Una piazza per Fernando Pilia, di Gianfranco Murtas
Ha pagato un debito morale, Cagliari, intitolando un pezzo del suo belvedere a Fernando Pilia studioso con molte vocazioni di spicco e democratico generoso. Glielo dicevo come riconoscimento riassuntivo del suo “tutto”, questo aggettivo – generoso –, associandolo al professor Antonio Romagnino, il polo forte della mia formazione civile: siete due uomini di scuola e avete la generosità degli uomini di scuola, e questa generosità la portate ovunque vi affacciate nella vita pubblica, Romagnino a Italia nostra o agli Amici del libro, tu nel Partito Sardo d’Azione oltreché nella semina di conferenze e partecipazioni nei luoghi di discussione, e alla radio, e sui giornali. Gli avevo regalato, come a Romagnino, un abbonamento a La Voce Repubblicana diretta allora nientemeno che da Giovanni Spadolini, e l’uno e l’altro erano rimasti colpiti da tanta ricchezza di contenuti concentrata in quelle otto o dodici pagine di formato davvero mignon, meno che tabloid. Esplosive però, perfette nella presa (anche polemica) dell’attualità, dotte nell’approfondimento storico od economico od istituzionale, ampie nel notiziario della vita della comunità associative dei centotrentamila tesserati negli anni ’80.
Fernando era professore quando io frequentavo le scuole medie, alla Numero 1 che dalla via Eleonora d’Arborea s’era proprio allora – novembre 1963, prima media – trasferita nei tre plessi nuovissimi di via Venezia, di fronte alla Randaccio, quando tutto era campagna sul calcare dirimpetto allo stadio Amsicora che sarebbe stato presto erboso e della serie A. Lui poi aveva ottenuto – credo dalla fine di quegli anni ’60 – che la scuola del preside Piero Atzeni si intitolasse a Giovanni Battista Tuveri, che per me era allora il nome di un illustre pressoché però sconosciuto, e per lui era una guida ideale e morale coltivata già dall’adolescenza, nello spettacolo dell’Italia e della Sardegna tornate in pace e in libertà. Aveva 21 anni, Fernando studente di Lettere al corso di Archeologia, quando nell’Isola si votò per il primo Consiglio regionale del quale sarebbe stato eletto presidente il suo miglior maestro, forse non soltanto perché ogliastrino come lui: Anselmo Contu. Quell’Anselmo Contu che s’era fatto qualche tempo nella galera fascista, lui con altri sardisti inquadrati in Giustizia e Libertà e l’amico fraterno e repubblicano Michele Saba, fra il 1930 e il 1931.
Si prestava ovviamente alle supplenze, anche del mio professore di lettere che doveva essere sardista pure lui – Angelo Pinna – e ricordo che quando entrava in aula, lui massiccio e con un volto come di un pugile arrabbiato ma solo per finta, quasi un mastino, quei capelli neri e bassi disciplinati come i soldati d’un reparto, la bocca stretta e la voce musicale – tale mi sembrava, e peraltro era quella ascoltata a Radio Sardegna nelle sue rubriche di curiosità storiche e sociali (come quelle che teneva su L’Unione Sarda, e ne avrebbe tenuto ancora, volgendola sempre più alla cucina…) – era tutto uno spumeggiare giocoso. Sì, uno spumeggiare giocoso ma anche impegnato, serio perciò, lui che sapeva tutto ed entrava irruento nel dialogo con noi dodici-tredicenni, creature in formazione, senza l’arte di Gesù che doceva in sinagoga, sorpresi e forse intimoriti da questo signore che sapeva dominare la scena, interrogante sul più ed il meno, magari anche familiare, di noi altri seduti ai banchi mobili, modernissimi, di formica verde.
Cresciuto il bambino, ancora in cattedra lui ma prossimo a lasciare, i rapporti s’erano fatti paritari, anche se, a dire delle profondità, la pozzangherina non avrebbe mai pareggiato il pozzo. Ma acqua c’era qui e c’era lì, a dire delle somiglianze e degli interessi condivisi che erano, nelle conversazioni nella sua casa di via Scano (nello stesso palazzo del professor Dessanay), di tre ordini: prevalente quello politico, sulla nostra cuginanza di sardisti-repubblicani; a latere quello delle molte nostre espansioni sociali e culturali – solide le sue, in fieri le mie –, fra giornalismo ed editoria, ricerca d’archivio e associazionismo, letteratura – anche Bachisio Zizi ci avrebbe unito – e certamente arte, arte pittorica e arte plastica, data la sua competenza ed i rinforzi continui della sua… personale ricchissima pinacoteca sarda, che bene si combinava (non soltanto nella casa di Cagliari) alle collezioni dei gioielli e dei reperti archeologici, lecitamente posseduti s’intende!… Il terzo, a latere sul fronte del gusto cosmopolita, era la massoneria, fra Risorgimento (e Fernando amava il Risorgimento italiano con le sue icone democratiche, i suoi eroi giovani, dai fratelli Bandiera a Goffredo Mameli!) e Novecento impiegato nell’antifascismo, data anche qui la sua collaudata competenza ed i miei ambiziosi scavi già avviati fra gli inediti biografici isolani. Amava la loggia Hiram, quella stessa di Armando Corona e Nino Ciusa e Vito Tola e degli altri già del Centro di programmazione, dei suoi amici sardisti ormai insediatisi, come a casa loro, senza nessuno sforzo di adattamento ideologico né politico, nel partito di Giuseppe Mazzini e di Bovio e Colajanni – il difensore della Sardegna dal lombrosismo del Niceforo – e di Ugo La Malfa, siciliano e meridionalista per obbligo di coscienza.
Gli dicevi “ciao” e lui partiva, affabulatore nato, raccontandoti la storia del mondo, iniziando dalla fonte prima dell’universo mondo che, naturalmente, era la Sardegna, forse l’Ogliastra, forse Esterzili (di cui era stato anche sindaco, di necessità più nel fine settimana che nei giorni feriali). Ti raccontava delle sue esperienze, non soltanto dei suoi studi, di archeologo – Barumini ma non soltanto Barumini, e comunque il professor Lilliu fu il suo maggior maestro –, di storico dell’antichità e di paleontologo. Ti raccontava, arrivando al particolare – riguastando la cosa per farla gustare anche a te – dell’artigianato e di quello artistico specialmente, ti diceva dei tessuti e dei metalli, del genio grafico che sapeva dar loro personalità, e delle tessitrici o degli orafi nostri, i più con la competenza appresa secondo la regola dei ragazzi di bottega, mica all’università… Giustamente gli avevano dato parte nell’amministrazione dell’ISOLA, quando l’Istituto era riuscito ad affermare il marchio sardo nel mondo. E lui, Fernando, con l’artigianato artistico della Sardegna, era il miglior ambasciatore che ci saremmo potuti permettere, dotto affabulatore anche nei circoli dell’emigrazione sarda in patria e fuori.
Quanto ha scritto Fernando Pilia! Ho fatto un sondaggio rapido all’OPAC: 77 titoli. Io direi settanta volte 77 e non basterebbe il ricalcolo, se aggiungessi le schede radiofoniche che pur saranno censite negli archivi della RAI, e quelle de L’Unione Sarda – in terza o nelle pagine provinciali – che anch’io, con la pazienza del ragazzino fissato, ho cominciato a ritagliare cinquant’anni fa. Attraverso la curiosità volante, muovendo dall’episodio ti spiegava i millenni della Sardegna, fra Amsicora il sardo-punico ed Eleonora la sarda-catalana, Angioy e Lussu, la Deledda e, magari, i poetanti in lingua sarda… Dunque, settecento volte 77, in almeno cento testate e case editrici.
So che da alcuni anni esiste un premio intitolato al nome di Fernando Pilia. Non ne conosco i particolari, spero non sia una cosa modesta come quella che avrebbe potuto, essendogli intitolato il concorso, valorizzare la produzione giornalistica o narrativa o teatrale di Fabio Maria Crivelli, e niente di questo è stato. Anche qui per Fernando: il concorso/premio ha promosso la schedatura dei suoi scritti: dico degli scritti dello storico-archeologo, del saggista, del pubblicista? (Si aggiunse agli iscritti all’albo dei pubblicisti nel 1966, che fu l’anno prodigio per la categoria laureata: si associarono allora uomini come Mario Ciusa Romagna e Francesco Masala, Armando Congiu e Aldo Brigaglia – questi giovanissimo – e altri venti o trenta di tutte e tre le province storiche).
Fra anni ’70 e anni ’80, e dopo ancora seppure con minore frequenza, gli scambi con lui mi arricchirono sempre. Credo di possedere sempre una intervista audio che registrai a casa sua, una volta – doveva essere il 1984 o il 1985 e mi preparavo allora ad un convegno all’università di Sassari sul rapporto storico fra i repubblicani ed i sardisti: mi offerse, per la parte che ne aveva avuta lui, una testimonianza documentata e argomentata, e quella relazione che era ideale prima ancora che strettamente politica, ma fu anche politica e anche elettorale, la sapeva storicizzare: c’era nel giro anche il giovane professor Tito Orrù allora, nelle liste sardiste votate dai repubblicani, sempre alle amministrative, sempre alle regionali, nel 1963 anche alle parlamentari (allora l’on. Giovanni Battista Melis fu eletto deputato grazie ai resti dei voti repubblicani nei collegi di Romagna e Lazio e Piemonte e Campania… dono del continente italiano alla Sardegna italiana). Fra il 1967 e il 1968 la rottura dopo cinquant’anni, da quando gli ex combattenti e i proto sardisti della Voce dei combattenti e de Il Solco riempivano le pagine dei loro giornali del catechismo di Mazzini e Cattaneo, di Asproni e Tuveri… I babbi nostri erano gli stessi, poi venne Antonio Simon Mossa – l’angelo vindice delle minoranze etniche e delle lingue tagliate – e cominciò a inventare una storia nuova, misconoscendo i padri, forse anche – lo dico con tutto rispetto, e qui con riferimento esclusivamente al dato politico-ideologico – quel suo avo repubblicano che, prima di diventare il grande giurista da tutti conosciuto, era stato da adolescente, nel 1904, l’animatore de L’Edera sassarese e in quegli anni d’inizio Novecento uno degli apostoli della Federazione Giovanile Repubblicana Italiana, dico di Renzo Mossa, del professor Lorenzo Mossa.
Tutto cadde: io l’ho capito come un virus sgradevole questo rimando ad una alterità sarda come venisse da una certificazione crismale ed astorica. La marginalità sarda nel maggior contesto italiano io l’ho sempre avvertita causata più dalla miope modestia della classe dirigente sarda nel suo complesso – compresa la quota sardista, drammaticamente scadente quella degli ultimi decenni, dico anche quella scandalosa dell’alleanza con la fiamma tricolore parafascista e con forza italia (italia!!!) alla Regione e nei maggiori comuni isolani. Quando si perde il senso dei fondamentali e si va per iperboli…
Ecco, questa partecipazione, con tutta la originalità della sua storia e della matrice geografica di questa storia, della Sardegna all’Italia ed alla Repubblica democratica nata dal sacrificio due volte decennale degli antifascisti e dei resistenti , io in Fernando Pilia l’ho sempre sentita. Sarà stato che egli, da uomo di scuola, recava in sé un sentimento pedagogico che non poteva mettere in non cale l’intensa italianità, prima urbana poi anche rurale, della nostra Isola, non per omologare ma per arricchire, noi il continente e il continente noi. Quindi il pensiero si volgeva all’Europa, che era nei sogni dei sardisti stessi della prim’ora e com’era a noi ragazzini delle scuole medie proposto in quei primi anni ’60 che erano ancora gli anni dello sviluppo economico (ma anche della coda della nostra emigrazione di massa), del Piano di Rinascita, dei tentativi programmatori della politica d’esordio del centro-sinistra moroteo…
Dopo la rottura fra il PRI e il PSd’A e prima però che i sardisti scissionisti confluissero formalmente nell’Edera repubblicana – l’Edera era il simbolo della Giovine Europa ed i suoi tre cuori gli emblemi della Giovine Italia, della Giovine Germania e della Giovine Polonia, come a dire delle genti latine, anglosassoni e slave nella comune partecipazione federativa – tentò, Fernando, un recupero. Me ne dette i particolari, ancora la sua generosità conferita ad una diplomazia rimasta purtroppo infruttuosa. Ma i suoi amici migliori – ho nella memoria qualcosa del genere, presa dalla sua confidenza – erano fra quelli che se ne erano andati, e infatti anche Anselmo Contu, che pure non fu fra gli scissionisti, e anche Luigi Oggiano, pure lui trattenutosi dal passaggio di fronte, smisero di lottare, restarono disciplinati nel loro partito, che faticavano comunque a sentire il loro, tanto più quando s’alzò, spudorato, il vento del nazionalitarismo, intimamente – è la mia lettura del fenomeno – reazionario.
Al congresso regionale (ancora regionale? poi sarebbe stato nazionale) della primavera 1974, alla Fiera, si opposero due linee: quella di Michele Columbu, deputato in carica eletto come sardista nelle liste del PCI, e quella di Mario Melis, allora consigliere regionale (alla sua prima esperienza di legislatore). Il congresso chiudeva il corso trentennale della segreteria politica di Giovanni Battista Melis – portato alla presidenza – e affidava il partito alla più giovane leva. Vinse Columbu, un intellettuale di grande fascino e vita intensa, fra Ollolai e Cagliari e Milano, con la sua linea sostanzialmente separatista, perse Mario Melis che era sostenuto, fra gli altri big anche elettorali, da Bruno Fadda, pure lui consigliere regionale. E con Fadda era Fernando Pilia. Insieme esitarono un giornale – Il Risveglio autonomista – di cui uscirono cinque numeri in tutto, tanto più in preparazione al congresso. Erano essi la voce della sezione cagliaritana “Nuova Autonomia”, e i padri della patria – patria sardo-italiana – c’erano tutti, nel catechismo del “pensiero sardista”: con Bellieni e Puggioni naturalmente il Mazzini del 1861 e del 1867 come il Tuveri del 1867. Per dire che il sardismo era il dono della Sardegna all’Italia.
Questi gli articoli firmati da Fernando Pilia nella breve serie:
“L’ora della Sardegna” (editoriale di presentazione, n.u. novembre 1973),
“I 4 mori: il significato dello stemma” (idem);
“Sardinia off limits. Terra di conquista ovvero l’assurda realtà delle servitù militari” (n. 1, gennaio 1974);
“Ritorno alle origini” (n. 2, febbraio 1974);
“Passa per il Sardismo la via della Rinascita” (pastone sui lavori del XVII congresso, che lo vede eletto membro del comitato centrale per la provincia di Nuoro e nell’esecutivo politico, n. 3, marzo-aprile 1974).
Un ultimo riferimento alla biografia pubblica di Fernando Pilia lo porterei però dalla politica alla società, direi meglio alla città che lo accolse e che egli onorò fino alla morte, avvenuta nel 2003 dopo una cattiva malattia protrattasi a lungo. Mi riferisco ai tre grandi volumi di “Cagliari e il suo volto”, ottocento pagine di testi e fotografie della città antica e della città moderna. Il titolo del primo capitolo: “Cagliari, con rabbia e con amore”. A dire non soltanto delle colpe e dei meriti virtuosi della città, ma anche delle sue varie relazioni con il continente oltre Tirreno, con l’Europa e gli spazi immensi nelle direttrici dei quattro punti cardinali, ma prima ancora con i territori dell’interno dell’Isola… Chissà se è ancora così come Fernando Pilia l’aveva sentito, scrivendone, questo rapporto problematico con le Barbagie e il Logudoro o la Gallura…
By Pietro CABRAS, 21 aprile 2016 @ 09:52
Caro Gianfranco,
grazie per aver rievocato Fernando Pilia (che per me è sempre rimasto “Il Professore”) e la Scuola media n°1 col suo trasferimento in via Venezia, entrambi cardini della mia adoloscenza. Leggo spesso i tuoi densissimi articoli, testimoni della profondità della tua fede repubblicana, che ricordo sempre orgogliosamente, ma discretamente, manifestata. Noto con piacere che in te è sempre presente, nonostante la scomparsa del partito. Io la chiamo coerenza e fedeltà ai propri valori, e trovo che sia una qualità encomiabile, anche a prescindere dal punto di vista sostenuto. Personalmente ho preso un cammino diverso; sono da 34 anni in Lussemburgo, alla Comunità Europea, anche se continuo a seguire da vicino la mia terra, la Sardegna. Se manderai una riga di risposta mi farà particolarmente piacere, vorrà dire che anche tu ti ricordi di me.
Un caro saluto
Pietro CABRAS
By GIANFRANCO MURTAS, 21 aprile 2016 @ 19:16
Caro Pietro,
nei mille giorni trascorsi nella scuola di via Venezia (venendo da Villanova i “passaggi”ce li davano allora i filobus della linea 5 o di quella 6/10, e lì esordimmo raggiunti dalla notizia dell’assassinio del presidente Kennedy) ricolloco, fra le tante, una memoria: alla professoressa Vera Porrazzo che m’interrogò circa l’affezione – chiamalo trasporto sentimentale, rivelato forse da qualche tema in classe – che da sardo avvertivo nel mio intimo verso le distinte realtà dell’Italia e dell’Europa, risposi premiando la seconda e quasi mortificando la prima. Era la risposta di un ragazzino di dodici anni che non aveva statura tale da uscirsene con elaborazioni profonde, vinceva forse la suggestione delle giornate europee che già allora erano giustamente promosse nelle scuole dello Stato. E dall’altra parte, in quello spicchio di calendario che marcava molte novità migliorative, contraddette però da una persistenza di approccio coloniale che mi pareva di cogliere nei continentali verso noi isolani, mi veniva di reagire d’istinto, saltando l’Italia del presente e puntando ai miracoli sperati dal gran cantiere comunitario, quello del Mercato Comune Europeo e della CEE, dalla CECA e dell’Euratom. Le sigle entravano, suadenti, nella testa dell’adolescente, pareva fossero i segnali orientativi di un mondo che a lui, creatura in formazione, cominciò allora ad apparire straordinariamente grande, complesso e stratificato. E affascinante. L’adolescente aveva teso le sue antenne, ingenue e forse presuntuose, a quel mondo grande tutto da esplorare – a destra la storia, a sinistra la geografia –, ma era combattuto sempre fra un impulso semplificatore, quasi schematico o sbrigativo – talvolta vincitore –, e un impegno (avvertito come dovere faticoso ma non ovviabile) alla analisi, al confronto delle tesi opposte, al giudizio ponderato degli elementi conosciuti, parziali per definizione.
Oggi articolerei molto la risposta a quella domanda, perché Italia ed Europa non sono concorrenti in una gara per i piazzamenti di valore e l’assegnazione delle medaglie. L’Italia ho imparato a sentirla, con Cattaneo, come comunità delle comunità territoriali, distinte per cultura e storia ma reciprocamente bisognose, direi esistenzialmente bisognose di federalismo; con Mazzini (e magari con il Gioberti del “primato morale e civile degli italiani”) ho imparato a sentirla in un campo di dignità tutta oblativa, l’opposto che imperiale: per la condivisione fra le nazioni dei principi di umanità e democrazia, per come erano sentiti in quella metà dell’Ottocento e per come ben possono, ancora oggi, essere avvertiti dai popoli che mutuamente si chiamano prima che siano gli stati a chiamarsi, perché l’incontro civile (e culturale e religioso e anche economico) precede il trattato diplomatico che esso può suggerire per utile regolamentazione.
Tu, caro Pietro, realizzi con il tuo servizio negli uffici dell’Unione Europea la gran cosa che è la democrazia condivisa, e realizzi, nel fare concreto, quello che altri, in periferia, soltanto auspicano. Sei molto più avanti, sei necessario e prezioso ai tempi nuovi che si aprono e sono chiamati ad accogliere le nuove generazioni assicurando ad esse un protagonismo politico volto a dar corpo a una società inclusiva e aperta. Lavori per dare materialità al sogno profetico di Giuseppe Mazzini e della Giovine Europa, lavori a dare contenuto alla nostra aspirazione di adolescenti che, secondo l’insegnamento di Fernando Pilia, sentivano e sapevano che la Sardegna non era soltanto terra di memorie millenarie, di nuraghi e giudicati, ma terra di un’umanità che doveva conquistarsi, nei tempi nuovi, uno spazio e un riconoscimento.
In quegli anni in cui sentivamo la lezione del professor Pilia erano i nostri lavoratori delle campagne che dovevano lasciare la loro e nostra terra per conquistarsi da vivere, con le loro giovani famiglie, trasformandosi in operai industriali, nella diffusa ostilità, tante volte, delle città che dovevano accoglierli ed a cui restituivano comunque ricchezza. In questi tempi recenti o presenti sono i nostri giovani più spesso acculturati che non trovano spazi di realizzazione nella regione di nascita e formazione e sono costretti a lasciare. E se certamente la nozione della mobilità oggi esprime contenuti diversi, meno drammatizzati, rispetto a quelli del passato, ciò non di meno constatiamo ancora una volta l’impoverimento di futuro sociale per la Sardegna, di cui sono segnale lo spopolamento del territorio, la denatalità, l’assenza di un disegno di sviluppo “autoprodotto”. E mentre misuriamo la inadeguatezza abissale, sconfortante, dei ceti dirigenti isolani, non soltanto nella politica, ma prima di tutto nella politica, in quanto a progettualità e sapienza amministrativa, dobbiamo registrare noi stessi come comunità accogliente dei dannati della terra. Siamo qui, noi, avamposto dell’Europa verso l’Africa o il Medio Oriente a subire, non gestire – data la diserzione delle istituzioni europee – il fenomeno dei flussi della disperazione, e così ci pare di avere in contemporanea tante parti in commedia. La cattiva credibilità del governo Renzi, dopo lo sgoverno della destra qualunquista e plebiscitaria compiuto per lunghi anni nel disdoro di tutte le istituzioni repubblicane, sembra non consentire negoziati fruttuosi e di riequilibrio, ma questa Sardegna d’emigrazione/immigrazione, stretta nella tenaglia, pare un ibrido che non potrà a lungo sopportare la sua contraddizione, a meno che non decida – non lo potrà – , con l’Italia tutta, di farsi altra cosa rispetto a quella che doveva e voleva essere.
Questa povertà crescente sembra affrontata, in Sardegna come nelle sedi politiche nazionali, con le politiche cosiddette riformiste. Ma non è il riformismo, bensì lo spirito riformatore – che è ben altra cosa, come suggeriva, nei suoi tempi anch’essi ingrati, Ugo La Malfa – lo strumento operativo di un risanamento che richiede qualche radicalità. E questa radicalità non può essere sostenuta che da un recupero di senso della storia e della missione che l’Europa – leggi il governo europeo, i convergenti governi nazionali – è chiamata a svolgere in questo inizio di millennio. Tenendo conto dei nuovi protagonisti sulla scena del mondo, così diversi da quelli che si presentavano al tempo dei trattati di Roma: pensiamo al processo ormai concluso della decolonizzazione, al principato economico cinese o a quello indiano, alla polverizzazione dell’oltre cortina poststalinista, alle nuove complessità statunitensi (se non sarà Hilary a vincere le elezioni).
Fernando Pilia, che gustava il particolare del bronzetto o dell’arazzo del nostro passato e ce ne raccontava la virtù, ci ha educati a pensare in grande. Cinquant’anni dopo la sua lezione gliene dobbiamo una testimonianza, con puro spirito partecipativo.
Ebbi anni fa, quando mi occupai dell’antifascismo democratico e del sardoazionismo, un gratificante contatto epistolare, proprio da Bruxelles, dal cuore delle istituzioni europee e così prossimo al tuo Lussemburgo, con Nicola Bellieni, figlio del grande Camillo, dottore del sardismo delle origini secondo il filone liberista/salveminiano, e la cosa mi aveva suggerito il rimando ideale interno a quel passaggio generazionale: il sardismo europeista delle origini, non il sardismo nazionalitario (e separatista) del dopo, no, il sardismo democratico d’impianto cattaneano e mazziniano, di respiro italiano com’era il respiro di Asproni e Tuveri, com’era stato, pur con tutte le sue tragedie umane e le forzature militariste, negli anni della grande guerra, respiro poi corrotto in tante deviazioni intimamente reazionarie del genere “noi sardi voi italiani”.
Alla maturità portai la tesina sull’Europa, il mio primo articolo su L’Unione Sarda, ormai quasi mezzo secolo fa (“pagina dei giovani”, direttore Crivelli), fu sull’Europa. L’8 maggio 2010 tenni, su invito della loggia massonica Europa attiva a Cagliari, una lunga relazione circa l’influsso della Libera Muratoria sul pensiero europeista, da Mazzini in qua. La fedeltà è rimasta ai fondamentali, e il degrado della politica sarda e italiana tout court (ma ormai temo non sia più soltanto quella italiana) costringe quasi all’eroismo nella difesa del patrimonio di valori che abbiamo ricevuto perché li impreziosissimo e li passassimo ai successivi. Democrazia e laicità, umanità e tolleranza, repubblica e responsabilità dell’autogoverno nelle compatibilità di sistema, sono le basi di un sentire comune di cui gli ambienti politici e culturali frequentati e formatori mi hanno fatto moralmente sentinella.
Caro Pietro, certo che ti ricordo talentuso e caro, cordiale nel senso etimologico pieno, presente nei ritorni di memoria adolescenziale nella scuola che si sarebbe intitolata a Giovanni Battista Tuveri, apostolo della repubblica sognata, direi anche testimone di una moralità che era vissuta ed era tangibile da chi ne poteva accostare il portatore, la persona cioè, non soltanto, di questa, il pensiero. Ecco qui anche il nostro indimenticato professor Fernando Pilia, negli anni in cui il Cagliari esordiva in serie A. Ci ha insegnato che avevamo in potenza, come sardi, come Sardegna, i mezzi per passare, dalle retrovie umiliate, alla A non solo dello sport ma anche e soprattutto della civiltà chiamala umanista, della economia, della scuola, magari del giornalismo, della letteratura, dell’associazionismo, dell’amministrazione… aprendoci, non chiudendoci, non temendo mai, per una buona causa, di essere minoranza.
Abbracci cari, fatti vivo quando vieni a Cagliari, gianfranco murtas