L’impresa di MARIO PUDDU, di Giulio Paulis

M. Puddu,  Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda, 2a ediz., Condaghes, Cagliari 2015. Presentazione del 15.12.2015, aula B.R.  Motzo, Facoltà di Studi Umanistici, Cagliari.

Nella sua illustrazione introduttiva Mario Puddu ha offerto un quadro esauriente della struttura del Dizionario e delle novità introdotte in questa seconda edizione. Dal complesso dell’esposizione e dai dati quantitativi forniti si deduce facilmente quale impegno totalizzante abbia richiesto la realizzazione di questa opera in termini di tempo, di fatica e di costante dedizione al lavoro.

Circa il modo di concepire la natura e le motivazioni dell’impegno che si sobbarca l’autore di un grande dizionario sono state espresse nel corso dei secoli opinioni molto diverse.

C’è chi ha parlato addirittura di tortura, in considerazione della lunga durata dell’impresa e delle difficoltà di vario tipo che occorre superare per portarla a compimento.

Così, Giulio Cesare Scaligero, dottissimo letterato del Cinquecento, sosteneva che i peggiori criminali dovrebbero essere condannati non già alla pena capitale o ai lavori forzati, bensì a compilare dizionari, dal momento che tutte le torture più raffinate sono comprese in questo tipo di lavoro.

Altri lessicografi, invece, hanno rappresentato in modo più tranquillizzante e quasi idilliaco la propria attività, descrivendola come particolarmente distensiva ed appagante. Per esempio, James R. Hulbert, lessicografo statunitense, coeditore di un dizionario storico dell’inglese d’America, pubblicato a cavallo degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, era solito affermare che la lessicografia non rende la vita ansiosa, né fa sorgere speranze che poi andranno miseramente deluse. Ciò che, invece, non di rado accade nella ricerca scientifica, quando uno studioso, dopo aver dedicato mesi e anche anni per verificare un’ipotesi, alla fine si accorge che essa non regge e dunque la lascia cadere, vanificando così tutto il tempo impiegato, oltre che la fatica. Al contrario, secondo Hulbert, il lessicografo si misura ogni giorno con problemi nuovi, in genere piccoli ma interessanti. Al termine della giornata egli si sente stanco, ma felice di aver concluso qualcosa e di aver fatto un passo avanti verso il completamento dell’intera opera.

Altri lessicografi, infine, hanno concepito il proprio lavoro come una missione. Tra questi, ad esempio, Niccolò Tommaseo, autore con la collaborazione di Bernardo Bellini, del famoso Dizionario della lingua italiana, che fu pubblicato a fascicoli tra il 1861 e il 1879, all’indomani della conseguita unità d’Italia.

Tommaseo considerava la lingua come uno dei più forti vincoli che stringono alla Patria e riteneva che la partecipazione alla raccolta dei dati per l’elaborazione di un dizionario nazionale dovesse essere avvertita come un impegno morale e civile da parte di tutti i parlanti. Sino al 2002, anno in cui si è conclusa la pubblicazione del Grande dizionario della lingua italiana, a cura di Salvatore Battaglia e successivamente di Giorgio Bàrberi Squarotti, quello del Tommaseo è stato l’unico dizionario storico dell’italiano disponibile nella totalità, dall’A alla Z. Nel 1977 è stato ristampato in anastatica dalla Rizzoli, nella collana della Bur, con una nota illustrativa del grande filologo Gianfranco Folena che ne confermava la dimensione di vero monumento nazionale.

Fatta questa premessa di tipo storico-psicologico, ora ci chiediamo: e Mario Puddu come si colloca in relazione al modo di concepire l’attività e il compito del lessicografo?  Che posizione occupa nel continuum che parte dalla visione terrificante dello Scaligero, passa per quella pacificante di James Hulbert e arriva all’ideale missionario del Tommaseo?

Penso di non sbagliare assegnando a Puddu un posto nel segmento del continuum che va dalla visione pacificante di Hulbert all’ideale missionario del Tommaseo, con più spiccata propensione verso la polarità rappresentata da quest’ultimo. Infatti, come mostra la vicenda pluridecennale del dizionario che stiamo presentando, Puddu, se mi posso permettere questa definizione, è un pasionario della lessicografia sarda, essendo prima di tutto un pasionario della lingua sarda. Alla documentazione e alla codificazione del sardo, anche attraverso la pubblicazione di una Grammatica, uscita nel 2008, egli ha dedicato ormai da tempo tutte le proprie energie e risorse intellettuali e materiali. Da più di una dozzina d’anni tiene anche il laboratorio di lingua sarda per gli studenti del corso di laurea in Lettere della nostra Facoltà e ha dato il suo contributo a varie iniziative della Facoltà (master, corsi di perfezionamento, ecc.).

Non è questo il momento né la sede più adatta per soffermarmi su determinati aspetti della macro e della microstruttura del dizionario che potrebbero essere oggetto di discussione, con specifico riguardo alla tecnica lessicografica. Infatti, affrontando tematiche di questo tipo, consone piuttosto a una recensione da pubblicare in una rivista accademica, metterei in ombra aspetti ben più importanti relativi al Dizionario.

Tra questi, naturalmente, emerge in primo luogo il fatto che il Dizionario di Mario Puddu è il primo e unico dizionario moderno monolingue del sardo, che, per numero di pagine ed estensione del lemmario (oltre 111000 lemmi), comincia ad avvicinarsi alle dimensioni dei più comuni dizionari d’uso della lingua italiana, come lo Zingarelli, il Garzanti, il De Felice-Duro, il Devoto-Oli, ecc. (anche se bisogna tener conto della ripetizione dello stesso lemma nelle diverse varianti locali). Monolingue – lo ricordo – vuol dire che la lingua impiegata per le definizioni dei lemmi, come pure per le spiegazioni lessicografiche e per tutte le notizie di carattere enciclopedico, è il sardo.

In questo modo, e anche grazie alla ricca esemplificazione addotta, consistente in ben selezionate citazioni tratte dalle opere di oltre 640 autori, il lettore ha la possibilità di assumere conoscenza e d’impratichirsi di ciò che Puddu chiama su manìgiu de sa limba, cioè il funzionamento e l’uso concreto di una parola in rapporto alle varie dimensioni che le appartengono: le dimensioni fonetico-fonologica, morfologica, sintattica e semantico-pragmatica. Si tratta – come ognuno può facilmente comprendere – di un sussidio fondamentale per chi vuole controllare il significato di una parola e verificarne le modalità d’impiego sotto ogni profilo; strumento nel contempo importantissimo anche per chi si propone di acquisire un uso attivo del sardo o, avendone già una qualche forma di competenza, intenda accrescerla e affinarla.

Ma l’esistenza di un dizionario d’uso, monolingue come quello di Puddu, ha anche un altro significato assai rilevante, su cui è doveroso richiamare l’attenzione.

Ladislav Zgusta, linguista e lessicografo di origine ceca naturalizzato americano, morto nel 2007, ha legato il suo nome a molti lavori lessicografici e a uno dei primi manuali di lessicografia, uscito agli inizi degli anni Settanta del secolo passato. Per dare un’idea dell’influenza che questo studioso ha esercitato in questo campo, basterà dire che è stato definito the godfather, cioè il “padrino”, della lessicografia del Novecento. Un capitolo del su ricordato manuale è stato ripubblicato attorno alla metà degli anni Novanta, con aggiornamenti dello stesso Zgusta, in un’opera collettanea incentrata su temi di lessicografia teorica e pratica. Nel suo contributo questo studioso scandisce le tappe che normalmente percorre la lessicografia relativa alle lingue prive di uno standard sufficientemente sviluppato. E rileva come i dizionari monolingui è bene che siano preceduti, come in effetti solitamente lo sono, da dizionari bilingui piuttosto semplici, in cui la glossa dei lemmi della lingua in via di sviluppo sia espressa nella lingua di cultura in uso nel relativo territorio. Infatti, sottolinea Zgusta, non bisogna dimenticare che è difficile e frequentemente impossibile formulare le definizioni delle entrate lessicali in una lingua il cui standard nazionale non sia ancora pienamente stabilizzato ovvero manchi di molte parole necessarie. Soltanto dopo che lo standard nazionale si è sufficientemente stabilizzato e si mostra capace di assolvere questo compito, allora la realizzazione di un dizionario monolingue d’uso diventa una necessità di prim’ordine.

Bene. Le cose in Sardegna sono andate proprio come ha indicato Zgusta, fatta salva l’eccezione rappresentata dal dizionario campidanese-italiano di Vincenzo Raimondo Porru, pubblicato nel 1832, in cui il significato dei lemmi, oltre che con un traducente italiano, è espresso concisamente anche in campidanese. Tuttavia, rispetto al Dizionario di Mario Puddu, l’uso che si fa del sardo come lingua di servizio del lessicografo è molto limitato: come mangiare un panino in un fast food (il dizionario di Porru) e consumare un pranzo completo in un ristorante di alta cucina (il dizionario di Puddu).

Alla luce di queste considerazioni, possiamo affermare che, se oggi possediamo un dizionario monolingue d’uso come quello di Mario Puddu, ciò significa che il sardo è ben avviato verso il raggiungimento di un grado sempre magiore di elaborazione.

Certo, è anche vero che il dizionario di Puddu non include la terminologia dei linguaggi specialistici di uso comune, cosa che invece fanno tutti i dizionari monolingui d’uso dell’italiano e delle altre lingue di cultura europee. E ciò – come avverte Puddu nell’introduzione – non perché si ritenga che il prestito di termini specialistici, peraltro comuni a tutte le principali lingue standard del mondo occidentale, costituisca un pericolo per la purezza della lingua. Bensì per un’altra ragione: cioè per il fatto che si ha coscienza della situazione poco incoraggiante in cui versa la lingua sarda nei nostri giorni, situazione che risulta caratterizzata dalla diffusa progressiva erosione del lessico anche più comune, e, aspetto giudicato da Puddu ancor più preoccupante, dalla decadenza della competenza sintattica.

Stando così le cose, Puddu ritiene più urgente operare per ripristinare o attivare ex novo la competenza sintattica e il possesso delle molteplici manifestazioni del codice retorico della lingua (unità lessicali complesse, collocazioni, frasi fatte, modi di dire, espressioni idiomatiche e proverbi), obiettivo al quale mira sia la fraseologia presente nelle citazioni esemplificative (oltre 42000 sezioni), sia la trattazione dedicata alle proprietà e usi del lemma e alle caratteristiche e  impieghi del referente denotato.

Tuttavia, la lingua, così come Puddu è in grado di maneggiarla, ha raggiunto una maturità tale, da far pensare che l’ultimo passo possa essere compiuto con una certa prospettiva di successo. E ciò pare ipotizzabile, a giudicare dal modo in cui lo stesso Puddu è in grado di definire determinate nozioni attinenti ai lessici specialistici di taluni settori, come la fisica e la medicina.

Mi permetto di sottoporre alla vostra attenzione un esempio per ciascuno di questi due ambiti tecnico-scientifici. Il primo riguarda la definizione di zero assolutu; eccola:

temperadura a 273 °C grados asuta de su zero, candho is molècolas de sa matéria no si movent prus in nudha (e no faet a bíere cambiamentu coment’e candho sa matéria, cun s’aumentu de sa temperadura passat de s’istadu sólidu a su lícuidu e a su gassossu e is molècolas si movent sèmpere de prus e s’istésiant de pare).

L’altro esempio, attinente al campo della medicina, concerne la descrizione del polmone; eccola:

arremu de sa carena, in is animales chi respirant: funt duos, unu a cada bandha in sa càscia de petorras, e portant una canna chi de s’ogroena calat, s’ispartzit in duos cambos mannos e donniunu s’isterret che is naes e cambighedhos de una mata (is bruncos) fintzes chi dónnia cambighedhu sèmpere prus fine accabbat in d-unu buidu pitichedhedhu o calancolu, ue s’ària lassat ossígenu a su sàmbene e de custu ndhe leat s’anidride carbónica.

In relazione a questo punto, l’aspetto abbastanza confortante per le potenzialità della lingua è che si ottiene un risultato convincente sia impiegando alternativamente, a seconda del lemma, il logudorese e il campidanese, come nella prima edizione del Dizionario, sia il cosiddetto sardo di mesania prescelto per questa seconda edizione.

Come si evince da questi due esempi, la spiegazione del lemma va ben oltre il chiarimento del semplice significato linguistico della parola, giacché si estende a una precisa descrizione dell’oggetto denotato e dei connessi aspetti culturali, sì che il Dizionario di Puddu si chiama, a giusto titolo, Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda.

Anche in questo caso mi piace fornire un rapido esempio, ricavandolo da una mia recente esperienza personale. L’altro giorno una conoscente mi ha chiesto notizia del significato del vocabolo campidanese bromígiu, di cui non trovava traccia né nel Dizionario Etimologico Sardo di Max Leopold Wagner, né nel Vocabolario del canonico Spano. Io conoscevo questa parola, per averla incontrata nel Glossario sardo-campidanese di Faustino Onnis, una raccoltina di circa 3000 aggiunte al Dizionario campidanese del Porru, di cui anni fa ho curato l’introduzione. In questo piccolo repertorio bromígiu è glossato in italiano con ‘esca per pesci’ e in sardo campidanese con ‘cosa de pappai po pisci chi usant is piscadoris a gamu’.

Pure Puddu registra la parola, aggiungendo anche la variante fonetica brumígiu, ma in più precisa in che cosa consista esattamente “sa cosa de pappai” che viene gettata ai pesci per attirarli all’amo. Infatti, specifica che bromígiu denota s’esca po pische (ammesturu de sardina, casu, pane, pedrighedhas biancas) chi impreant is piscadores a gamu. Inoltre adduce l’etimologia (l’ital. brumeggio, che sia detto per inciso, è un derivato di brumeggiare ‘pasturare’, voce marinaresca di provenienza ligure, prestito dal greco medievale broma, -atos ‘cibo, alimento’). Infine, nella sezione relativa ai sinonimi il Dizionario riporta anche il sinonimo aesca.

Passando da su pappai po su pisci a quello per gli umani, si consideri la ricchezza di dettagli con cui viene descritto il bel noto dolcetto chiamato terica e varianti:

terica, nf., nm.: tilica, tilicu, tirica, tiricu, trica1, tzirica *cocollitu de saba a forma de coru, de circu, genia de druche fatu cun pasta bogada a pígiu e fata coment’e a canale prenau de saba e cotu in su forru; àtera genia de t. si faet cun chíghere, un’àtera ancora cun mele e méndhula: tiricu est fintzes unu druche fatu ancora cun farra, oos, tzúcuru e cotu in s’ógiu. SIN. caschete, cocollitu, sedhina [] FRAS. //drc÷TRAD. (segnalo che i lemmi del dizionario recanti la traduzione in 5 lingue sono più di 22000)

Per concludere questa mia esposizione, non posso mancare di sottolineare il fatto che il Dizionario è fruibile gratuitamente su internet, grazie alla liberalità della Casa editrice Condaghes, che si è accollata le spese di tutta l’operazione. Nell’Introduzione Puddu segnala che si sono registrati più di 9 milioni e mezzo di contatti.

In alcuni lavori lessicografici degli ultimi anni si legge che il futuro della lessicografia è rappresentato dai dizionari online. L’editore Macmillan, specializzato nella produzione di materiali didattici relativi alla lingua inglese, ha già cessato le pubblicazioni a stampa e offre il suo dizionario della lingua inglese solo su internet: macmillandictionary.com.

Una delle ragioni per cui i dizionari online stanno diventando così popolari è che, rispetto ai dizionari cartacei, essi favoriscono un accesso più veloce ai dati e consentono di interrogarli secondo svariate modalità.

Inizialmente gli specialisti di glottodidattica temevano che la velocità di consultazione potesse andare a scapito della qualità della fruizione. Tuttavia, i test di verifica compiuti a riguardo non hanno evidenziato alcuna differenza significativa nelle prestazioni linguistiche degli studenti che si servono del dizionario online rispetto a quelle degli studenti che utilizzano il dizionario cartaceo.

Se le cose stanno così, la prossima edizione del Dizionario di Mario Puddu, dovrà prevedere interventi di razionalizzazione nel lemmario e nella microstruttura delle voci, anche finalizzati a garantire una maggiore velocità di accesso ai dati. Ad esempio, evidenziando con numeri e lettere le varie accezioni e sfumature di significato delle parole polisemiche e ridistribuendo sotto ogni accezione la fraseologia e gli esempi relativi; lo stesso dicasi per le valenze dei verbi e degli elementi nominali, e così via discorrendo. In questo modo si avvicinerà sempre di più il Dizionario della lingua sarda allo standard dei migliori vocabolari monolingui d’uso della lingua italiana.

Nella Presentada, con molta modestia, Puddu scrive che «custa editzione si depet cunsiderare una base, e mancari própriu sa base, po àere unu cras unu ditzionàriu de sa limba sarda fatu serbendhosi de àteras cumpeténtzias ispecialísticas puru chi como dhue iant a pòdere trebballare po cumpletamentu, averguamentu e errichimentu de is campos semànticos».

Infine, conclusa sa Presentada, Puddu passa ai ringraziamenti di rito, ed esordisce in un modo che merita di essere sottolineato. Leggo: «Su primu arringratziamentu dhu depo a Deus ca no mi at lassau mancare mai sa salude e sa fortuna chi mi ant permíttiu de ispèndhere tempus e dinare». Quindi seguono i ringraziamenti ai familiari e a tutte le altre persone e istituzioni.

Il riferimento a Dio e alla salute mi ha colpito, perché concorda con ciò che Ben Svensén, lessicografo svedese autore di due fortunati manuali di lessicografia, annota al riguardo. Cito:

Compilare un dizionario è un’impresa lunga e faticosa, che richiede grande capacità di lavoro e buona salute. Richiede altresì grande resistenza, perché si deve essere preparati ad attendere numerosi anni prima di poter vedere qualche tangibile risultato del proprio lavoro.

Ebbene, per concludere, desidero augurare a Mario Puddu che Dio gli conservi ancora per moltissimi anni la salute e la voglia di continuare a lavorare al suo Dizionario. Sono certo che questo augurio sarà condiviso da tutti coloro che hanno a cuore il destino della lingua sarda, grati a Mario Puddu per tutto ciò che ha fatto e sta facendo per essa.

 

 

 

 

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