perverso antisionismo, o alla violazione dei diritti delle etnie e dei popoli, ecc. ? Io aggiungerei la ghigliottina del beato Pio IX e la morte ingiusta di Goffredo Mameli Il senso è, a mio avviso: non possiamo cancellare il passato, possiamo però purificare la memoria nella presa di consapevolezza dell’infamia contra Evangelium, con il proponimento di recuperare il senso della missione, quello che va, appunto, per l’”ospedale da campo” e non per il “tribunale di primo e secondo e terzo grado” del prossimo (e allegata prescrizione del proprio disimpegno).

        Per questo posso e debbo chiedere a don Arrigo quanto non posso più oggi, ma potei ieri (quando non mi defilai), chiedere a don Ottorino. Don Arrigo oggi può, don Ottorino non può.

        Ma poi bisognerebbe mettere ordine su questa materia, restando sul concreto ed evitando il generico.

        Dunque don Tonio Pittau scomparve in quel pomeriggio del 22 dicembre 1988. Invano fu atteso per la novena di Natale in duomo. Fu ritrovato la mattina presto dell’indomani nel burrone all’arco dell’Angelo. Con sostanza cerebrale – segno di aggressione mortale – sulla strada alta, sostanza che per pietà fu seppellita, come confidò lo stradino che vi provvide, a don Dino, fratello dello sfortunato parroco di Santa Cecilia.

        Le circostanze di fatto che delinearono il quadro di quell’evento – i precedenti: la minaccia ricevuta da parte di due incogniti nella sagrestia nei giorni precedenti, la telefonata pure allarmante ricevuta a casa nel giorno della tavolata di compleanno; i contestuali: l’impossibilità pratica della fuoriuscita accidentale della vettura dal campo stradale verso il precipizio, il corpo adagiato di fianco alla macchina rovinata e coperto come a proteggersi, e tanti particolari riguardanti gli occhiali, la mano livida ecc.; i successivi: i due incogniti presentatisi con talare e millantando la familiarità per poter visionare (e forse violare) l’autovettura recuperata e sequestrata dall’autorità giudiziaria, l’irruzione nella casa di via Baccelli e l’asportazione di un pc, ecc. – ben potevano indurre, secondo anche l’immediata intuizione della scientifica, a considerare l’ipotesi delittuosa.

        Ma l’autopsia, che pur doveva essere di legge, non fu compiuta. Chi rivestì il cadavere di don Tonio, appena toccandogli la nuca, si rese conto che lì la scatola cranica era distrutta. Non avrebbe potuto, chi perdeva sostanza cerebrale, aggiustarsi alla meglio per ripararsi dal freddo della notte e proteggersi con un telo come lo trovarono, la mattina, i vigili del fuoco chiamati al recupero.

        Indagini di polizia portarono subito a congetture di una certa credibile coerenza. Ma chi più di tutti s’impegnò in quella fatica fu trasferito presto in altra sede lontana del continente. La ripetuta apertura e chiusura delle azioni investigative e di magistratura non portò a nulla. Ma la salma di don Tonio Pittau non fu mai esumata, né si giustificò mai alla famiglia, che pur si diceva pronta a provvedere alle spese con risorse proprie, il no detto e ripetuto.

        Trattai della materia – soltanto quanto però egli mi concesse, e non fu molto – con l’arcivescovo Alberti, che era nella pienezza del suo ufficio da un anno giusto allorché l’incidente/omicidio avvenne.

        Sollecitato da amici, anche del clero, che mi chiesero di impegnarmi in qualche modo per tenere “caldo” il caso, non avendo titolo di diretta interlocuzione con la magistratura, potei intervenire soltanto con un libro di taglio modestamente letterario, che fu occasione però anche per esporre la mia visione, di laico credente, della Chiesa così come la formazione conciliare mi aveva prospettato e le complessità della vita mi avevano sposato.

        Per una pura coincidenza temporale – poiché invero l’opera fu presentata molti mesi prima – il libro/libretto “Lo specchio del vescovo” giunse al pubblico, nello spazio grande all’aperto di Sant’Eulalia nel settembre 2003, quasi quando don Giuseppe Mani venne a raccogliere il pastorale di don Ottorino.

        Chi era presente – e credo di non sbagliare di molto se dico duecento persone – può forse ricordare che, intervenendo dopo Giancarlo Ghirra, Mario Cugusi e Bachisio Zizi, il mio maestro anche lui tanto caro quanto contestato, tanto contestato quanto caro, parlai esplicitamente della causa sottostante il racconto o romanzo. La riflessione che proposi, e certo ne esiste la registrazione, non evitò per nulla la esplicitazione di tutte le riserve che io ebbi, e manifestai anche con qualche clamore, per numerosi atti del governo pastorale di don Ottorino Alberti. L’amicizia personale con lui, maturatasi alla svolta dell’anno santo 2000, non mi fece velo al dovere che sentivo di inquadrare la vicenda di don Pittau – e io dico le omissioni effettive perché tempestivamente si giungesse a verità –, nel contesto di un modello episcopale che avvertivo, tutto sommato, superato. Il che, appunto, per nulla entrava nella considerazione benevola e anche grata di altri aspetti della personalità di quel vescovo, aspetti che furono evangelicamente straordinari e disegnano, o contribuiscono a disegnare una personalità ricca, complessa e contraddittoria.

        Ho detto tante volte – ma dissi in primo luogo a lui, faccia a faccia – che egli scontava rigidezze di formazione clericale di cui fu prova anche, lo accenno qui en passant (ma si trattò di confidenza sua! e la fonte è autentica), l’adesione passiva a certa pur rispettabile committenza preconciliare di alcuni suoi studi andati a stampa. Egli fu biografo ammiratore di Pio IX e del vescovo Demartis, io ero e sono per la disobbedienza di Giorgio Asproni ed nitore del canonico Muzzetto. La differenza c’è, culturale, religiosa e politica, e non è poca.

        La sostanza dunque è questa. Il professor Montaldo, uomo di provata fede cattolico-romana, ritenne che Medicina legale potesse certificare, nei termini semplicisti in cui certificò, la causa di morte di don Tonio Pittau. La sostanza è ancora questa: il sovrintendente della giudiziaria che dirigeva le indagini sull’incidente omicidiario, ben convinto della natura di quella morte tragica, venne inopinatamente trasferito altrove e dimissionato dal fascicolo. Altro ancora?

        Quando, dopo l’interregno di don Ledda, a capo della comunità di Santa Cecilia venne assegnato un altro presbitero, di carattere difficile ma esemplare per onestà di cuore e materiale – si era ancora negli anni del governo Alberti –, io presi conoscenza di quanto le anomalie, nella conduzione complessiva della cattedrale e/o nel rapporto permanentemente conflittuale fra parrocchia e capitolo metropolitano (o i rispettivi vertici), già affacciatesi al tempo del parrocato Pittau proseguissero dieci anni dopo e oltre. Seppi di situazioni scabrose sotto il profilo puramente ecclesiale, delle “pezze” di copertura approntate con qualche spregiudicatezza da uomini di Chiesa, di minacce velate al nuovo titolare in cerca di bonifica e di altre minacce che sono invece finite nelle cronache dei giornali – basterebbe riprendere in mano la stampa del tempo –, seppi anche di rimaneggiamenti nello staff dei collaboratori che l’arcivescovo effettuò per pacificarsi con il parroco (assistito per la bisogna parlamentare dal collega di Sant’Eulalia), il quale a sua volta accettò di ritrarsi accettando altro ufficio. In cattedrale subentrò don Dino Pittau, e fu – in questo almeno – un risarcimento alla memoria di don Tonio perduto.

        Sullo sfondo, naturalmente, il mirabolante furto del giugno 1985 nelle stanze del Tesoro museale, dopo la disattivazione (?) del nuovo impianto d’allarme impiantato gratis per gratificazione pubblicitaria di un’impresa specialistica, sullo sfondo anche – ne ho accennato – episodi sconvenienti sempre e tanto più per la sacralità del luogo. Peggio che peggio, di notte alta.

        Doveva svolgere indagini giudiziarie l’arcivescovo Mani reso edotto di tutto a pochi giorni dal suo ingresso in diocesi? No, e non glielo si è mai chiesto, infatti. Ma certamente il suo sostanziale “non m’interessa, è cosa avvenuta prima che arrivassi” – al pari del commento sul suo disimpegno dalle delibere attuative del Concilio Plenario Sardo – “non m’interessa, è cosa avvenuta prima che io arrivassi”, è stata una sconcertante presa di distanza istituzionale, nel senso della comunionalità ecclesiale che non dovrebbe conoscere cesure temporali.

        Quel che potevo fare, a distanza di cinque anni dall’uscita de “Lo specchio del vescovo”, l’ho fatto: pubblicando sull’edizione regionale de La Nuova Sardegna un articolo di memoria e segnalazione (nel ventesimo anniversario) e inviandone poi copia al papa, per il che ebbi corrispondenza con il nunzio apostolico, oggi cardinale, Bertello. Miravo, evidentemente, agli aspetti ecclesiali, non a quelli giudiziari: evidenziavo cioè la diserzione dell’arcivescovo (che presto avrebbe trionfato sulle macerie di Sant’Eulalia umiliando indecorosamente una comunità), il quale non curava, a nome della Chiesa, né i rapporti con gli uffici del Palazzaccio per la pratica dormiente ma soprattutto non curava la raccolta delle pur frazionate testimonianze che dal clero e dalla rete anche religiosa e laicale attorno alle parrocchie cittadine potevano ancora venire, onde favorire conclusioni o avanzamenti effettivi nelle indagini.

        Siamo all’oggi: e come, attraverso don Dino Pittau, interessai della complessa (o semplice?) vicenda l’arcivescovo Mani nel 2003 e il Vaticano nel 2008, ancora ritengo abbia il diritto/dovere di interessarne l’attuale arcivescovo Miglio, nonostante di lui io, incredulo al suo pastorale operaio e nonostante l’antica ospitalità al vescovo Bettazzi, non abbia avuto fino ad oggi alcuna ragione di stima.

        Tutto si tiene, ho detto. E questa mancanza delle ragioni di stima, archiviate ormai quelle tutte belle e registrate riferite al suo predecessore (dalla deportazione dei chierici a Roma fino alla omissione quasi decennale dei verbali della Conferenza Episcopale Sarda, passando per l’affaire Cugusi e altri ancora risolti d’autorità, si sa, da papa Bergoglio in persona! mi riferisco all’affaire Piras e ad un processo in vicariato che è stato annullato appunto dal pontefice), le ho volta a volta portate in pubblico dopo che in privato: dalla preferenza data a una partita di calcio (in uno stadio interdetto da prefettura e magistratura) rispetto all’assemblea di 500 anime autoconvocatesi per salutare l’arrivo a Serdiana di don Cugusi, alla censura accettata e protetta ad una lettera inviata al giornale diocesano (che aveva perfino lodato una bestemmia mariana – incredibile! per difendere il presidente del Cagliari e l’anomala presenza vescovile alla partita di Is Arenas), dal dimezzamento (per incapienza) dei posti riservati ai ragazzi del carcere minorile che il papa aveva detto di voler incontrare – quando poi molti banchi erano occupati, con pass dell’organizzazione, da impiegati e anche da pensionati dell’amministrazione penitenziaria! – alla mancata risposta ad una lettera che, sul punto, aveva inviato don Cannavera e all’arcivescovo recapitata già da due anni. O ancora per l’indifferenza mostrata allo stesso don Cannavera quando comunicò al ministro le sue dimissioni protestatarie dall’ufficio di cappellano dell’IPM (dove continua a servire) o per come ha affrontato le problematiche schegge della pedofilia nel nostro territorio… Gli è mancata, gli manca, a mio avviso – che è un avviso certamente personale e marginale – quella propensione a immedesimarsi nella vittima: quella che aveva il padre Gilio de “Lo specchio del vescovo” e di cui don Ottorino Alberti era stato informato… per essere formato… Come padre Gilio conosceva uno ad uno i carcerati e ne informava i suoi perché arrivasse una voce amica alle famiglie coinvolte, ai genitori anziani dei detenuti, alle spose o ai mariti, ai piccoli di casa orfani civili, così avevo proposto all’arcivescovo Miglio di fare: senza orologio, delegando il governo corrente della diocesi ai suoi vicari, vivendo la vita di Mandas e Villamar, e magari di Gesico, e magari anche di Vallermosa, entrando in confidenza con le famiglie, trattenendosi ai pasti con loro, per ascoltare, ascoltare, ascoltare, cioè imparare, trasmettendo empatia, tessendo insieme – come insegnava il cardinale Pellegrino – la tela della amicizia e della fiducia. Ma, Salvatore, è davvero assurdo o improprio o eccessivo tutto questo?

        Siamo pieni di giovani preti lefebvriani, non soltanto a Cagliari. I sassaresi, mi dicono fonti dirette, neppure gli parlano, al povero vescovo prossimo ormai alla pensione. Come fece, in era preFormigoni, anche Comunione e Liberazione, la tentazione è quella di fare una Chiesa perfetta dei pochi dentro la Chiesa imperfetta dei molti. In termini adesso ancora più gravi, e ormai da vent’anni il fenomeno dei giovani preti anticonciliari e in palese crisi identitaria personale va diffondendosi davanti ai nostri occhi sorpresi e scettici, scettici per non dirsi impauriti della retrocessione… Non sente l’arcivescovo Miglio di doversene occupare, riferendo alla comunità i rimedi da lui proposti per la salus animarum di quelle comunità particolari – si pensi al Gerrei ma ormai non c’è territorio che si salvi – e dell’intera archidiocesi?

        Ancora negli anni della mia infanzia vigeva la tradizione, validatane la corruzione popolare del senso proprio, della purificazione delle puerpere. Basterebbe leggere oggi l’esortazione postsinodale di papa Bergoglio sulla famiglia – “Gioia dell’amore” – per capire quanto l’assoluto, spacciato per tale dai dottrinari, si riduca, si debba ridurre, si sia ridotto a ordinario relativo. E se leggessimo le lettere dal Concilio del carissimo (a me) arcivescovo Carta, con le sue drammatizzazioni sul limbo dato per verità piena, e riscontrassimo tutto con l’elaborazione del 2007 a firma dei teologi incaricati dello studio “misericordioso” da papa Ratzinger… E allora? Se sono principi non negoziabili quelli della vita dal concepimento alla morte naturale, e un tempo la pena di morte non solo era ammessa ma era consigliata e praticata in prima persona dal boia dello Stato Pontificio, perché sorprendersi se si consiglia ad un vescovo di rispondere alle domande non dal trono ma dallo sgabello del fratello di fianco, o di conciliarsi – condividendone materialmente il disagio – con le famiglie turbate per le molestie recate da qualche prete a un minore di casa, o del vicinato, o della scuola frequentata dai propri figli o nipoti?

        Mi può bastare l’interessamento di don Miglio per la liturgia in sardo, addirittura per la ufficializzazione canonica della messa nella lingua dei nostri padri e delle nostre madri? Io dico di no, pur apprezzando ovviamente ogni passo in quella direzione. Ma non può questa sola benemerenza, teorica o pratica che sia, risolvere il grande problema, come non poteva bastare il miliardo del 1924 a comprare i sardomori – chiamali rossomori, o chiamali camicie grigie – facendone i fasciomori puntello della dittatura, ras del regime per vent’anni, complici della guerra e colpevoli primi delle devastazioni e dei lutti che le nostre famiglie hanno pagato amaramente. Valgono sempre i valori universali, che non sono accidentali ma sono permanenza di segno di una civiltà. Ricordo sempre il nostro Cicito Masala, e lo ripeto ancora adesso, recuperando i versi del canto dei Mau Mau: «Vennero gli uomini bianchi / e ci portarono il loro Dio. / Ci insegnarono, quando preghiamo, / ad alzare gli occhi al cielo. / Mentre guardavamo il cielo / ci rubarono le nostre terre».

        Se in cambio dell’impegno alla messa in sardo io mi acquietassi mettendo in non cale la mancanza di corrispondenza empatica con il vescovo, sarei un rinunciatario e mi piegherei al colonialista di oggi e di domani – quale egli sia –, ingordo sostenitore di interessi non dei migliori… L’anticolonialismo – valga qui la metafora – ché non sto accusando alcuno di colonialismo militante – non può praticarsi a parole e basta, servono i fatti.

        Abbracci, gianfranco murtas