Il Papa e l’emergenza migranti, un doppio sguardo sulla realtà, di Mauro Magatti

Con le sue iniziative, Francesco sollecita direttamente la coscienza di ciascuno di noi, non solo dei cristiani, ridisegnando i rapporti tra politica e religione.

Davanti all’impetuoso afflusso di profughi — che come ha riconosciuto qualche giorno fa il presidente della Banca mondiale è destinato ad aumentare — la politica si trova intrappolata in un dilemma insolubile: se apre troppo, rischia di venire travolta dalle reazioni, più o meno sensate, che nascono nelle pieghe di una società spaventata e disorientata; se, invece, chiude troppo, ascoltando il malessere diffuso, tradisce se stessa e i valori che la fondano.

Lo si vede bene in Europa, dove il fenomeno migratorio è un cuneo che, insinuandosi tra il groviglio degli interessi in gioco, rischia di scardinare le stesse istituzioni comunitarie. Di fronte a un fenomeno umano imponente, occorrerebbe prima di tutto ammettere che c’è un punto che sfugge alla nostra presa. I potenti mezzi tecnici e economici di cui disponiamo si rivelano inadeguati a gestire l’umanità che preme alle nostre frontiere. Al di là della prima accoglienza, l’integrazione di centinaia di migliaia di persone è un processo lungo e difficile, mentre la possibilità di incidere a breve sulle cause degli arrivi rimane limitata.

Se vogliamo essere onesti, dovremmo dire che la «soluzione» — se per soluzione si intende il raggiungimento di un risultato senza residui — non c’è. E che, senza finire schiacciati dall’emergenza, l’obiettivo non può essere che quello di rendere sostenibile una questione causata dal disordine dell’attuale contesto internazionale, lavorando contemporaneamente su più fronti — culturale ed economico, nazionale e internazionale, umanitario e politico — nella consapevolezza della limitatezza degli strumenti a disposizione rispetto a entità e natura del problema.

Un modo di fare che la politica fa molta fatica a reggere, viste le pressioni a cui è soggetta. Muovendosi all’interno di un piano propriamente religioso, distinto, anche se non separato, da quello politico, il Papa punta a mettere in moto un dinamismo positivo che, se ben compreso, può essere di grande aiuto. Alla politica e a tutti noi.

Francesco, infatti, con gesti concreti e altamente simbolici, ha deciso di esporsi in prima persona al «contatto» con gli uomini e le donne che rischiamo di finire stritolati dai processi storici del nostro tempo: dopo Lampedusa, primo viaggio da pontefice, sono seguiti, in una sorta di crescendo, la messa celebrata sul confine tra Usa e Messico, la lavanda dei piedi del giovedì santo nel centro di accoglienza alle porte di Roma e, infine, il viaggio a Lesbo. In questo modo, Francesco vuole ricordare che — prima e al di là di tutte le altre considerazioni che, su piani diversi, si possono e si debbano fare — non c’è società pienamente umana senza dignità di ogni singola persona, reciproco riconoscimento, capacità di accoglienza.

Con le sue iniziative così forti e provocatorie, Francesco sollecita direttamente la coscienza di ciascuno di noi, non solo dei cristiani. Perché prima ancora del piano istituzionale — che rimane fondamentale — c’è una dimensione umana che ci tocca tutti. Un po’ come ci piace ricordare a proposito di quei giusti che, nell’epoca delle persecuzioni degli ebrei, trovarono il modo di aiutare concretamente qualche fuggiasco. In questo modo, Francesco apre un dinamismo entro cui la politica può e deve affrettarsi a trovare la propria misura. Fatta di scelte chiare, intelligenti, sostenibili. Che, concretamente, significa creare le condizioni perché un (vero) problema possa trasformarsi in un’occasione per creare lavoro (sì, perché l’inserimento degli stranieri è un’impresa che impegna anni), contrastare l’inverno demografico (sì, perché l’invecchiamento della popolazione è un problema grave che può essere contrastato anche con i nuovi arrivi), costruire nuovi equilibri internazionali (come suggerisce l’ultima proposta del governo italiano).

Un’ultima osservazione. Nel suo viaggio a Lesbo, Francesco ha realizzato un altro piccolo capolavoro: la composizione di due delle linee fondamentali del suo pontificato — l’attenzione ai rifugiati con l’apertura ecumenica. La visita a Lesbo insieme al patriarca ortodosso Bartolomeo è un atto simbolicamente potente, che spinge avanti il cammino di convergenza delle chiese cristiane. In questo modo, Francesco ridisegna i rapporti tra politica e religione, riattualizzando quello che, secondo il filosofo francese Pierre Manent, costituisce uno dei tratti distintivi della storia occidentale: la convivenza, nella scena pubblica, di un doppio sguardo — quello politico e quello religioso — sulla realtà. Un doppio sguardo sempre difficile da sostenere e ricomporre, ma che ha costituto uno dei segreti più fertili e profondi della vicenda occidentale. Se si vogliono cercare le radici cristiane dell’Europa, è a Lesbo che si potrà trovarle.

il correre della sera, 17 aprile 2016 (modifica il 17 aprile 2016 | 18:59)

 

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